Quaderni di Serafino Gubbio operatore ( 1915 ) - Quaderno primo
Studio la gente nelle sue più ordinarie
occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per
ogni cosa ch'io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.
In prima, si, mi sembra che molti l'abbiano, dal modo come tra loro si
guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o
ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po' addentro negli
occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito
s'adombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta,
che se per poco io seguitassi a scrutarli, m'ingiurierebbero o m'aggredirebbero.No,
via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo
neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle
consuetissime condizioni in cui vivete. C'è un oltre in tutto. Voi non
volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest'oltre baleni negli occhi
d'un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi
turbate o irritate.
Conosco anch'io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che
fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e
così; questo e quest'altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano,
per essere in tempo là. - No, caro, grazie: non posso! - Ah si, davvero?
Beato te! Debbo scappare... - Alle undici, la colazione. - Il giornale, la
borsa, l'ufficio, la scuola... - Bel tempo, peccato! Ma gli affari... Chi
passa? Ah, un carro funebre... Un saluto, di corsa, a chi se n'è andato. -
La bottega, la fabbrica, il tribunale...Nessuno ha tempo o modo d'arrestarsi
un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui
stesso fa, sia veramente ciò che sopratutto gli convenga, ciò che gli possa
dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il
riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale
stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile
raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con
l'altra facciamo un gesto da ubriachi.
Svaghiamoci!
Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si
offrono; sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di
stanchezza.
Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che
portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si danno; ne ascolto i
discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere
alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d'altra parte credere
che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo
fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno
sempre più si complica e s'accelera, non abbia ridotto l'umanità in tale
stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a
distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de' conti, tanto di guadagnato. Non
per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo. Qua da noi non
siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono frequente in
America, di uomini che a mezzo d'una qualche faccenda, fra il tumulto della
vita, traboccano giù, fulminati. Ma forse, Dio aiutando, ci arriveremo
presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io - modestamente -
sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago. Sono operatore. Ma
veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol
mica dire operare.
lo non opero nulla.
Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o
due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la
piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali
gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi
alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere.
Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro
l'azione da svolgere.
lo domando al direttore:
- Quanti metri?
Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente
il numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:
- Attenti, si gira!
E io mi metto a girar la manovella.
Potrei farmi l'illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli
attori, press'a poco come un sonatore d'organetto fa la sonata girando il
manubrio. Ma non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare
finché la scena non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al
direttore:
- Diciotto metri, - oppure: - trentacinque.
E tutto è qui.
Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:
- Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?
Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli
biondi; occhi cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale
si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era
malizioso. Perché con quella domanda voleva dirmi:
"Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la
manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser
soppresso, sostituito da un qualche meccanismo.
Sorrisi e risposi:
Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in
uno che faccia la mia professione è l'impassibilità di fronte all'azione che
si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe
senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più
grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il
movimento secondo l'azione che si svolge davanti alla macchina. Giacché io,
caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più
presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo -
sissignore - si arriverà a sopprimerli. La macchinetta - anche questa
macchinetta, come tante altre macchinette girerà da sé. Ma che cosa poi farà
l'uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore,
resta ancora da vedere.
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