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Liberismo ed imprenditorialità


Adam Smith (1723-1790) famoso economista inglese del '700, difensore delle teorie  liberiste




David Ricardo ( 1772 -  1823),  è - con Adam Smith - il massimo esponente della scuola classica dell'economia.
 




Th. Robert Malthus ( 1766-1834 ). La causa principale della miseria è dovuta al fatto che la popolazione tende ad aumentare più rapidamente dei mezzi di sussistenza.

Le teorie liberiste

Cavour ebbe pratica di testi di economia e di resoconti di riviste economiche fin dai 18 anni. La duchessa di Clermont-Tonnerre, sua zia, osservava che il giovane si occupava con ardore di economia politica, da lei ritenuta "scienza erronea, che danneggia lo spirito e non è di alcuna utilità". Il neofita di quella scienza - impegnato in un vivace scontro generazionale in famiglia - doveva forse avere la sensazione di aver scoperto letture in qualche modo trasgressive. Tale passione e tali interessi lo accompagnarono per tutta la gioventù e formarono la base del suo modo di valutare i grandi problemi di governo e di politica economica. A Ginevra frequentò lezioni di Scerbouliez, a Parigi di Pellegrino Rossi e di Michel Chevalier, a Londra prese contatto con William Nassau senior: tutti famosi esponenti del pensiero economico ottocentesco. A Torino, più tardi, ascoltò le lezioni di due illustri economisti italiani dell'ottocento, entrambi meridionali, Antonio Scialoia e Francesco Ferrara.
Cavour, compatibilmente con gli impegni politici, dopo il 1850 rafforzò la sua cultura economica ed i suoi scritti di "economia applicata" si legano concettualmente a molti degli assunti dei suoi discorsi parlamentari. Le sue posizioni, di tipo liberista, erano accolte tuttavia come trasgressive da un ambiente ostile; venivano infatti intese come espressioni concrete di una ideologia del progresso e della civilisation, che non si accontentava della propaganda di utopie ma intendeva tradursi in pratiche iniziative, affiancate da un'azione politica conseguente.

L'orientamento dominante della dottrina economica del tempo era quello del liberoscambismo o liberismo, fieramente in lotta contro le protezioni doganali, i monopoli, i divieti ed i vincoli statalistici. Dalla libertà degli scambi gli economisti si attendevano decisivi incrementi del commercio e degli affari, riduzione generale dei prezzi dei generi alimentari e delle materie prime, dei salari, dei costi di produzione, accompagnati da generali ampliamenti delle possibilità di consumo e da una espansione delle produzioni più convenienti  a ciascun paese con vantaggi di specializzazione. Un circolo virtuoso, insomma.
Il successo delle teorie liberiste è in stretta relazione inoltre con l'ampiezza degli orizzonti di mercato e della agevole comunicabilità fra questi, con la riduzione dei costi di trasporto. Tali economisti sostenevano due cose: la prima era che la concorrenza aperta costituiva un forte stimolo a sollecitare l'innovazione; la seconda sosteneva che la libertà degli scambi avrebbe creato un'ottimale divisione internazionale del lavoro, perché ciascun paese avrebbe potuto massimizzare le produzioni che gli riusciva più conveniente effettuare, data la composizione  e i costi dei fattori disponibili.

I protezionisti ripetevano vecchie teorie mercantiliste di secoli passati ( la ricchezza di una nazione si realizzerebbe esportando molto e importando poco: si esprimerebbe cioè negli avanzi di bilancia commerciale saldati in oro ), oppure cominciavano a considerare l'industrializzazione come un imperativo da realizzare a tutti i costi. Temevano che la divisione del lavoro potesse produrre un vantaggio per i paesi ad economia industriale a danno dei paesi a prevalente economia agricola.
I liberisti negavano questa affermazione, sottolineando il carattere industriale della stessa agricoltura moderna che poteva darsi organizzazione e capacità tecniche innovative analoghe a quelle delle industrie manifatturiere: Cavour ad esempio credeva che acquisendo conoscenze e competenze avanzate avrebbe potuto rendere elastiche e modificabili le stesse specializzazioni agrarie, evitando "condanne fatali a produzioni meramente primarie"., cioè ad indirizzi monocolturali poco remunerativi.

Le posizioni di Cavour

Cavour non ebbe mai dubbi che le teorie liberiste fossero le più convenienti per quella parte del territorio italiano che cominciava di dare segni di moderna accelerazione della crescita: l'area del futuro triangolo industriale. Egli agirà infatti  nella prospettiva di integrare il settore agricolo con quello industriale , con quello finanziario e dei commerci, anticipando in tal senso più moderne sinergie economiche evidenti in Italia a partire dalla seconda metà dell'Ottocento.
Egli riteneva ad esempio che il ribasso dei prezzi cerealicoli, subito dopo il 1830, dovuto all'arrivo in Europa dei grani ucraini attraverso i Dardanelli, aveva in realtà provocato un generale miglioramento dell'agricoltura anche in Italia, inducendo un mutamento in senso ottimale delle destinazioni colturali, stimolando cioè il passaggio a produzioni più complesse e più redditizie, come l'allevamento o la gelsobachicoltura, altre colture legnose e colture industriali, oltre ad incentivare avvicendamenti, adatti ad accrescere la produttività dei terreni e gli stessi rendimenti di questi in cereali.

Una delle prime posizioni del liberismo cavouriano fu un parere reso al ministro inglese in Piemonte, nel 1842, sui vantaggi anche per la regione sabauda della libertà di commercio dei cereali. Tornò sull'argomento due anni dopo richiamando l'importanza della abolizione dei dazi sul commercio dei cereali, anticipando la decisione del premier inglese Robert Peel del 1846 ( revoca delle Corn Laws ).

 


Sir Robert Peel (1788-1850) nel 1846 revocò le Corn Laws che prevedevano dazi protettivi sull'importazione dei grani e facevano lievitare il prezzo dei cereali ai danni dei consumi popolari. La decisione di abolire le Corn Laws fu conseguente alla grave crisi agricola di quegli anni, causata dalla malattia della patata in Irlanda, che peggiorò in modo drammatico le condizioni alimentari della popolazione.
 

Altra grande disputa italiana tra protezionisti e liberoscambisti aveva riguardato divieti, vincoli, imposizioni sulle esportazioni delle sete gregge. Vietando o ostacolando tale esportazione, se ne teneva basso il prezzo, favorendo la loro lavorazione all'interno, nella torcitura, cioè nella produzione intermedia del filo pronto per la tessitura. Amici di Cavour, come l'avvocato Giovannetti di Novara, o il Giulio, avevano sostenuto il contrario e i fatti avevano dato loro ragione. L'abolizione dei vincoli e il conseguente ribasso sui mercati esteri della sete gregge, ne aveva favorito l'uso e con esso l'impiego nell'industria tessile, con conseguente incremento della domanda mondiale non solo delle sete gregge ma anche dei prodotti filati, fra cui quelli piemontesi. Inoltre la soppressione di quei vincoli aveva stimolato un intenso ammodernamento tecnico per la riduzione dei costi.
 


Una filanda lombarda per la produzione del filo di seta
da http://www.scoprilecco.it/industrie/filande.jpg
 

Un ragionamento analogo Cavour svolse, spiegando che le lane merinos europee avrebbero potuto continuare a gareggiare con quelle neozelandesi o russe se si fosse accresciuta la produttività dell'allevamento, associando alla produzione commerciale delle lane quella dei formaggi ricavabili dal latte degli stessi animali: metodo a lui direttamente noto per esperienza.
La motivazione argomentativa costante del suo liberoscambismo, anche come legislatore e uomo di governo, che scelse sempre la via della pratica applicazione dei principi teorici, fu sempre questa: la concorrenza come pungolo a migliorare ed innovare.
 

Cavour imprenditore e uomo d'affari

Come al solito occorre far riferimento all'opera fondamentale di Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo ( nella sezione intitolata Agricoltura e affari ) per avere precise informazioni sull'attività di Cavour come imprenditore agricolo, che non rinuncia al suo coinvolgimento in ogni sorta di affari, quali la compartecipazione ad attività economiche e finanziarie, che possono utilmente coniugarsi con i suoi progetti di messa a frutto della tenuta di Leri e più in generale con la sistematizzazione dei progressi dell'economia piemontese.

Non è più il caso di toccare in questa pagina il discorso sulle sperimentazioni particolari - supportate dai riferimenti alla letteratura agronomica  - realizzate a Leri, delle spese per i fabbricati rurali, che mutarono il volto della tenuta, della cura per il bestiame, legata alla  scelta agronomica di potenziare la produzione di foraggi, degli impieghi innovativi e non sempre fortunati di nuovi prodotti concimanti, delle nuove tecniche di trebbiatura, operate con trebbiatoi meccanici di concezione inglese, riadattati da ingegneri piemontesi, come il lomellino Rocco Colli...... Tutto ciò rientra nei progetti di un Cavour,  cautamente innovatore e proteso soprattutto a migliorare la gestione della sua azienda.

Parlando dell'imprenditorialità di Cavour, pragmaticamente applicata alla sua attività di proprietario terriero,  occorre altresì sottolineare la sua tendenza a coniugare la gestione dell'azienda agricola ad altre iniziative economiche, che richiedono accordi, impegni finanziari ed investimenti , talora anche rischiosi, rivolti in più direzioni, seppur sempre affrontati con lo spirito dell'uomo d'affari, che ambisce alla concreta realizzazione dei suoi progetti.

Basti pensare al problema dell'uso nuovi concimi chimici, che convince Cavour alla creazione di una società in accomandita, la Rossi Schiapparelli e C., nata con i capitali raccolti presso gli amici banchieri De La Rüe di Genova e organizzata per la fabbricazione di un fosfato di calcio ad uso agronomico, che purtroppo non ebbe mai successo e portò all'estinzione dell'attività industriale. Ed all' impiego del guano del Perù, fatto importare inizialmente in grandi quantità, commercializzato anche in altre aziende piemontesi e oggetto  di qualche piccola speculazione, fino alla creazione di una nuova attività industriale della ditta Ecarrissage  ( del genovese Gavino e poi del Rossi ) volta alla diretta fabbricazione di guano "normale e concentrato" che veniva definito uguale al migliore del Perù.
La tenacia del Cavour nell'impiego del concime artificiale alla fine trionferà.  La società Ecarrissage diventerà poi la Colla e Concimi, che ebbe una parte di primaria importanza, anche con la fabbricazione del  superfosfato di ossa  nella industria nazionale dei concimi fosfatici, sino al suo assorbimento, nel 1920, da parte della Montecatini. A buon diritto questa iniziativa colloca dunque il Cavour tra i pionieri della industria chimica italiana, per la sua lucidità e la sua capacità di assumere direttamente il rischio imprenditoriale, la ricerca di nuove e più efficaci soluzioni economiche e tecniche.

Problemi di non minore entità, tecnica e finanziaria, comportava l'ammodernamento dell'ultima fase di lavorazione del riso, destinata ad ottenere dal risone, mediante l'asportazione dei tegumenti, il riso mercantile. Ancora in questo periodo essa si effettuava all'interno del fondo nelle antichissime « piste da riso», azionate dalla forza idraulica, e munite di un robustissimo palo di legno a punta ferrata (il « pestello »), che batteva sul risone contenuto in un vaso di pietra sottostante.  Il notevole fabbisogno idrico delle piste poneva non lievi problemi all'azienda, costretta talora, in tempi di gelo, a rinunciare ad un'adeguata irrigazione delle marcite.  In questo caso l'incentivo a una radicale innovazione del sistema tradizionale fu offerto a Cavour dalle proposte di associazione della ditta Fourrat. di Bordeaux, che già da un paio d'anni gestiva in quella città uno stabilimento per la brillatura del riso utilizzando macchinario brevettato da G.Ochsner, console svizzero ad Amsterdam. Fourrat aveva inviato in Piemonte un suo agente, che Cavour mise subito in contatto con l'ingegner Colli,  desiderando conoscere la sua opinione sull'invenzione, mentre  cominciò a sondare qualcuno dei suoi amici ginevrini per un'eventuale partecipazione finanziaria all'impresa.
Per suo conto, Cavour aveva fatto effettuare delle prove di brillatura dei risi di Leri nello stabilimento Fourrat di Bordeaux, ed era rimasto, almeno sul piano qualitativo, assai persuaso dei risultati, così da prendere in considerazione le proposte per la costituzione di una società italo-francese

Verso la fine del 1846 si attendeva l'entrata in funzione per l'anno successivo di un nuovo grande brillatoio nel Regio Parco di Torino, che però iniziò la sua attività solo nel 1849 e Cavour contribuì in modo considerevole ad avviare l'iniziativa.  Egli fu indotto ad allargare la partecipazione  dal favorevole andamento iniziale dell'impresa. Si venne perciò alla costituzione, il 10 gennaio 1850, di una società in partecipazione, formata dal Cavour, stipulante anche per la società d'affitto di Lerí, dai Fourrat Frères e dalla società Gaston Blondel.  Quest'ultíma, nella sua qualità di proprietaria dello stabilimento del Parco, lo metteva a disposizione esclusiva della società in partecipazione, la quale a sua volta si obbligava ad alimentare l'impianto fornendo un quantitativo annuo di riso bianco da brillare (o di risone in misura equivalente) del peso netto, dopo la lavorazione, di 45 mila quintali. 

Cavour non abbandonò mai l'interesse per l'industria molitoria.  I Fourrat, intenti ad allargare sempre più le posizioni che già possedevano nel commercio delle farine e nell'industria molitoria piemontese, gli avevano proposto, fin dall'aprile 1850, di entrare in una nuova società per azioni "pour l'établissement d'un moulin à l'américaine ", chiedendo il suo appoggio " pour une telle industrie, nouvelle mais très avantageuse pour le pays et pour les actionnaires".  La « Società anonima dei molini anglo-americani di Collegno », destinata a gestire i « molini a farína » di grano nel territorio di Collegno, ma che lavorerà anche i risi di Leri, venne costituita il 13 maggio 1850, con un capitale di 400 mila lire: fra i maggiori azionisti, i Fourrat con 140 mila lire, Cavour con 90 mila e l'Albertin con 50 mila.  Venne acquistato il vecchio mulino, costruito un nuovo edificio, installate macchine Tavlor
 Cavour vedeva con chiarezza la profonda trasformazione operatasi nel commercio dei cereali, dove il posto dei vecchi intermediari tra produttori e consumatori era preso adesso da un'industria moderna in grado di operare con grande forza sul mercato e di fornire alla panificazione farine di superiore qualità
. Presto si presentarono perciò nuovi fabbisogni: il capitale nel corso dello stesso 1850 venne portato a 500 mila lire e nel 1856 venne autorizzato l'aumento a un milione di lire, che però sembra sia stato coperto solo fino a 3/4 di tale somma, e  grazie a nuovi sacrifici degli azionisti.  Fra questi, ritiratisi i Fourrat, Cavour era adesso il maggiore, con una partecipazione di 138 mila lire; e la società allargava l'ambito delle sue operazioni, riservandosi « il diritto di assumersi l'esercizio di molini di natura e di località diversa da quella contemplata negli statuti antichi, trasferendo la sede sociale da Collegno a Torino, costruendo una linea ferroviaria per allacciare gli stabilimenti di Collegno alla linea Torino-Susa, così da conquistare e conservare fino al suo scioglimento, nel 1870, una posizione preminente in tutta l'industria molitoria del paese.
Insomma, dopo avere meccanizzato le coltivazioni nella misura consentita dalle tecniche del tempo, Cavour procedette a sviluppare un complesso di industrie collegate all'agricoltura, dalla fabbricazione dei concimi alla lavorazione dei prodotti, contribuendovi con propri capitali e talora con la propria capacità imprenditoriale come nel caso della Rossi e Schiaparelli, e fornendo in tal modo
un esempio assai significativo del ruolo svolto dal capitalismo agrario nella origine e nello sviluppo di queste prime fasi della industrializzazione, accanto al capitale straniero e al commercio locale.
 


Da Ghisleni - La coltivazione e la tecnica agricola in Piemonte dal 1831 al 1861- Torino 1961
 

L'interesse di Cavour per la nascita di un nuovo sistema bancario

Tra gli affari e la politica, sta la partecipazione di Cavour alla creazione dei primi moderni istituti di credito a Genova e a Torino, destinati di lì a qualche anno a confluire nella Banca Nazionale degli Stati Sardi, che più tardi divenne, com'è noto, la Banca d'Italia

Il graduale incremento dell'attività economica che, come sappiamo, si verifica in questi decenni, aveva determinato la formazione di un ammontare crescente di risparmio, che rimaneva inoperoso per mancanza di istituzioni creditizie atte a mobilitarlo al servizio dello sviluppo economico del paese.  A formare nuove disponibilità monetarie doveva contribuire una bilancia dei pagamenti che, nonostante il deficit denunciato dai valori ufficiali della bilancia commerciale, era probabilmente attiva.  Disponibilità rilevanti di oro monetato provenivano soprattutto dalla Lombardia, la cui bilancia commerciale nei confronti del Piemonte era costantemente sfavorevole, in relazione specialmente ai larghi approvvigionamenti che vi giungevano attraverso il porto di Genova.  Abbondava dunque il risparmio alla ricerca di impieghi: come è dimostrato dall'ascesa dei corsi dei titoli pubblici.

La larga disponibilità di mezzi da parte delle regie finanze sollecitò una serie di provvedimenti con i quali esse venivano autorizzate a concedere prestiti su deposito di titoli del debito pubblico e cedole della città di Torino o, a partire dal 1837, su depositi di sete effettuati da negozianti, grazie a un fondo di sei milioni istituito a questo scopo.  Lo Stato in tal modo procedeva a finanziare direttamente il mercato, mentre veniva anche istituita una Cassa di depositi ed anticipazioni, alimentata con i fondi giacenti presso le province e i comuni, e destinata a finanziare le spese degli enti locali.

Il grosso del credito commerciale restava tuttavia nelle mani delle banche private, quasi sempre a carattere strettamente familiare e spesso interessate anche in affari di commercio, le quali, accanto ad operazioni su titoli del debito pubblico, praticavano un ristretto credito di esercizio, scontando cambiali, concedendo anticipazioni su depositi di merci, soprattutto seriche, ed effettuando altre operazioni a breve termine.  Esse accettavano anche depositi a custodia, emettendo perciò moneta bancaria nella forma di titoli negoziabili e a scadenza: ma appunto tale caratteristica differenziava la circolazione originata da queste banche dai biglietti al portatore, emessi da un moderno istituto di emissione, convertibili a vista senza aggravio di sconto e formalità di girate; e l'azione ne risultava dunque assai meno conforme alle cresciute esigenze del commercio e della vita economica in generale. 

La richiesta di più adeguate strutture creditizie venne dunque facendosi sempre più vivace: e se ne ha la riprova nel moltiplicarsi delle proposte in tal senso che si registra in questi anni.  Il problema era specialmente sentito a Genova, che alle crescenti esigenze del grande commercio d'oltremare univa le tradizioni ancora recenti di un grande centro finanziario e bancario a livello europeo.  E appunto gli amici e corrispondenti genovesi del Cavour, i banchieri De La Rüe, già nella primavera del 1836 avevano sottoposto al governo il progetto di una nuova banca, alla quale offrivano di partecipare per 600 mila franchi.  Il progetto, di cui anche Cavour aveva caldeggiato l'accettazione, era naufragato contro le difficoltà incontrate nelle sfere di governo, nelle quali si era persuasi che « les actíons de la banque projétée ont été accaparées par un petit nombre de capitalistes, pour la plupart étrangers, ce qui rendrait son établissement peu populaire parmi le commerce de Génes ».  Erano preoccupazioni radicate nel paternalismo del regime assoluto, e con esse Cavour dovrà fare i conti più volte negli anni successivi.

Tuttavia, l'iniziativa riuscì finalmente ad avere successo quando, verso la fine del 1843, venne ripresa da un gruppo di finanzieri liguri con a capo, ancora una volta, il duca di Galliera, che contemporaneamente sollecitava la concessione della linea ferroviaria da Genova alla frontiera lombarda e ad Alessandria. 
A modello del nuovo istituto venne scelta la banca fondata nel 1835 a Marsiglia, di cui si adottarono quasi alla lettera gli statuti.  La nuova Banca di Genova sorgeva con un capitale di 4 milioni ripartito in 4.000 azioni, era autorizzata a scontare effetti pagabili sulle piazze di Genova e di Torino, alle quali più tardi si aggiunsero le principali degli Stati sardi e dell' estero. Essa riceveva depositi in conto corrente senza interessi, effettuava anticipazioni su depositi di metalli preziosi o di cedole di Stato, e soprattutto era autorizzata ad emettere biglietti convertibili a vista per un ammontare pari al triplo delle sue riserve. 1.400 azioni erano riservate al soci fondatori, e per il resto 1.050 vennero distribuite dal ministero fra altri banchieri, fabbricanti e negozianti  nel distretto di Genova, 949 in quello di Torino, 321 nel Nizzardo e 280 in Savoia.  Ne risultò un saldo predominio genovese nell'istituto, ancora rafforzato dalle norme che regolavano la partecipazione all'assemblea degli azionisti. 

Ancora prima che la Banca iniziasse la sua attività si scatenò tuttavia una attivissima speculazione sui suoi titoli, che vennero ceduti con premi del 37 e fino del 40 per cento, assicurando al fondatori cospicui benefici: così che nell'aprile del 1845 le azioni appartenenti al loro gruppo si erano ridotte da 1.400 a 671. Fuori di quel gruppo erano però rimasti i De La Rüe e i Ricci, e cioè le due case bancarie genovesi con cui Cavour aveva più stretti rapporti, sembra per dissapori sorti nelle prime fasi dell'iniziativa. Nel tentativo di far rientrare in qualche modo le due ditte nel lucroso affare, Cavour in un primo tempo sollecitò la concessione, a favore di un gruppo in cui esse avrebbero avuto la parte maggiore, di tutte le 2.600 azioni non spettanti ai promotori'. Respinta la proposta, troppo evidentemente contraria ai criteri di equidistanza dai vari interessi seguiti dal governo, Cavour dovette invece accontentarsi di sollecitare per i propri soci una cospicua partecipazione alla successiva distribuzione, mentre cercava di assicurarne al Naville, in cerca di buoni investimenti, una quota consistente ai prezzi di borsa.
 


Una veduta ottocentesca di Torino da una stampa dell'epoca.
 

Ma soprattutto il successo dell'iniziativa genovese sollecitò alcuni uomini d'affari piemontesi, e il conte fra essi, a realizzare, anche su questo terreno, qualcosa di analogo a Torino
Alla fondazione di una nuova banca a Torino si era del resto pensato già alla fine del 1843, e quindi pressoché contemporaneamente a quella di Genova, con l'intervento di alcune delle maggiori banche private piemontesi.  Sulle prime Cavour aveva ritenuto che « per fare cosa utile, nel nostro paese », si dovesse creare una istituzione atta a sostenere soprattutto lo sviluppo dell'industria agraria, non potendosi per il momento fondare « un vero banco agricolo, giacché manca per ciò e l'adesione del governo e il concorso dei capitalisti »: ma, nonostante che anche un tecnico della forza del Giovanetti ritenesse di somma importanza una istituzione del genere, dovette persuadersi che a Torino era assai difficile far intendere anche solo l'utilità di una moderna istituzione bancaria
Tuttavia, nei mesi successivi l'iniziativa venne concretizzandosi.  Con un movimento, in sole seterie, di 70-80 milioni l'anno, metà per acquisti di bozzoli e metà per vendite di sete gregge ai filatori, effettuato in buona parte attraverso contratti a termine, senza contare le operazioni legate al crescente sviluppo della restante industria tessile, la piazza di Torino offriva, a giudizio di Cavour, un vasto campo all'attività di una banca di sconto di cui fin da allora egli prevedeva, secondo uno schema già da tempo avanzato negli ambienti torinesi, l'eventuale fusione con la Banca di Genova in un'unica Banca Nazionale


L'iniziativa era però osteggiata da alcune delle grandi banche private, a cominciare dalla Barbaroux, che occupava il primo posto tra le case torinesi, per il timore della concorrenza del nuovo istituto appunto sul terreno del proficuo commercio delle sete.  Tuttavia Cavour riuscì ad assicurarsi il concorso di alcuni grandi banchieri, Vincenzo Vicino e C., Dupré padre e figli, Ignazio Casana e figli, Carlo Defernex, ai quali vennero poi ad aggiungersi Giuseppe Antonio Cotta, Giovanni Nigra, titolare della banca Fratelli Nigra (seconda solo alla Barbaroux per importanza) e altre ditte, fino a raggiungere la trentina, tra cui finì per schierarsi la stessa Barbaroux; mentre il conte per parte sua introduceva i propri amici e corrispondenti De La Rüe, Ricci e Vitta. A questo punto, però, le maggiori banche torinesi, temendo che in una cerchia troppo larga di interessati i commercianti di seta potessero essere in maggioranza, con ovvi pericoli per la futura gestione bancaria, dichiararono che avrebbero accettato l'affare solo se il numero dei fondatori si fosse limitato a dieci, tra cui Cavour.  Il conte, che era anche riuscito a far ammettere allo sconto gli agricoltori, secondo le sue vedute originarie, cercò di salvare l'iniziativa e la partecipazione dei propri soci: ma l'impresa finì per arenarsi, forse anche per i riflessi negativi dei ribassi che avevano colpito le azioni della Banca di Genova dopo il boom dei mesi precedenti.
L'iniziativa cavouriana si era dunque conclusa, per il momento, con un insuccesso. 

Frattanto la Banca di Genova completava la propria organizzazione e il 19 maggio 1845 apriva gli sportelli.  Essa era rimasta saldamente controllata dai maggiori finanzieri liguri: e nelle sue file veniva emergendo la figura di Carlo Bombrini, venuto su nella ditta del primo presidente della Banca, Bartolomeo Parodi, e nominato fin dall'inizio direttore, che questa carica avrebbe poi conservato nella Banca Nazionale, e che sarebbe rimasto sino alla morte (1882) al centro della vita finanziaria dell'Italia unita.  In relazione alla prevalenza di questo tipo d'interessi la Banca nel primo periodo della sua attività si dedicò al servizio di pochi grossi clienti ed ottenne anche una apertura di credito da parte dello Stato.
  Il piccolo commercio restava praticamente escluso dall'appoggio dell'istituto: e fra i critici più vivaci di questo indirizzo sarà qualche anno dopo lo stesso Cavour, che nel « Risorgimento » del 28 gennaio 1848 ricordò che « un banco deve bensì vegliare agli interessi dei suoi azionisti, ma deve pure pensare al vantaggio del commercio ».  In tal modo l'emissione dei biglietti rimase fino a tutto il 1847 a un livello assai inferiore a quello consentito dal volume della riserva metallica. I risultati finanziari della gestione furono tuttavia assai buoni, e gli utili vennero crescendo, mentre aumentava anche la massa dei biglietti in circolazione.

Un ultimo intervento di Cavour in ambito finanziario lo vide impegnato nell'operazione che portò alla fusione del Banco di Genova con il Banco di Torino, avvenuta nel 1848, nel periodo delicatissimo dello scoppio del moto rivoluzionario e dell'instaurazione della repubblica in Francia. Quando la fusione fu decretata, si produsse sul mercato una spinta al rialzo dei titoli del nuovo e provvisorio istituto torinese di cui Cavour non mancò di profittare.
 

Alcune conclusioni

Nel periodo fra il ritorno dall'estero nel giugno 1843 e l'ingresso al governo nell'ottobre 1850, Cavour si dedicò dunque a una serie numerosa di iniziative agricole, industriali, commerciali, finanziarie, bancarie, nelle quali si impegnò con  energia, senso di adattabilità alle circostanze, ricchezza e varietà di espedienti. L'iniziativa del conte si impegna ad infrangere tutte le consuetudini di un ambiente, quello sabaudo,  nel quale tuttavia non mancano uomini d'affari avveduti, rotti a tutte le astuzie, spregiudicati e ambiziosi.  Michelangelo Castelli riferisce che in gran parte le speculazioni cavouriane si chiusero in perdita per il conte, e così ha giudicato anche qualche scrittore più recente. L'affermazione probabilmente trae origine dall'insuccesso di imprese propriamente industriali come la Rossi e Schiapparelli e la partecipazione alla Società del Parco, ovvero dal mediocre andamento della società per i Mulini di Collegno: ma è insostenibile sul piano generale

Numerosi furono gli esempi di iniziative fortunate, ma soprattutto fu la considerazione e l'autorità da Cavour acquistata nel mondo degli affari non solo torinese ma anche genovese e ginevrino, presso uomini dotati di larghissime esperienze ed importanti  relazioni finanziarie, che lo fanno considerare una personalità centrale nel panorama economico dell'epoca. Costoro assai spesso si mostrarono disposti a rischiare capitali rilevanti in imprese   condotte dal conte, e talune di esse giudicarono possibili solo sotto la sua guida.

« Nous avons beaucoup parlé de chemins de fer avec Emile - gli scriveva ad esempio Hippolyte De La Rüe il 10 settembre 1844 "' - et je suis toujours disposé à y prendre intérét, si vous étes à la direction ».
E da parte sua il fratello Emile, davanti alla proposta di entrare nell'industria chimica con quella che diventerà la Rossi e Schiaparelli, si dichiarava « de prime abord disposé à vous suivre, vous, mais je sens que sans vous je n'aurais pas le courage d'y mettre le bout des doigts »"'.  Uomini d'affari ginevrini come Jean Edouard Naville si volgevano abitualmente a Cavour per averne consiglio e affidargli l'investimento dei propri capitali; i promotori della ferrovia di Genova, con alla testa un finanziere come il Galliera, gli offrirono un posto nel consiglio di amministrazione della società.

   L'impressione di abilità e di concretezza che emanava da tutta la personalità del conte finiva per imporsi ai più vari osservatori: insomma, Cavour possedette in altissimo grado  capacità imprenditoriale che è dote apprezzatissima nel settore economico e finanziario. Nel mondo degli affari torinese l'autorità personale ch'egli aveva acquistata rendeva praticamente indispensabile la sua partecipazione   a ogni impresa importante, così da farlo spesso figurare, a titolo personale, a fianco delle maggiori case bancarie, alle quali riuscì talora, come nell'affare della Banca di Torino, a imporre linee di condotta alle quali erano state a lungo recalcitranti. 

Certo, nessuna impresa produttiva di grandi dimensioni rimase stabilmente legata al suo nome: e di ciò, a parte la estrema rarità di tali imprese nel Piemonte di allora e l'arretratezza tuttora persistente di certe strutture finanziarie, l'origine va vista anche nella limitatezza dei mezzi a sua disposizioneIn effetti, egli era bensì titolare di un ingente patrimonio, ma a carattere quasi esclusivamente immobiliare, e per gran parte sottoposto a vincoli di comproprietà, che lo rendevano indisponibile per avventure finanziarie.  Da ciò il suo operare per gran parte con capitali altrui, e il carattere prevalentemente speculativo di molte sue iniziative, assai redditizie sul piano del reddito, e di notevole significato anche per il contributo che finivano col dare alla generale mobilitazione produttiva del risparmio, ma avare di risultati materialmente individuabili. 
Resta la sua attività, quella di un tipico imprenditore borghese dell'era pionieristica, costretto a operare in un ambiente in cui enormi ostacoli, tecnici, finanziari e di costume, restavano da superare, e in cui il passaggio dalla vecchia speculazione sui titoli pubblici alla impresa produttiva poteva realizzarsi solo a prezzo di rischi molto elevati.  Davanti ad essi era titubante l'uomo d'affari vecchio stile, quale ad esempio era sempre stato il marchese Michele, non a caso rimasto sempre assai diffidente davanti alle linee ferroviarie. Nel contrasto tra questo atteggiamento e l'entusiasmo del figlio per le imprese speculative, simbolo dell'era nuova, si coglie  il conflitto di due mondi e di due mentalità.

 Assai spesso, dunque, la molla dell'interesse economico, della pura avidità di profitto, che tanto spesso invidiosi e rivali politici gli rimproverarono, si univa in lui alla fede più alta nel progresso civile, alla convinzione, profondamente caratteristica del liberalismo della sua epoca, che le nuove conquiste dell'economia e della produzione erano conquiste di tutta la civiltà; e dunque all'ambizione di contribuire anch'egli a quell'opera con le sue iniziative di imprenditore e di moderno uomo d'affari. « Nella nostra impresa agricola - scriveva per esempio al Corio - non si tratta solo di far guadagni, ma altresì di mantenere l'acquistata riputazione. Per noi è un affare altrettanto d'amor proprio quanto d'interesse »
L'incapacità degli ambienti torinesi a intendere i vantaggi di una banca a Torino lo affliggeva grandemente, e nelle trattative per la sua realizzazione la convinzione che « le pays a essentiellement besoin d'une institution de crédit » lo indusse talora, per consentirne il successo, a concessioni che valutazioni solo personali gli avrebbero sconsigliato.
  Nel caso di Cavour le motivazioni ulteriori ( non esclusivamente economiche ) assumono una dimensione civile ben evidente, e si iscrivono in una visione del progresso generale della società che  tende a tradursi sul terreno della politica, al quale per lui tutte le altre motivazioni finiscono per richiamarsi.
 


Fonti bibliografiche:
-  Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, Laterza 1969- vol. 2/ I e 2/ II - Agricoltura e affari, pp. 117 - 191
-  Storia d'Italia, Einaudi ( vol  3  ) - Dal primo Settecento all'Unità - La politica economica del Piemonte costituzionale: tributi, finanze,
   ferrovie, pp.611 - 617
-  Luciano Cafagna, Cavour, Il Mulino 1999, pp. 120 - 128
 

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