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L'inettitudine come apatia, inerzia, abulia, passività, fiacchezza, disinteresse per i valori borghesi. Goncharov ed il personaggio di Oblomov nella Pietroburgo della metà dell'800.
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Figlio
di un facoltoso mercante, dopo l'università entrò nella burocrazia
statale come funzionario ministeriale, poi come censore. Conservatore
moderato e scapolo irriducibile condusse un'esistenza monotona,
interrotta solo da un «eroico» viaggio in Estremo Oriente. Dopo il
romanzo Una storia comune (1847), incentrato sulle illusioni e
delusioni di un giovane idealista di provincia e bene accolto dalla
critica realista, Goncharov scrisse Oblomov (1859), il suo capolavoro, divenuto simbolo di un aspetto tragico e affascinante dello spirito russo: quella riluttanza ad accettare i «tempi» della realtà, che ha le sue remote radici nel fatalismo orientale, nell'esaltazione asiatica del primato della contemplazione sull'azione. |
Oblomov - 1858 - Oblomov, un proprietario provinciale che vive a Pietroburgo, è caduto nell'apatia. Il suo amico d'infanzia Stolz, figlio di un immigrato tedesco in Russia, cerca di sollevarlo da questo stato e lo presenta a una famiglia amica, dove è una giovinetta Olga, della quale Oblomov s'Innamora. Anche Olga, interessatasi di Oblomov attraverso le parole di Stolz prima e attraverso la conoscenza del suo animo poi, se ne innamora o crede d'esserne Innamorata. L'idillio sembra salvare Oblomov dalla sua terribile propensione all'apatia e all'ozio ma è un'Illusione. poiché egli viene ripreso dal suo male e, invece di sposare Olga, sposa la propria padrona di casa. Olga a sua volta diventa moglie di Stolz. |
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La
critica « La storia del buono e pigro Oblomov, che dorme e se ne sta sdraiato e che nemmeno l'amicizía e l'amore riescono a scuotere e a liberare dall'apatia, non è certo una storia molto importante. Ma in essa si riflette la vita russa, in essa ci è presentato un tipo russo contemporaneo, vivo, scolpito con un rigore e una sincerità spietati; in essa è detta la nuova parola del nostro sviluppo sociale. Una parola pronunciata con chiarezza e fermezza, senza disperazione e senza puerili illusioni, ma con piena coscienza della verità. Questa parola è l'oblomovismo; esso è la chiave per decifrare numerosi fenomeni della vita russa e dà al romanzo di Goncharov un'importanza assai maggiore di tutta la nostra letteratura smascheratrice. In che cosa consistono i tratti fondamentali dei carattere di Oblomov? In un'inerzia totale, derivante dalla sua apatia per tutto ciò che accade nel mondo. La causa della stessa apatia è racchiusa in parte nella sua condizione sociale, di proprietario terriero, in parte nella forma dei suo sviluppo intellettuale e morale. [...] Oblomov non è una natura ottusa, apatica, priva di aspirazioni e sentimenti, ma un uomo che cerca qualcosa nella vita, pensa a qualcosa. Se non che l'odiosa abitudine di soddisfare i propri desideri non attraverso i suoi sforzi, ma attraverso quelli degli altri, ha sviluppato in lui un'immobilità apatica e lo ha gettato in uno stato pietoso di schiavitù morale. Il motivo è che Oblomov, come signore, non vuole e non sa lavorare e non comprende i suoi effettivi rapporti con il mondo circostante. E' pronto ad agire finché l'attività è un miraggio e rimane lontano dalla realizzaione: così egli elabora un piano di organizzazione della sua proprietà e se ne occupa con zelo; ma i dettagli, i preventivi e le cifre lo atterriscono ed egli li lascia sempre da parte, perché avrà il tempo di sbarazzarsene! La
sua pigrizia e apatia sono il risultato dell'educazione e delle
circostanze.
L'essenziale qui non è Oblomov, ma l'oblomovismo.
Egli avrebbe potuto forse anche lavorare se avesse trovato
un'occupazione di suo gusto; ma perché ciò accadesse avrebbe dovuto
svilupparsi in condizioni abbastanza diverse da quelle in cui è stato
educato. Nella sua situazione presente non può
trovare in nessun luogo il lavoro che lo interessi, perché egli non
ha compreso il senso della vita, in generale, e non è riuscito a
concepire in modo razionale i suoi rapporti con gli altri uomini" da
Nicola
Dobroliubou ,Che cos'é l'oblomovismo, Milano 1952 |
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L'incipit del romanzo "Una mattina Il'ja Il'iè Oblomov se
ne stava a letto nell'appartamento che occupava in uno di quei casermoni di via Gorochovaja i
cui inquilini sarebbero bastati a popolare un intero capoluogo di
distretto.
Il'ja Il'iè era un uomo di circa
trentadue-trentatré anni, di statura media, gradevole d'aspetto, con
occhi grigio scuro; ma i tratti del volto rivelavano un'assoluta
incapacità di determinazione
e di concentrazione. Il
pensiero volubile trascorreva senza guida sul suo viso, gli svolazzava
negli occhi, si arenava fra le labbra semiaperte, si nascondeva fra i
solchi della fronte, poi si dileguava di botto, e allora il volto restava rischiarato solo del vago lucore
dell'indolenza. Dalla faccia, l'indolenza
si propagava a tutto l'atteggiamento del corpo, addirittura alle pieghe della vestaglia.
Di quando in quando, un'espressione che si sarebbe detta di stanchezza o di noia gli offuscava lo sguardo; ma la stanchezza o la noia non potevano scacciare nemmeno per un momento la mitezza, che era la caratteristica essenziale e dominante non solo del volto, ma di tutta l'anima; e l'anima risplendeva aperta e chiara negli occhi, nel sorriso, in ogni movimento della testa o della mano. Un osservatore distaccato e superficiale, dopo una rapida occhiata a Oblomov, avrebbe potuto dire: «Deve essere un tipo semplice e di buona pasta!». Ma un osservatore più acuto e partecipe, che lo avesse osservato a lungo, si sarebbe forse allontanato sorridendo, immerso in gradevoli meditazioni.
Il colorito di Il'ja Il'iè non era né roseo, né olivastro, né
decisamente pallido, ma smorto; o forse così sembrava perché Oblomov
era troppo floscio, per l'età
che aveva, a causa della mancanza
di moto o di aria, o probabilmente di entrambi. Nell'insieme il
suo corpo, a giudicare dal colore scialbo e troppo bianco del collo,
delle mani piccole e paffute, delle spalle cascanti, appariva eccessivamente
femmineo.
Anche
i suoi movimenti, perfino quando era inquieto, venivano
frenati dalla fiacchezza e
dalla pigrizia, non priva, nel suo genere, di una certa grazia. Se la nube
nera di una preoccupazione saliva dall'anima ad addensarsi sul viso,
lo sguardo si offuscava, la fronte si corrugava, e dubbio,
afflizione e timore iniziavano il loro girotondo; ma raramente
questa inquietudine si coagulava in un'idea precisa, e ancor più raramente si trasformava in un proposito
concreto. Tutta l'inquietudine si risolveva in un sospiro
e si estingueva nell'apatia
o nella sonnolenza.
Come armonizzava l'abito da casa con
i tratti sereni del volto di Oblomov e con la mollezza
del suo corpo! Indossava una vestaglia di stoffa persiana, una autentica
gabbana all'orientale, senza nulla di europeo, senza nappe, senza
velluto, senza vita, tanto ampia che Oblomov ci si poteva avvolgere
dentro due volte. Le maniche, secondo l'immutabile moda asiatica,
andavano allargandosi dalle dita alle spalle. Malgrado avesse perduto
l'originale freschezza, e la prima, naturale lucentezza fosse stata
soppiantata qua e là da un lustro d'altro genere, determinato
dall'uso, la gabbana conservava pur sempre la vivacità dei colori
orientali e la solidità del tessuto.
Agli occhi di Oblomov, quella gabbana
aveva un mucchio di pregi inestimabili: era morbida, adattabile; non
te la sentivi addosso; e si sottometteva al più piccolo movimento del
corpo come un docile schiavo.
Oblomov
girava sempre per casa senza cravatta e senza panciotto, perché gli
piacevano la libertà e
la comodità. Le sue pantofole erano lunghe, morbide e larghe: cosicché
i piedi, quando egli scendeva dal letto senza nemmeno guardare dove li
mettesse, andavano immediatamente a infilarvisi dentro.
Per Il'ja Il'iè la
posizione orizzontale non era una necessità, come per un
malato o per chi desideri dormire, né un fatto accidentale provocato
dalla stanchezza, né un piacere da individuo pigro: era
il suo stato normale. Quando era a casa - ed era quasi sempre a casa - se
ne stava sempre coricato, e sempre
nella stessa camera dove lo abbiamo trovato, che gli serviva da stanza da letto, da studio e da salotto.
Aveva altre tre camere, ma ci entrava di rado, magari al mattino, e
anche questo non tutti i giorni, ma solo quando gli rassettavano lo
studio, il che non capitava spesso.
In quelle stanze i mobili erano coperti con le fodere e le tende
abbassate.
A
prima vista, la camera in cui Il'ja Il'iè se ne stava sdraiato
sembrava molto ben arredata. C'erano uno scrittoio di mogano, due divani ricoperti di
seta, bei paraventi su cui erano ricamati uccelli e fiori mai visti in
natura. E c'erano tendaggi di seta, tappeti, alcuni quadri, bronzi,
porcellane e un'infinità di graziosi ninnoli.
Ma
l'occhio esercitato di una persona di buon gusto avrebbe
scorto in quell'insieme nulla più che il
desiderio di mantenere alla meno peggio il decorum imposto dalle
convenienze, pur di levarsi il
pensiero. Senza dubbio, solo questa era stata la cura di Oblomov al
momento di arredare lo studio. Un padrone di casa dal gusto raffinato
non si sarebbe contentato di quelle sedie di mogano pesanti e
sgraziate, di quegli scaffali traballanti. Lo schienale di un divano
aveva ceduto, e il legno si era scollato in parecchi punti.
Ragnatele cariche di polvere
pendevano a guisa di festoni dalle pareti, vicino ai quadri; gli
specchi erano tanto polverosi che, invece di riflettere gli oggetti,
avrebbero potuto servire come tavolette su cui annotare le cose da non
dimenticare. I tappeti erano pieni di macchie. Sul divano era
abbandonato un asciugamano; al mattino era un caso raro non trovare
sul tavolo, non sparecchiato la sera prima, il piatto, la saliera, un
osso rosicchiato e briciole di pane un po' dovunque.
Se non fosse stato per questo piatto
e per la pipa ancora calda posata sul letto, e per lo stesso padrone
che stava dentro il letto, si
sarebbe potuto pensare che in quella casa non vivesse nessuno, tanto
le cose erano polverose, scolorite e non lasciavano intuire una sola
traccia di presenza umana. E vero che sugli scaffali c'erano due o tre libri aperti e
un giornale spiegazzato e che sullo scrittoio c'era il calamaio con le
penne; ma le pagine a cui i libri erano aperti erano velate
di polvere e ingiallite: prova evidente, che i volumi erano stati buttati lì da un
pezzo; il giornale era dell'anno prima e, se si fosse intinta la penna
nel calamaio, forse ne sarebbe uscita solo una mosca ronzante di
paura..."
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«Nessuno
ha lo sguardo limpido, sereno», proseguì Oblomov, «tutti si
trasmettono l'un l'altro preoccupazioni, angosce, pene, tutti
sono alla morbosa ricerca di qualche cosa.
Se almeno cercassero la verità, il bene per sé e per gli altri...
no, il successo di un amico li fa impallidire.
Uno ha un'altra idea fissa: domani deve passare in un ufficio
pubblico, dove si trascina una pratica da cinque anni; la parte
avversa continua a spuntarla, e lui per cinque anni si porta quel
chiodo nella testa, con un solo desiderio: dare lo sgambetto all'altro
e sulla sua caduta costruire l'edificio della propria fortuna. Fare
anticamera sospirando per cinque anni: questo sarebbe il suo ideale,
lo scopo della sua vita! Un altro si tormenta perché è condannato ad
andare ogni giorno in ufficio e a starci fino alle cinque; ma un altro
ancora sospira con tristezza perché lui non ha questa fortuna...».
«Sei un filosofo, Il'ja. Tutti si danno da fare per qualche
cosa, solo a te non occorre mai niente!».
«Per esempio, quel signore giallognolo con gli occhiali»,
continuò Oblomov, «mi si è messo alle costole per sapere se avevo
letto il discorso di un certo deputato; e mi
ha guardato con tanto d'occhi quando gli ho detto che non leggo i
giornali.
E si è messo a parlare di Luigi Filippo come se fosse suo padre. Poi
mi ha attaccato un altro bottone per sapere qual era, secondo me, il
motivo della partenza da Roma dell'ambasciatore francese. Come
è possibile condannarsi a imbottirsi ogni giorno, vita natural
durante, delle notizie dal mondo intero, e a gridare per tutta la
settimana fino a perdere il fiato? Oggi
Mehmet-Alì ha mandato una nave a Costantinopoli, e lui si lambicca il
cervello: perché? Domani il Don Carlos fa fiasco, e lui di nuovo
tutto agitato. Là scavano un canale, qua mandano un distaccamento in
Oriente; santi numi, è scoppiato l'incendio! E tutto sconvolto, si
mette a correre e a gridare, come se i soldati marciassero contro di
lui. Ponderano,
chiacchierano a vanvera, ma in fondo si annoiano; tutto ciò non li
interessa; sotto quelle grida c'è l'eterna sonnolenza! Tutto ciò è
a loro estraneo;
è come se andassero in giro col cappello di un altro. Poiché
non hanno niente da fare per conto proprio, si buttano di qua e di là,
senza una direzione precisa. Sotto questo voler abbracciare il tutto
c'è il vuoto, la mancanza di simpatia per tutto!
Quanto a scegliere un modesto sentiero di lavoro, e seguirlo, scavare
un solco profondo... è una cosa noiosa, insignificante; qui non serve
a nulla atteggiarsi a sapientoni, e non c'è nessuno a cui buttare
polvere negli occhi. «Ma
tu e io non ci siamo sparpagliati di qua e di là, Il'ja. Dov'è
dunque il nostro modesto sentiero di lavoro?» chiese Stolz.
Oblomov tacque all'improvviso.
«Ecco, io completerò soltanto... il mio piano...», disse. «E
che Iddio vi protegga!», aggiunse con dispetto. «Io
non li tocco, non cerco niente. Solo non trovo che la loro sia una
vita normale. No, non è vita, ma un travisamento della norma,
dell'ideale di vita che la natura ha additato come ideale all'uomo...».
«E
qual è questo ideale, questa norma di vita?».
Oblomov non rispose.
«Avanti, dimmi, che vita ti tracceresti tu?», insisté Stolz.
«L'ho già tracciata».
«E quale sarebbe? Su, parla, quale?».
«Quale?», disse Oblomov girandosi sulla schiena e guardando
il soffitto. «Be',
me ne andrei in campagna».
«E che cosa te lo impedisce?».
«Il mio piano non finito. E poi non ci vorrei andare solo, ma
con una moglie...».
«Ah, ecco! Allora, Dio ti benedica, che cosa aspetti? Ancora
tre o quattro anni, e nessuna donna vorrà più sposarti...».
«Che posso
farci? si vede che non è destino»,
disse Oblomov con un sospiro. «Il mio patrimonio non me lo permette».
«Scusa, e Oblomovka? Trecento anime!».
«E che sono? Non basterebbero per viverci con una moglie».
«Non basterebbero per viverci in due?».
«E se verranno figli?».
«Li educherai, e impareranno a badare a se stessi; sappili
indirizzare in modo che...».
«No,
perché trasformare dei nobili in artigiani? No!»,
lo interruppe Oblomov asciutto. «E, a parte i figli, come si potrebbe
vivere anche in due? Si fa presto a dire: vivere in due. In realtà,
appena ti sposi, ti arriva in casa una quantità di altre donne.
Guarda in qualsiasi famiglia: parenti o no, governanti o no, se non
vivono in casa, ci vengono ogni giorno a prendere il caffè, a
pranzare... Come potrei con trecento anime mantenere tanta gente?».
«Bene, supponiamo che ti regalassero altri trecentomila rubli,
tu cosa faresti?», domandò Stolz con viva curiosità.
«Li
porterei subito in banca», disse Oblomov, «e vivrei con gli
interessi».
«Le banche danno un interesse minimo; perché
non investirli in una società, per esempio la nostra?».
«No, Andrej, non me la fai».
«Come, non ti fideresti neanche di me?».
«Per
niente; non è per te, ma tutto può succedere: basta che la società
vada a gambe all'aria, e io resto sul lastrico. Ti pare che sia lo
stesso con una banca?».
«Va bene; e cosa faresti?».
«Be', me ne andrei a stare in una casa nuova, tranquilla...
Nei dintorni ci sarebbero dei buoni vicini, tu, per esempio... Ah no,
tu non stai mai fermo in un posto».
«E te ne
staresti sempre lì? Non andresti da nessuna parte?».
«Per niente
al mondo!».
«Allora,
perché dappertutto ci si affanna tanto a costruire ferrovie,
piroscafi, se l'ideale della vita è starsene sempre nello stesso
posto? Presentami
un progetto perché fermino tutto, Il'ja: così non ci muoveremo più».
«Anche senza di noi, sono in tanti: ti pare che manchino
amministratori, economi, mercanti, funzionari, viaggiatori oziosi, che
non hanno un loro angolino.
Che viaggino loro!».
«E tu, chi sei?».
Oblomov tacque.
«A
quale categoria sociale pensi di appartenere?».
«Chiedilo a Zachar», disse Oblomov.
Stolz soddisfece alla lettera il desiderio di Oblomov.
«Zachar!», gridò.
Zachar arrivò con gli occhi assonnati.
«Chi è quello coricato?», gli chiese Stolz.
Zachar si svegliò all'istante e lanciò un'occhiata sospettosa
prima a Stolz, poi a Oblomov.
«Come chi è? Non lo vedete?».
«Non lo vedo», disse Stolz.
«Che novità è? È il mio signore, Il'ja Il'iè».
E si mise a ridere.
«Bene, vai».
«Signore!», ripeté Stolz, e scoppiò a ridere.
«Be', gentleman», lo corresse stizzito Oblomov.
«No, no, signore!», disse Stolz, continuando a ridere.
«Che differenza c'è?» chiese Oblomov. «Gentleman è lo
stesso di signore».
«Il gentleman», precisò Stolz, «è un signore che si infila
le calze e si toglie le scarpe da sé».
«Sì, gli inglesi lo fanno da sé perché non hanno molta
servitù, ma i russi...».
«Continua a
descrivermi il tuo ideale di vita...
Dunque, saresti
circondato da buoni amici; e poi? Come passeresti le giornate?».
«Be', ecco la mattina mi alzerei», cominciò Oblomov
mettendosi le mani dietro la nuca, con il volto soffuso da una
espressione di serenità: con la fantasia si vedeva già in campagna.
«Il tempo è stupendo, il cielo è azzurrissimo, non c'è neanche una
nuvoletta», continuò. «Nel mio piano, da un lato della casa c'è un
balcone che guarda a oriente, verso il giardino, i campi, l'altro lato
dà sul villaggio. Mentre aspetto che mia moglie si svegli, infilerei
la veste da camera e andrei in giardino a fare due passi e a respirare
gli effluvi mattutini; lì troverei il giardiniere, annaffieremmo
insieme i fiori, poteremmo cespugli e alberi. Io raccolgo un mazzolino
per mia moglie. Poi vado a fare il bagno nella vasca o al fiume;
torno... la finestra del balcone è già aperta; mia moglie è in
vestaglia e in capo ha una cuffia così leggera che per poco il vento
non gliela fa volar via... Lei mi sta aspettando. "Il tè è
pronto", dice. Che bacio! Che tè! Che comoda poltrona! Mi siedo
a tavola: ci sono biscotti, panna, latte fresco...».
«E poi?».
«E poi, indossato un ampio soprabito o una giubba purchessia,
cingo mia moglie per la vita e mi addentro con lei in un viale ombroso
e senza fine: camminiamo adagio, meditando, in silenzio o pensando ad
alta voce, sognamo, contiamo i minuti di felicità come i battiti del
polso, ascoltiamo il cuore che pulsa e pare voglia fermarsi; cerchiamo
di sentirci all'unisono con la natura... e senza accorgecene arriviamo
al fiume, ai campi aperti... L'acqua mormora lieve; le spighe
ondeggiano accarezzate dal vento, fa caldo... Saliamo in barca, mia
moglie voga, alza appena il remo...».
«Ma tu sei poeta, Il'ja», lo interruppe Stolz.
«Sì,
poeta nella vita, perché la vita è poesia. Sono gli uomini che la
travisano! Dopo si può andare nella serra», proseguì Oblomov,
inebriandosi dell'ideale di felicità che andava descrivendo.
Egli traeva
dall'immaginazione quadri bell'e pronti,
già da tempo dipinti; per questo parlava con tanta animazione, senza
fermarsi.
«E diamo un'occhiata alle pesche, all'uva», disse, «decidiamo
quel che si deve presentare in tavola, poi torniamo, facciamo una
piccola colazione e aspettiamo gli ospiti... Ed ecco che portano a mia
moglie un biglietto da parte di una certa Mar'ja Petrovna, insieme a
un libro, o a uno spartito, oppure un ananas inviatoci in dono; o
ancora, nella erra è maturato un meraviglioso cocomero e lo mandiamo
a un amico per il pranzo dell'indomani, o magari glielo porto io
stesso... E intanto in cucina ferve il lavoro; il cuoco, in grembiule
e berretto bianchi come la neve, è tutto affaccendato: mette una
pentola sul fuoco, ne toglie un'altra, la rimescola, qui comincia a
impastare, là versa dell'acqua... battono, battono i coltelli... c'è
chi trita la verdura... chi fa il gelato... Prima del pranzo, è
piacevole dare un'occhiata in cucina, scoperchiare un tegame,
annusare, osservare come si preparano i pasticcini, come si monta la
panna. Poi mi sdraio su un divano; mia moglie legge ad alta voce le
novità che ci sono; di tanto in tanto si ferma e ne discutiamo... Ma
arrivano gli ospiti, per esempio, tu e tua moglie...».
«Bah, fai prender moglie anche a me?».
«Si
capisce! E poi altri due o tre amici, sempre gli stessi. Riprendiamo
la conversazione interrotta il giorno prima, ci scambiamo battute
spiritose, oppure ci immergiamo in un silenzio eloquente, meditiamo:
non però sulla perdita di un posto o su un dibattito in senato, ma
sulla pienezza dei desideri appagati... una deliziosa meditazione...
Non senti filippiche pronunciate con la bava alla bocca contro un
assente, non sorprendi sguardi che ti promettono lo stesso trattamento
non appena sarai uscito dalla porta. Non intingi il pane nel sale con
chi non ami, con chi non è buono. Negli occhi dei tuoi interlocutori
leggi la simpatia; nei loro scherzi cogli un riso schietto, non
maligno. Tutto come detta l'anima! Quello che è negli occhi, sulle
labbra, è nel cuore! Dopo il pranzo, il moka, l'avana sulla
terrazza...».
«Mi stai descrivendo la vita che facevano i nostri nonni e i
nostri padri».
«No, non è la stessa», ribatté Oblomov quasi piccato. «Ma
come la stessa? Credi che mia moglie si occuperebbe della preparazione
delle marmellate e di funghi in conserva? Credi che si metterebbe a
contare le matasse di filo e misurerebbe la tela fatta in casa? Credi
che prenderebbe a schiaffi le serve? Senti: musica, libri, pianoforte,
bei mobili...».
«Be', e tu?».
«Io non leggerei i giornali dell'anno prima, non andrei in
giro in una carrozza scomoda e antiquata, non mangerei tagliolini e
oche, ma manderei il cuoco a imparare il mestiere in un club inglese o
in casa di un ambasciatore».
«Be', e poi?».
«Poi, quando scema il caldo, mandiamo il carro con il samovar
e il dessert nel boschetto di betulle, oppure in un prato, sull'erba
falciata; stendiamo tappeti tra i covoni di fieno, e ce la godiamo
fino a quando ci porteranno la zuppa fredda e le bistecche. Per i
campi passano i contadini con le falci sulle spalle; là avanza lento
un carro talmente carico che il fieno lo ricopre tutto, compreso il
cavallo: in cima, spunta il berretto d'un contadino con dei fiori, e
la testa di un bambino; un gruppo di contadine scalze, coi falcetti,
canta a gola spiegata... D'un tratto vedono i signori, tacciono, fanno
un profondo inchino. Una di loro, con il collo abbronzato dal sole, i
gomiti nudi, gli occhi timidamente abbassati ma maliziosi, si
schernisce appena un pochino, tanto per l'apparenza, dalla carezza del
padrone, che però la rende felice... ssst!... che la moglie non veda!
Dio ci scampi e liberi!».
Oblomov e Stolz scoppiarono a ridere.
«Nei campi scende l'umidità», concluse Oblomov, «fa buio;
la nebbia, come un mare si rovescia sulla segala; le groppe dei
cavalli sono scosse dai brividi, gli zoccoli scalpitano: è ora di
rientrare. A casa hanno già acceso i lumi; in cucina i coltelli
battono a tutto spiano; un tegame di funghi, qualche cotoletta, frutti
di bosco... poi musica... Casta diva... Casta diva!», cominciò a
cantare Oblomov. «Non posso rimanere indifferente quando ricordo
Casta diva», disse dopo aver cantato l'inizio dell'aria: «Come si
consuma di dolore il cuore di questa donna! Quanta tristezza è
racchiusa in questi accenti!... E nessuno intorno a lei sa nulla... e
lei sola... Il segreto la opprime; ella lo confida alla luna...».
«Ti piace quest'aria? Ne sono molto felice, perché Ol'ga Il'inskaja
la canta divinamente. Te la farò conoscere... Che voce, che
interprete! E lei stessa, che fanciulla incantevole! D'altra parte, può
darsi che io non sia un giudice imparziale: ho un debole per lei... Ma
non ti distrarre, non ti distrarre», aggiunse Stolz. «Racconta».
«Ebbene»,
rispose Oblomov, «che altro dovrei raccontare?... è tutto qui!...
Gli invitati si ritirano nelle stanze per gli ospiti, nelle ali della
casa e nei padiglioni, e l'indomani se ne andranno ognuno per suo
conto: uno va a pescare, un altro prende il fucile, e c'è anche chi
semplicemente rimane in casa».
«Rimane in casa così, semplicemente, senza metter mano a
niente?».
«A che vuoi che metta mano? Al fazzoletto, forse. Perché, non
piacerebbe anche a te vivere così?», chiese Oblomov. «Eh? Non ti
pare vita, questa?».
«Un'esistenza così per sempre?», chiese Stolz.
«Fino ad avere i capelli bianchi, fino alla tomba. Questa è
vita!».
«No,
questa non è vita».
«Come
non è vita? Cosa le manca? Pensa un po': non vedresti mai un viso
pallido e sofferente; niente preoccupazioni, niente discorsi
riguardanti il senato, la borsa, le azioni, i rapporti, le
consultazioni del ministro, le promozioni, gli aumenti di indennità.
Ma sempre conversazioni su quel che più ti va a genio! Non avresti
mai bisogno di cambiare casa: e già vuol dire tanto! Dunque, non è
vita questa?».
«Non è vita!», ripeté cocciuto Stolz.
«Che cos'è allora, secondo te?».
«È... (Stolz rimase un momento pensieroso, alla ricerca del
nome da dare a quella vita)... è una specie di... oblomovismo»,
disse infine.
«O-blo-movismo!», ripeté lentamente Il'ja Il'iè,
meravigliato da quella strana parola, sillabandola: «O-blo-mo-vi-smo!».
Fissò su Stolz uno sguardo strano.
Ma qual è,
secondo te, l'ideale della vita? Che cosa non è oblomovismo?»,
chiese titubante e senza entusiasmo. «Forse non aspirano tutti a
quello che io sogno? Ma via!», aggiunse più ardito. «La meta finale
di tutto il vostro correre di qua e di là, delle vostre passioni,
delle vostre guerre, dei vostri traffici e della vostra politica, non
è forse la tranquillità, non è l'aspirazione a questo ideale di
paradiso perduto?».
«Anche la tua utopia è oblomovistica», obiettò Stolz.
«Tutti
cercano il riposo e la tranquillità», si difese Oblomov.
«Non tutti; e tu stesso, una decina di anni fa, non cercavi
questo nella vita».
«E cosa cercavo?», domandò perplesso Oblomov, perduto nei
ricordi del passato.
«Ricordalo, pensaci. Dove sono i tuoi libri, le
traduzioni?».
«Zachar li ha messi chissà dove», rispose Oblomov. «Devono
essere in qualche angolo».
«In qualche angolo!», esclamò Stolz in tono di rimprovero.
«Nello stesso angolo in cui giacciono le tue buone intenzioni di
"lavorare fino a che se ne hanno le forze, perché la Russia ha
bisogno di braccia e di teste che sfruttino le sue fonti inesauribili
(sono parole tue); lavorare perché il riposo sia più dolce, e
riposare significa vivere un altro lato dell'esistenza, il lato più
artistico, più bello: quello della vita di artisti e poeti".
Zachar ha messo in quell'angolo anche questi bei principi? Ricordi
che, dopo aver letto tanti libri, intendevi recarti in paesi stranieri
per meglio conoscere e amare il tuo? "Tutta
la vita è pensiero e lavoro", affermavi allora, "un lavoro
magari oscuro ma incessante, grazie al quale si può morire con la
coscienza di aver compiuto il proprio dovere." Eh? in quale
angolo è relegato tutto questo».
«Sì... sì...», disse Oblomov,
seguendo inquieto ogni parola di Stolz, «ricordo proprio che... mi
pare... Già!», disse a un tratto, rammentando il passato. «Un
tempo, Andrej, avevamo intenzione di girare l'Europa in lungo e in
largo, di attraversare la Svizzera a piedi, di scottarci i piedi sul
Vesuvio, di scendere tra le rovine di Ercolano. Mancava poco che
impazzissimo. Quante sciocchezze!...».
«Sciocchezze!...», ripeté in tono di rimprovero Stolz. «Eppure
sei stato tu a dire con le lacrime agli occhi, guardando le
riproduzioni delle madonne di Raffaello, della Notte del Correggio,
dell'Apollo del Belvedere, "Dio mio, non ci sarà mai dato di
guardare gli originali e di restare muti presi dallo sgomento per
essere davanti a una creazione di Michelangelo, di Tiziano, e
calpestare il suolo di Roma? Possibile che per tutta la vita dovrò
vedere mirti, cipressi e aranci nelle serre e non nella loro patria?
non potrò respirare l'aria dell'Italia e inebriarmi sotto il suo
cielo azzurro?". E quanti magnifici fuochi d'artificio
sprizzavano allora dalla tua testa! Sciocchezze, le chiami!».
«Sì, sì, rammento», disse Oblomov ricordando il passato. «E
tu mi prendesti la mano e dicesti: "Giuriamo di non morire senza
aver veduto tutto questo...".
«Ricordo», proseguì
Stolz, «che una volta per il mio onomastico mi portasti una
traduzione di Say con dedica; quella traduzione la conservo ancora. E
quando ti chiudesti con l'insegnante di matematica perché volevi
assolutamente arrivare a capire a che ti servisse conoscere cerchi e
quadrati, ma piantasti tutto a mezzo senza venirne a capo? Hai
cominciato a studiare l'inglese... e non l'hai imparato. E allorché
io progettai un viaggio all'estero e ti invitai a visitare le
università tedesche, sei saltato su, mi hai abbracciato e mi hai teso
la mano con gesto solenne. "Sono con te, Andrej, verrò con te
dappertutto": sono le tue precise parole. Tu sei sempre stato un
po' commediante. Ebbene, Il'ja? Io sono stato due volte all'estero,
dopo che avevamo accumulato tante nozioni in patria, mi sono seduto
umilmente sui banchi delle università di Bonn, di Jena, di Erlangen,
poi ho imparato a conoscere l'Europa come le mie tasche. Ammettiamo
pure che un viaggio all'estero sia un lusso e che non tutti siano in
condizioni di farlo o ne sentano l'impellenza... ma la Russia? Io ho
percorso la Russia in lungo e in largo. Lavoro...».
«Prima o
poi la smetterai di lavorare», osservò Oblomov.
«Non smetterò mai. Perché dovrei?».
«Quando avrai raddoppiato il tuo capitale», disse Oblomov.
«Quand'anche lo quadruplicassi, non smetterei neanche allora».
«Ma perché ti arrabatti tanto», riprese Oblomov dopo una
pausa, «se il tuo scopo non è quello di assicurarti l'avvenire per
poi ritirarti in un posto tranquillo a riposare?».
«Oblomovismo campagnolo!», disse Stolz.
«O se il tuo scopo non è quello di raggiungere in società un
nome e una posizione come servitore dello stato tali da farti poi
godere in un ozio onorato il riposo che ti spetta?».
«Oblomovismo pietroburghese!», obiettò Stolz.
«Ma allora quando si vive?», ribatté Oblomov indispettito
dalle osservazioni di Stolz. «Perché mai affannarsi per tutta
l'esistenza?».
«Per
il lavoro in se stesso, e per null'altro. Il lavoro è l'immagine, il
contenuto, l'elemento e lo scopo della vita, per lo meno della mia
vita. Dalla tua, invece, tu hai bandito il lavoro, e che cosa è
diventata ormai la tua vita!
Io tenterò di scuoterti, forse per l'ultima volta. Se dopo di ciò tu
continuerai a startene lì con i vari Tarant'ev e Alekseev, sarai
completamente perduto, diventerai di peso anche a te stesso. Adesso o
mai più!», concluse.
Oblomov lo ascoltava con un'espressione allarmata. Era come se
l'amico gli avesse messo davanti uno specchio e lui, spaventato, vi si
riconoscesse.
«Non mi rimproverare, Andrej: aiutami piuttosto!», lo pregò
con un sospiro. «Io sono il primo a tormentarmi per questo; e se tu
avessi guardato e ascoltato, anche solo oggi, come io mi scavo la
fossa con le mie mani e come piango su me stesso, questi rimproveri
non sarebbero usciti dalla tua bocca. So tutto, comprendo tutto, ma mi
mancano la forza e la volontà. Dammi
la tua volontà e la tua intelligenza, e guidami dove vuoi. Forse,
dietro di te, mi muoverò, ma da solo non mi sposterei di un palmo.
Hai detto bene: "Adesso o mai più". Ancora un anno, e sarà
troppo tardi».
«Ma sei proprio tu, Il'ja?», disse Andrej. «Ti ricordo come
un ragazzo snello e vivace, che ogni giorno andava a piedi da Preèistenka
a Kudrino; là nel giardinetto... ha dimenticato le due sorelle? Hai
dimenticato che portavi loro Rousseau, Schiller, Goethe, Byron? E che
toglievi loro di mano i romanzi della Cottin e della Genlis? Ti davi
importanza, volevi affinare il loro gusto...».
Oblomov sobbalzò sul divano.
«Come, ricordi anche questo, Andrej? Già! Sognavo con loro,
sussurravo speranze per il futuro, formavo progetti, avevo pensieri e...
anche sentimenti, di nascosto, perché tu non mi prendessi in giro.
Anche questo è morto là e non si è più ripetuto! E dove è andato
a finire? Perché si è spento? È inconcepibile! Eppure, non mi hanno
sconvolto né tempeste né turbamenti; non ho perduto nulla; nessun
giogo pesa sulla mia coscienza, che è pura come cristallo; nessun
colpo ha ucciso in me il mio amor proprio. Malgrado ciò, Dio sa perché,
tutto va in rovina!».
Sospirò. «Sai, Andrej, nella mia vita non si è mai divampato un fuoco, salvatore o distruttore che fosse. Essa non è stata, come per gli altri, simile a un mattino, che a poco a poco si accende di colori e di luce e si trasforma in un meriggio ardente, in cui tutto ribolle e vibra, e poi, sempre più calmo e pallido, smuore nella sera. No, quando la mia vita è cominciata, era già al tramonto. È strano, ma è così! Dal primo momento in cui ho avuto coscienza di me stesso, ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato a spegnermi redigendo le scartoffie della cancelleria; ho continuato a spegnermi apprendendo dai libri verità delle quali non sapevo come servirmi nella vita; mi sono spento tra gli amici, davanti alle ciarle, ai pettegolezzi, alle punzecchiature, alle chiacchiere fredde e cattive, alla loro futilità, vedendo come l'amicizia fosse tenuta su da incontri senza scopo, senza simpatia; mi sono spento e ho dissipato le mie forze con Mina, alla quale ho dato oltre la metà delle mie entrate credendo di amarla; mi sono spento nelle malinconiche e indolenti passeggiate sulla Prospettiva Nevskij fra pellicce d'orso e baveri di castoro, nelle serate, ai ricevimenti, dove mi si accoglieva cordialmente come un partito non disprezzabile; mi sono spento e ho sprecato in bagattelle la mia vita e la mia intelligenza trasferendomi dalla città in villa, dalla villa a via Gorochovaja, riconoscendo la primavera dall'arrivo delle ostriche e delle aragoste, l'autunno e l'inverno dai giorni fissi di ricevimento, l'estate dalle passeggiate... ho sprecato tutta la vita in una pigra e tranquilla sonnolenza, come gli altri... Anche
l'amor proprio, per che cosa l'ho speso? Per ordinare abiti a un sarto
di grido? Per frequentare una casa importante? Perché il Principe P.
mi stringesse la mano? Eppure
l'amor proprio è il sale della vita! Dov'è andato a finire? O io non
ho capito questa vita, o essa non vale nulla; ma io non ho mai visto né
conosciuto niente di meglio, nessuno me lo ha mostrato. Tu apparivi e
scomparivi come una cometa, luminosa, veloce, e io, dimentico di
tutto, mi spegnevo...». |