Contro l'azienda agricola
autosufficiente
Cavour si impegnò a lungo nel definire quali
fossero le scelte agronomiche più adatte alla zona padana e talvolta incappò in qualche contraddizione. Ad esempio
l'associazione di coltura
cerealicola e prati stabili, che egli aveva esaltato, metteva in evidenza che
né il granturco né i prati stabili erano sufficienti a fornire foraggi nella
misura necessaria al mantenimento di un quantitativo di bestiame atto ad
assicurare una concimazione adeguata alle coltivazioni cerealicole,
alle quali mancava per di più l'apporto di prati avvicendati per la
ricostruzione della fertilità del suolo. Davanti a rese così basse il
vanto di un elevato prodotto totale di cereali era in realtà insostenibile,
quando un raddoppiamento delle rese del prodotto di grano a parità di
superficie coltivata era perfettamente raggiungibile con migliori tecniche
di coltivazione, lasciando ben altre possibilità allo sviluppo dei
prodotti dell'allevamento, della cui importanza, come vedremo, Cavour era
peraltro pienamente consapevole.
Pure, a questi principi egli resterà a lungo fedele, e anche in seguito li
riaffermerà, vietandosi in tal modo ogni tentativo di rinnovare
radicalmente l'agricoltura delle zone asciutte nella direzione che era
stata aperta dalla prima rivoluzione agricola:
la quale aveva cercato di realizzare l'azienda agricola come unità
produttiva autosufficiente, indirizzata sì alla vendita sul mercato, ma
in cui i foraggi consumati sul posto consentivano, col mantenimento del
bestiame, una sempre più ricca concimazione dei terreni, e assicuravano la
forza di lavoro necessaria a una crescente produzione cerealicola.
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La stagione del Cavour grande
innovatone agricolo si aprirà invece verso il 1845, quando egli
sarà tra i primi a
impiegare su larga scala il guano e a
sperimentare i concimi chimici,
conquistando in tal modo un posto di rilievo tra i promotori della
seconda rivoluzione agricola, tesa all'incremento
della capacità produttiva del suolo attraverso un massiccio impiego di
fertilizzanti acquistati all'esterno dell'azienda, con risultati
così vasti da indurre da ultimo il conte a considerare la possibilità di
mutare le
rotazioni tradizionali persino in quel settore della grande azienda
irrigua in cui egli aveva raccolto i maggiori successi. Non va dimenticato
poi che proprio nel quadro delle strutture tradizionali si realizzeranno,
nel corso del secolo XIX, i graduali progressi dell'agricoltura padana
delle zone asciutte, attraverso la
diffusione delle piante legnose, dal gelso alla vite, con
conseguenze di grande rilievo per il generale processo di sviluppo economico
del paese; e che, d'altra parte, nelle zone irrigue le strutture agricole
avevano raggiunto, in effetti, forme assai avanzate, realizzando per via
autonoma quell'integrazione
dell'agricoltura e dell'allevamento su cui si imperniava anche la
classica rivoluzione agricola dell'Europa occidentale. Il Vercellese si era
posto, come s'è visto, piuttosto tardi su questa via: ma l'assorbimento dei
metodi e delle tecniche già realizzate altrove, e specialmente in Lomellina,
consentirà progressi assai rilevanti durante questi decenni.
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Difficoltà nell'introdurre
innovazioni colturali
Negli ultimi anni le condizioni del grande possesso erano ben lungi
dall'essere sostanzialmente migliorate. I documenti pervenutici non
consentono di scorgere in quale misura i progetti di rinnovamento delineati
dal marchese
Michele nel Mémoire sur la terre de Lery
si fossero tradotti in concreti tentativi di attuazione: ma quel che
sappiamo delle condizioni dell'azienda negli anni successivi ci induce ad
escludere che si fosse riusciti a realizzare il drastico mutamento auspicato
dal marchese nella distribuzione delle superfici tra le varie colture, nelle
rotazioni, nella disponibilità di bestiame. Al di là di ogni altra
considerazione, un ostacolo insuperabile dovevano avere rappresentato le
persistenti difficoltà nella gestione, tradottesi in una serie di
risultati economici non certo tali da incoraggiare nuovi sacrifici e grossi
investimenti nella terra.
L'andamento dei
prezzi dei principali prodotti non aveva rivelato sostanziali
miglioramenti rispetto al difficile periodo precedente: nel 1830-34
il grano era rimasto praticamente fermo a una media di lire 18,04
l'ettolitro rispetto alle 17,99 del quinquennio precedente; e gli altri
prodotti più importanti avevano realizzato incrementi quasi irrilevanti,
passando il riso nostrano da una media di lire 23,98 l'ettolitro a
lire 24,55, il granturco da lire 11,84 a 12,01, la segale da
lire 11,38 a 12,21, l'avena da lire 6,85 a 7,27.. E ciò in un
periodo in cui, se si sperimentavano buoni raccolti per il grano e il
granturco, il brusone continuava
invece a infliggere severe falcidie alla produzione principalissima del
riso, e si cominciavano appena a sperimentare quelle varietà
più resistenti, come il bertone e l'ostiglia, che
avrebbero consentito a poco a poco di fronteggiare e quasi eliminare la
malattia. Ne erano derivati, nel triennio 1832-34, per Leri, risultati
economici che Cavour considerava tali da « spaventare » i
proprietari; nel solo 1833 la perdita aveva superato, come s'è visto, le 36
000 lire, cioè una cifra pari a quella che il marchese Michele
calcolava come reddito netto annuo dell'azienda' prima del 1830.
Assai buono dovette essere anche a Leri il raccolto del 1835, che fu in
tutto il Piemonte un'annata di eccezionale abbondanza;
ma in compenso si ebbe in quell'anno un tracollo dei prezzi, che portò il
grano a lire 13,84 l'ettolitro, il livello più basso dal 1771. Non era
certo in un periodo come quello che si poteva pensare alle grandi
trasformazioni agrarie.
Cavour si rendeva ben conto dei
vantaggi della rotazione
usuale nel Vercellese, che si fondava, come sappiamo, su una
netta prevalenza della risicoltura.
« De toutes les céréales - scriveva - le riz est celle qui épuise le moins
le terrain, qui exige le moins de frais de culture, et qui s'adapte le mieux
aux terres incultes qu'on veut mettre en culture. Les terraíns
fertiles produisent plus que les terrains pauvres: mais la différence de
produit est moindre qu'elle ne serait pour le blé, le mais, et en général
toutes les autres denrées agricoles ».
Contro questa realtà avevano
fatto naufragio i programmi di rinnovamento del marchese, imperniati, come
sappiamo, sulla riduzione della coltura del riso a vantaggio dei prati; e
Cavour, da parte sua, non fece alcun tentativo di riprenderli. Nel 1842,
a sette anni dall'inizio della sua gestione, i terreni a riso occupavano
nella tenuta 1449 giornate, di cui 360 al Torrone, 584 a Leri e 505 a
Montarucco: unite assieme, le risaie delle due ultime tenute
giungevano a 1089 giornate.
Le rotazioni
La rotazione era quella comune nel Vercellese e segnava, con la
scomparsa dell'annata di riposo, già consueta nelle risaie, un
netto progresso in confronto ai primi del secolo.
Adesso si iniziava
nel primo anno col granturco in terreno fortemente lavorato e concimato, si
proseguiva nel secondo col grano, e nei tre successivi col riso, senza che
si procedesse a nessuna ulteriore concimazione.
« Ainsi - osservava Cavour - l'on a cinq récoltes de
céréales avec une seule fumure, sans qu'on s'aperçoive d'aucune diminution
dans le pouvoir productif du sol ». Se, come è ovvio, queste
osservazioni del conte si fondavano soprattutto sull'esperienza fatta a Leri,
va rilevata la scomparsa delle lagnanze per la insuffìciente letamazione
dei terreni e per la conseguente regressione nel prodotto manifestate a suo
tempo dal marchese, scomparsa da mettere anche in relazione alla
generale adozione di una
rotazione che non prevedeva più di tre annate consecutive di risaia,
in contrasto con quanto generalmente praticato in passato. Non già che
adesso non si praticassero cicli di coltivazione a riso più lunghi:
« lorsqu'un terrain très fertile - osservava Cavour un pré, par exemple, est
converti en rizière pour la première fois, il peut donner de suite díx à
douze récoltes de riz abondantes ». Tuttavia, egli era del parere
che « un bon agriculteur fera
bien de ne jamais faire produire à la méme terre, quelque soit sa fécondité,
au delà de six récoltes successivés de riz »; e trovava
criticabili le risaie stabili in uso nel Novarese, che giustificava solo
nel caso di terreni con una porzione irrigua troppo ristretta e dunque da
utilizzare interamente per il riso. D'altra parte, se l'azienda impiegava
adesso più forti quantità di letame - e possiamo soltanto supporlo,
in mancanza di più precisi documenti - ciò era reso possibile, a quanto
sembra, da migliori tecniche di coltivazione dei prati,
dall'incremento degli acquisti di foraggio e di letame dall'esterno,
dall'invio di una parte di bestiame ai pascoli alpini durante l'estate,
piuttosto che dall'aumento della superficie a prato
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Il tentativo di introdurre la
coltivazione della barbabietola da zucchero
In realtà, una innovazione di ampia portata era
stata sperimentata a Leri da Cavour proprio all'inizio della sua gestione,
col tentativo di
introdurre la coltivazione della barbabietola da zucchero alla quale
sperava di
associare uno stabilimento per la lavorazione del prodotto. Appunto
nel 1836-37 si moltiplicavano infatti, specie in Germania e in Francia (e
non mancò qualche tentativo nell'Italia meridionale), gli sforzi per
riportare in vita la produzione dello zucchero da barbabietola, dopo il
crollo subito con la fine del blocco continentale, col quale si erano chiusi
gli splendori che questa attività aveva conosciuto nell'età napoleonica.
Cavour aveva avuto notizia delle iniziative in corso, grazie specialmente
all'amico ginevrino
jean-Edouard
Naville, e aveva richiamato su di esse anche l'attenzione del padre.
Altrove, e soprattutto in Francia, la produzione cercava di affermarsi sotto
l'egida di una vigorosa protezione doganale; ma il conte non dimenticava
neanche adesso il suo
intransigente liberismo:
« si vraiment le sucre de betterave ne peut étre produit que gráce à
une espèce de monopole et de privilège nuisible à mon avis aux intéréts
généraux, alors il ne nous aurait pas convenu d'en introduire l'industrie chez nous aurait été rendre un mauvais service à notre pays, et nous
embarquer dans une entreprise périlleuse qui n'aurait pu réussir qu'autant
que le pouvoir aurait été' dans des mains intéressées ou ineptes ». Il
problema da risolvere era dunque di
realizzare costi
di produzione che consentissero di affrontare in Piemonte la concorrenza
degli zuccheri coloniali senza alcuna protezione daziaria. Nel 1835
Cavour aveva cominciato con lo sperimentare a Grinzane la barbabietola da
foraggio e il prodotto di una ventina di are di terreno, che resero 60,7 q
di radici ( pari a circa 300 q per ettaro) lo incoraggiò a tentare la
coltivazione della barbabietola da zucchero. Prese dunque contatto col
Duport , col quale negli stessi mesi veniva trattando anche l'acquisto del
Torrone, e che proprio allora si era ritirato dalla codirezione della
Manifattura di Annecy e Pont, massima impresa industriale del regno nella
quale aveva acquisito un' esperienza di prim'ordine, e che si mostrò
anch'egli assai interessato all'iniziativa. Nonostante che a Cavour fosse
riuscito solo di procurarsi una scarsa quantità di semente della
barbabietola da zucchero, egli decise di proseguire l'esperimento tanto a
Grinzane che a Leri, dove, nel 1836, fece seminare accanto
alla piccola quantità disponibile di essa parecchie giornate di terreno a
barbabietola da foraggio. Se l'esperimento fosse riuscito, egli già
pensava alla possibilità di introdurre la barbabietola come pianta
miglioratrice nelle rotazioni in risaia; appena comprovata la
possibilità di produrla a costi convenienti,
si sarebbe passati
all'impianto di uno zuccherificio a Leri, nel quale Cavour offriva di
associare gli amici Hippolyte
e P. Emile de la Rüe, e
a cui l'azienda agricola dei Cavour avrebbe fornito la barbabietola a 10
franchi la tonnellata, ricevendone gratuitamente le polpe residuate dalla
lavorazione, da destinare a foraggio. Durante l'inverno e la primavera
1836-37 proseguirono intensamente gli studi e le discussioni tra gli
interessati, attenti specialmente all'andamento della produzione e del
mercato in Francia. Sulla base delle esperienze francesi Cavour riteneva
che si sarebbe dovuta ottenere una produzione di 1163 rubbi di barbabietole
a giornata, pari a 282 q per ettaro, che, al prezzo corrente in Francia,
avrebbero assicurato il reddito elevato. Difficile però determinare il
rendimento medio in zucchero, che in Francia si era indicato al 4,5%, pure
riconoscendo che in realtà doveva essere più elevato. Comparando i costi di
produzione prevedibili in Piemonte con quelli francesi, Cavour calcolava
« une dépense beaucoup plus forte en combustible »; ma del resto
sperava in una « forte économie sur la main d'oeuvre et sur le prix
des betteraves ». In conclusione, egli credeva di poter dire che
« l'agriculteur fabricant piémontais peut produíre du sucre brut à
meilleur marché que le fabricant français, et qu'il peut en conséquent,
malgré
la
différence des prix dans les deux pays, faire d'égaux bénéfices ».
Ma, ciò nonostante, la decisione fu negativa.
Cavour la spiegava con il rischio che, in una industria ancora agli inizi,
intervenisse qualche improvvisa innovazione tecnica atta a sconvolgere tutti
i calcoli fatti in precedenza: e può essere che a spingerlo su queste
posizioni, non certo pionieristiche, contribuisse anche il padre, presto
convertitosi a un radicale scetticismo nei confronti di ogni tentativo di
produrre in Piemonte zucchero nazionale. Il conte si proponeva
comunque di insistere nella coltivazione della barbabietola, e di darvi anzi
« une grande extension dans nos terres », dove essa trovava «
déjà un emploi avantageux comme nourriture pour le gros bétail », in
maniera che potesse essere « acclimatée parmi nous », e
diventare « partie de notre système agricole ». A parte la
possibilità che in tal modo Cavour voleva garantirsi di passare « d'un
moment à l'autre » alla fabbricazione industriale dello zucchero, quando
l'occasione si fosse presentata,
l'introduzione su larga scala della barbabietola da zucchero
nell'agricoltura piemontese avrebbe potuto essere di per sé sola un fatto
rivoluzionario e di vastissime conseguenze, per le modifiche ch'essa avrebbe
recato nelle rotazioni, nella posizione relativa del granturco.
Ma anche su questo terreno il tentativo si risolse in un fallimento, a Leri
non meno che a Grinzane : e nel 1841 Cavour includeva nel suo studio
sulla produzione degli Stati di Terraferma la notizia che « la
betterave saccharine n'est presque pas cultivée en Piémont »,
spiegando il
fallimento del tentativo di creare un'industria dello zucchero indigeno con
l'elevatezza dei costi di produzione.
« Quelques essais ont été faits à l'époque où l'engouement pour cette
culture était porté en France à un excès si déraisonnable. Le sucre
fabriqué en suite de ces essais tentés en Piémont étant revenu beaucoup plus
cher que celui que l'on tire des Indes Occidentales, on a aujourd'hui
totalement renoncé à cette culture. Notre gouvernement a eu d'ailleurs la
sagesse de ne point encourager cette industrie factice qui cause à la France
de si grands embarras ».
In Italia si dovrà attendere
ancora mezzo secolo perché nasca
l'industria dello zucchero nazionale (1887). E'
probabile che il fallimento di questo tentativo
abbia avuto la sua parte nel persuadere Cavour della difficoltà di
modificare le rotazioni tradizionali dell'agricoltura piemontese, e in
particolare nel convincerlo che ogni suggerimento inteso
a sostituire la barbabietola al granturco fosse
senz'altro erroneo.
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