La classe politica
del periodo della Destra
ed i suoi legami con la borghesia fondiaria
Questa breve sezione tenta di inquadrare le
problematiche socio-politiche dell'area piemontese subito dopo l'Unità, ponendole
in relazione al nuovo quadro istituzionale della Destra storica, che porterà
nel 1864 al trasferimento della capitale da Torino a Firenze. L'analisi di
Valerio
Castronovo mette in evidenza soprattutto il legame solido
tra la borghesia fondiaria piemontese e la classe politica che guida la
deputazione piemontese alla Camera negli anni Sessanta e Settanta ed il ruolo
di relativa marginalità, riservato al capoluogo torinese dopo lo spostamento a
Firenze della capitale del Regno, con gli inevitabili contraccolpi sul
ruolo propulsore che questa città avrebbe potuto esercitare a livello
regionale. |
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Due esponenti dei governi della Destra storica di solida ispirazione
cavouriana: il biellese Quintino Sella ed il bolognese Marco Minghetti |
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Nato a Sella di Mosso nel 1827 morì a Biella nel 1884. Di ricca famiglia di industriali lanieri, studiò ingegneria a Torino e si perfezionò poi nel campo tecnico e scientifico in diversi paesi europei, insegnando geometria applicata e mineralogia. Deputato dal 1860, nel 1862 fu nominato ministro delle Finanze, dicastero che guidò anche nel 1864-65 e nel 1869-73. Fermo assertore di una politica economica rigorosa, riuscì a riportare in pareggio il bilancio dello Stato ricorrendo anche a misure fiscali impopolarissime ma di grande efficacia. Il risultato fu una generale ripresa economica del paese, malgrado le agitazioni operaie provocate dall'attuazione del suo programma. Si scontrò anche con gli interessi ecclesiastici per essere ricorso all’incameramento e alla vendita di beni della Chiesa e per essersi schierato tra i più accesi fautori della presa di Roma nel 1870.
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http://www.societalibera.org/librisoclibera/testi/minghettiopere/05-mighettiopere.htm
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La creazione dello stato unitario pone a diretto
confronto le economie delle varie regioni italiane. Il 90% della popolazione
italiana vive nelle campagne ed è dedita ad attività agricole. L'agricoltura
costituisce il settore economico e sociale preponderante nella vita del
paese. Si tratta però di un'agricoltura che, ad eccezione di limitate aree
gestite in maniera capitalistica e legate all'esportazione, concentrate
soprattutto nel nord, è ancora molto arretrata. Nelle campagne italiane sono
infatti quasi del tutto assenti le più moderne tecniche agricole adottate in
Inghilterra, Francia e Germania e solo i 3/5 dei terreni sono messi a
coltura ( essendo un quinto destinato a pascolo ed un quinto ancora
paludoso; grandi paludi esistono sia al Sud che in vaste zone della Valle
padana. La grande proprietà terriera è caratterizzata per la maggior
parte da una quasi totale mancanza di iniziative innovative e di
investimenti produttivi: fanno eccezione le aziende agricole
capitalistiche della Liguria, del Piemonte, della Lombardia ed, in minor
misura, dell'Emilia, delle Marche e di qualche ristrettissima zona del sud.
La piccola proprietà contadina ( diffusa soprattutto nel Sud, in
Piemonte e nelle aree prealpine e preappenniniche ) dà luogo soltanto ad
una povera agricoltura di sussistenza. La mezzadria caratterizza poi
la zona centrale dell'Italia e, se attenua la miseria contadina, ostacola
però - a causa del carattere semifeudale del rapporto di produzione - lo
sviluppo produttivo. Da questo quadro negativo alcune aree della pianura risicola vercellese e novarese, affiancate dalla Lomellina e dall'Oltrepò pavese si staccano per la presenza della grande azienda risicola capitalistica, che lavora per l'esportazione. Il riso, dopo la seta, è infatti il secondo prodotto d'esportazione, venduto tanto in Francia quanto in Inghilterra. La risicoltura richiede una tale intensità di lavoro e un tale volume di investimenti da imporre - quando è condotta su larga scala - una gestione capitalistica.
La situazione in Piemonte, in quegli anni è
comunque più variegata e complessa. Particolarmente fitta è la presenza di
tanti piccoli possidenti e il problema che più sta a cuore
alla maggioranza degli uomini politici locali è il
contenimento del
carico fiscale. I governi della Destra devono infatti far fronte ad
un grande disavanzo pubblico che impone un inasprimento fiscale,
anche se questo appare contenuto nel settore delle imposte dirette
( gravanti sui terreni ) per non colpire le classi proprietarie,
orientandosi invece a colpire i consumi ( tassa sul macinato ). Per tutto il primo ventennio dopo l'Unità esponenti della nobiltà fondiaria e possidenti di campagna borghesi, arricchitisi anche con il commercio e con le professioni, mantennero un ruolo dominante nella composizione della classe politica subalpina. Solo nel capoluogo torinese, comunque, era concentrata buona parte dell'alto reddito attribuito nel suo complesso al Piemonte ( 10 miliardi e mezzo di lire ), concentrata nelle mani della borghesia d'affari e dell'aristocrazia di servizio.
Dure manifestazioni di protesta accompagnarono
il trasferimento della capitale a Firenze nel 1864. Con la corte ed il
governo se n'erano andati da Torino anche enti ed uffici pubblici, la Banca
centrale di Stato, la zecca, società commerciali e stabilimenti di armi e la
popolazione era diminuita di più di un decimo. Da allora Torino s'era chiusa
in una specie di volontario isolamento. La politica cavouriana tendente a
portare il Piemonte alla testa della civiltà italiana con
lo sviluppo di un forte apparato burocratico e militare, era stata la
piattaforma comune sulla quale erano confluite - nel periodo
risorgimentale - le istanze della borghesia progressista e le ambizioni
espansionistiche della dinastia,
riuscita a trascinarsi dietro i ceti terrieri più tradizionali e la destra
conservatrice avversa al regime costituzionale ed al liberalismo.
Svanito il progetto di fare di un grande Piemonte il modello e la guida
della penisola unificata, si fanno sentire le
nostalgie dei
piemontesisti ad oltranza, che rivendicano una sorta di
primogenitura della regione e della
città di Torino nel processo di riunificazione nazionale e
pretendono la restituzione o il risarcimento di
privilegi municipalistici.
Commercianti e bottegai del centro urbano torinese lamentano la perdita di
clientela danarosa, impiegati e funzionari recriminano il declassamento
con lo spostamento degli uffici ministeriali, artigiani che temono la
rimozione dell'arsenale militare e delle officine di materiale ferroviario. In rapporto ai problemi sociali, il fatto che non esistessero nelle città grandi opifici contribuiva alla sopravvivenza dell'interclassismo solidarista, tipico del conservatorismo illuminato preunitario. Furono i moderati a fondare - contro l'opposizione di clericali e nobili - le prime società di mutuo soccorso e le prime cooperative, che si organizzavano in base al modello settecentesco delle suddivisioni di mestiere, controllate dalla pubblica assistenza. Nessun eco dalla Francia proveniva sul dibattito tra socialismo ed utopismo, che tanta parte aveva nella cultura del tempo. A controllare i sodalizi di assistenza, le scuole popolari, ricoveri di mendicità in qualità di promotori e di soci onorari, erano ancora medici, avvocati ed insegnanti, legati alla borghesia illuminata. Negli anni '70 fallirono a Torino le prime sezioni dell'Internazionale, mentre l'Associazione generale degli operai era fedele ai principi del paternalismo sociale.
Anche nelle circoscrizioni di provincia
amministratori e uomini politici condividevano l'indirizzo
spiccatamente regionalistico della classe dirigente torinese. Il loro
atteggiamento era sensibile ai problemi reali ed agli
interessi che si legavano al tipo di assetto sociale e di regime
fondiario. Il fatto che il collegio fosse uninominale vincolava
la lotta elettorale alla personalità del candidato, che doveva possedere
una chiara conoscenza delle condizioni della vita locale.
La legge elettorale favoriva per i
titoli di censo richiesti alla candidatura la classe dei proprietari
fondiari ed immobiliari. Il possesso di immobili era il comune
denominatore della parte più agiata della borghesia locale costituita
da medici, notai, avvocati, ufficiali e dai proprietari terrieri. Nel
Cuneese ad esempio non comparivano nel Consiglio provinciale rappresentanti
dei ceti impiegatizi a reddito fisso né delle professioni semilibere (
geometri, esercenti, insegnanti, piccoli appaltatori.. ).
La maggioranza della deputazione piemontese
aveva inizialmente fiancheggiato la Destra storica ( di ispirazione
cavouriana ), ma poi si era spostata su posizioni critiche in
relazione agli oneri della politica finanziaria ( progetto di
conguaglio della tassa fondiaria del 1864 ) ed alla morsa dell'accentramento
amministrativo, che avevano sollevato ondate di scontento e disagio
nelle campagne. L'aumento delle tasse suscitava il dissenso dei
più grossi proprietari e la richiesta di sgravi da parte dei
possidenti minori, sia per le imposte erariali sia per le sovraimposte
comunali e provinciali. Il Piemonte risultava infatti tra le regioni
più tassate rispetto a parecchie
zone dell'Italia centro-meridionale, in cui si erano tramandati
nel periodo preunitario sistemi di catasto più blandi, suscettibili di
vaste evasioni fiscali.
I primi disordini e le prime sommosse si
ebbero nelle campagne piemontesi per l'odiosa tassa sul macinato, ma
la mediazione dei notabili riuscì in gran parte a riassorbire queste
pressioni dal basso all'interno di appositi comitati o in lunghe trafile
di appelli e ricorsi. Più conflittuale si presentava la situazione
nell'area della grande azienda
capitalistica che impiegava braccianti e giornalieri, dove si verificarono
veri e propri scontri di classe. Qui aveva cominciato ad insinuarsi la
propaganda di anarchici ed internazionalisti dopo il il 1871 ( anno della
Comune di Parigi).
Le comunità rurali piemontesi stavano anche
subendo le spinte dissolutrici della graduale diffusione del sistema di
fabbrica. Nelle valli del Biellese, del Pellice, del Chisone, nelle
campagne intorno a Torino il
progressivo accentramento dei lavoranti nell'industria tessile si scontrava
con la tendenza delle famiglie contadine a conservare i tradizionali margini
di autonomia del lavoro domestico, che in varie zone costituiva
fonte di reddito altrettanto importante quanto la conduzione dei campi.
Erano i tessitori a mano a difendere la loro indipendenza, ma anche
gran parte della manodopera femminile dedita nelle mura di casa alle
operazioni della tratura della seta o filatura del cotone. L'obiettivo
dei nuclei contadini era di non cedere forza lavoro né maschile né femminile
alla manifattura meccanizzata. L'avanzata degli opifici suscitò quindi
ovunque resistenze ed agitazioni e nel Biellese diede origine tra il 1864 ed
il 1865 al primo grande sciopero generale ed alla guerra sistematica tra
fabbricanti e tessitori. La possibilità di far conto sui redditi dei loro
campicelli ed il notevole spirito di
solidarietà interna delle famiglie contadine, consentirono per un
certo tempo ai lavoranti a domicilio di non abdicare, di mantenere sotto
controllo i loro telai e di ottenere in alcuni casi una maggiore
retribuzione a cottimo. |
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