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L'inchiesta agraria Jacini

L'inchiesta agraria Jacini

I primi decenni dell'unità nazionale ( 1861 - 1880 ) non permettono ancora di rilevare dati statistici del tutto precisi ed attendibili, tali da poter essere confrontati in serie omogenee. Non è possibile così ricostruire gli andamenti delle singole produzioni, ma bisogna far riferimento ad indagini a carattere generale e settoriale, che offrono uno spaccato del mondo agricolo e ci parlano dello sforzo attuato per ottenere risultati compatibili con il mutato quadro di riferimento nazionale ed internazionale. Si studiano le realtà agricole con l'attenzione puntata ai risultati che si ottengono nei paesi europei ed extraeuropei. Il tema dello sviluppo e del miglioramento dei settori economici impegnò tecnici, economisti e politici, mentre la classe politica italiana si confrontava nelle posizioni della Destra ( vicina alla linea d'azione cavouriana ) e della Sinistra storica ( più aperta al riformismo sociale ).
Un quadro riassuntivo della realtà agricola italiana fu tracciato nelle considerazioni introduttive dell'Inchiesta sulle condizioni della classe agricola in Italia, avviata con la legge 15 marzo 1877.
La disparità di condizioni ambientali strideva con l'omogeneizzazione formale applicata con le leggi sull'unificazione. Ad esempio la trasposizione delle norme vigenti in materia di catasto sulla terra dallo Stato sardo-piemontese a tutto il  Regno d'Italia  si scontrava con la diversa impostazione degli estimi catastali negli oltre 30 tipi di catasti esistenti in Italia. L'applicazione di aliquote differenziate nei vari territori - in relazione con la difformità degli estimi - aveva determinato del resto prelievi percentualmente diversi sul reddito effettivo delle terre. Il Vercellese si trovava in una condizione migliore rispetto ad altre aree italiane, non avendo dovuto registrare grandi mutamenti nella sua legislazione, vista la sua antica appartenenza allo Stato sardo ed essendo dotato di una discreta densità di linee di comunicazione. Tuttavia anche qui si imponeva il carico fiscale legato alle consistenti richieste della finanza pubblica.
 


Scena campestre nella campagna vercellese - Collezione Tarchetti
 

L'Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia era stata avviata con la legge 15 marzo 1877. I lavori avrebbero dovuto concludersi in due anni, ma fu necessaria l'ulteriore legge 12 dicembre 1878, che ne prolungò la durata sino al termine del 1882. L'inchiesta è nota come Inchiesta Jacini dal suo presidente, il senatore conte Stefano Jacini, ed è considerata come la più completa analisi sulla situazione dell'agricoltura italiana all'aprirsi dell'ultimo quarto dell'Ottocento. L'inchiesta si inserisce fra le molteplici indagini che il Parlamento italiano realizzò in quei decenni per conoscere il quadro esistente sul territorio nazionale per i settori vitali della economia e della società, seguendo il modello sperimentato dal Parlamento inglese e, in pratica, riprendendo la pratica delle statistiche conoscitive degli antichi regimi.  Gli studiosi dell'agricoltura italiana dell'Ottocento concordano nel riconoscere la validità dei dati e delle analisi dell'Inchiesta Jacini sulla situazione esistente in quel periodo. Meno concordi sono i giudizi per le conseguenze determinate dalla Inchiesta sulle decisioni assunte per la politica agraria del Paese.

La relazione conoscitiva sull'agricoltura del Vercellese è inserita nel più vasto territorio del Novarese.
In quel periodo, infatti, il Piemonte era suddiviso in sole quattro province, Alessandria, Cuneo, Novara e Torino, ed il Vercellese faceva parte appunto della provincia di Novara. Non esiste quindi una relazione specifica per il Vercellese, anche se  i commissari incaricati distinsero fra le differenti aree del Piemonte orientale.

In particolare si rilevarono le diversità nei vari aspetti trattati, incontrando alcune difficoltà nell'individuare nettamente tutte le tipologie delle aziende agrarie esistenti nelle aree territoriali in cui  sarebbe stato necessario suddividere la grande provincia di Novara. Nella parte dedicata alla condizione agraria, per i sistemi di coltivazione annotarono:
 • La grande coltura ha, come è facile immaginarselo, una notevole estensione al piano e specialmente in quello irriguo, e più ancora nel Vercellese che nel Novarese. Nella prima zona si vedono grandi tratti di terreno, di cui alcuni coprono anche diecine di ettari messi a sola risaia ed alternati con altri tratti meno vasti se si vuole, ma quasi sempre di notevole estensione e coltivati ora a prato, ora a prodotti diversi a seconda dei casi. Questo straordinario predominio della risaia è proprio più del Vercellese che del Novarese ove sono più comuni gli avvicendamenti e più variata la coltura. Quindi nella parte orientale malgrado il predominio dell'irrigazione si vede il suolo diviso in piccoli tratti coltivati taluni a prato, altri ad aratori asciutti od irrigati, con frumento, segale, avena, granturco, ravizzone, lino, ecc.

Nel Vercellese la divisione della coltura si può desumere dal fatto che la Società generale d'irrigazione nel 1878 concedette l'acqua a 23.747 ettari di terreni, di cui 12.047 erano risaie, 4685 prati e 7.015 marzaschi cioè melighe e prati da spianata. Si può quindi ritenere che nel basso Vercellese metà del terreno irrigatorio è occupato dalla risaia, la quale corrisponderà circa ad un terzo della superfìcie totale coltivata, e che alberi, prati e marzaschi occuperanno altrettanta estensione, lasciando il resto alle colture asciutte

Nell'inchiesta agraria si vollero anche individuare le aree destinate a colture intensive e quelle di coltura estensiva, con il problema di definire con precisione la distinzione fra le due modalità.
Così si ritenevano intensive la coltivazione degli orti irrigui del Novarese e del Vercellese, la marcita, la coltivazione del lino, la vite, la canapa, ovviamente ognuna nelle sue zone di presenza. Il procedere dell'applicazione di innovazioni lo si può rilevare in un'osservazione concisa: «Si può invece considerare alle volte come estensiva la coltura della risaia perenne fatta da certi agricoltori seguaci degli antichi metodi».

Le notizie analitiche furono raccolte con il ricorso a molteplici fonti, per alcuni versi ripetendo metodi antichi, simili a quelli già utilizzati al tempo della perequazione settecentesca con l'interrogatorio di uomini dei campi, per altri riferendosi a pubblicazioni e studi specifici e ai documenti ufficiali prodotti dalle Camere di Commercio, seppur queste non ancora presenti ovunque. Nel caso di Novara non esisteva ancora una Camera di Commercio, che avrebbe avuto vita a partire dal secolo seguente.

L'avvocato Francesco Meardi, estensore della relazione sulla provincia di Novara, riferisce di avere iniziato i suoi studi a partire da una memoria sul Novarese pubblicata nel 1862 dal « professore Cuppari», seguita da altre: «più tardi dall'illustre comm. Bodio presentavansi al pubblico pregiate memorie, veri bozzetti succinti ma precisi sui temi essenziali dei contratti colonici più usitati, delle condizioni delle classi agricole, delle rotazioni agrarie, della distribuzione della proprietà, ecc.»

Fra queste si ricordava quella «dei signori Ferratene e Francesco Rampone, pel circondario di Vercelli». Ancora, la scarsa disponibilità di mezzi finanziari era uno dei problemi che più aveva tormentato i commissari per l'inchiesta, i quali non avevano potuto giungere alla pubblicazione, come avrebbero desiderato, di vere e proprie monografie per le singole circoscrizioni, arricchite anche della documentazione cartografica. Parallelamente ai lavori della giunta per l'inchiesta, alcune monografie erano state pubblicate a cura dei loro autori e fra queste il lavoro di Oreste Bordiga dal titolo L'agricoltura e gli agricoltori nel Novarese.
 

 

Le pratiche colturali

Le pratiche applicate alle colture presenti nelle terre destinate ai cereali furono individuate con l'elenco delle rotazioni agrarie in uso. Si nota immediatamente una notevole varietà, con un susseguirsi di colture più che con l'intervento di coadiuvanti esterni ai terreni. Riguardo alle rotazioni agrarie vi sono notevoli differenze fra il Novarese ed il Vercellese. Esse consistono nella maggiore estensione che il prato ha nella prima zona, mentre nel secondo predomina la risaia. Le principali rotazioni agrarie del Novarese, alcune delle quali si distinguono per la loro lunghezza ( il che è ottimo requisito ) , sono le seguenti:

Anno 1° frumento e segale ben concimati;
Anno 2° avena con discreta quantità di letame e con semi di foraggi in primavera per formare il prato;
Anno 3° 4° e 5° prato da vicenda concimato alternativamente con letame e terra;
Anno 6° granturco maggengo senza ingrassi;
Anno 7° 8° e 9° riso bertone il primo anno, francone il secondo e ostigliese il terzo, oppure francone i primi due anni e senza concime che viene somministrato solo al terzo.

Molte volte il granturco si pone in testa alla rotazione dopo il riso dell'ultimo anno per far asciugare il terreno coi molti lavori, poi si coltiva il frumento, e successivamente l'avena, il prato da 1 a 2 anni a seconda dei terreni, ed il riso.
Altra rotazione ugualmente adottata è la seguente:

Anno 1° granturco ben concimato e ben lavorato;
Anno 2° frumento con seme di trifoglio in primavera;
Anno 3° prato da vicenda come nel caso precedente;
Anno 4° 5° e 6° riso senza concime il primo anno, con un po' di terra al secondo e 3 o 4 quintali di lupini per ettaro al terzo.

Un altro avvicendamento ancora più estenuante di questo è il seguente:

Anno 1°frumento ben concimato e granturco quarantino per secondo prodotto;
Anno 2° avena e trifoglio per avere il prato, con molto letame;
Anno 3° e 4° prato a vicenda, il primo anno con stallatico e il secondo con terra grassa;
Anno granturco con seme di ravizzone in settembre e senza letame;
Anno 6° ravizzone e granturco agostano in giugno pure senza letame;
Anno 7° e 8° riso di diverse varietà con o senza concime a seconda dei casi.

Dove non si ha acqua sufficiente per la risaia o non si può coltivarla, si seguono queste rotazioni:

Anno 1° avena ben concimata e trifoglio;
Anno 2° 3° e 4° prato da vicenda concimato con letame, poi con terra e letame, indi anche con terra sola;
Anno 5°: granturco maggengo senza concime;
Anno :frumento o segale e granturco quarantino per secondo prodotto.

Oppure:
Anno 1° frumento ben concimato e trifoglio;
Anno 2° 3° e 4° prato da vicenda come nel caso precedente;
Anno 5° granturco e ravizzone in settembre senza letame;
Anno 6° ravizzone e granturco agostano pure senza letame.

Vi sono taluni che escludono assolutamente il prato ponendolo in appositi spazi e lasciandolo stabile, mentre nei tratti destinati alla vicenda seminano riso, frumento, granturco ed in genere tutti i cereali alternati assieme. Così si usa specialmente nel Vercellese ove fra le rotazioni addottate abbiamo le seguenti:

Anno 1° avena o frumento concimati in abbondanza e seme di trifoglio;
Anno 2° granturco sul sovescio del trifoglio precedente;
Anno 3°: frumento con trifoglio in seguito;
Anno 4° riso sul sovescio del trifoglio antecedente, e che dura anche sino al od al 6° anno.

Un'altra rotazione usata nel Vercellese sarebbe la seguente:

Anno 1° metà a granturco e metà ad avena con molto letame o con guano del Perù;
Anno 2°frumento ben concimato con seme di trifoglio;
Anno 3° riso con sovescio di trifoglio;
Anno 4° riso con 3 o 4 quintali di lupini per ettaro.

Per questa zona le rotazioni hanno in molti punti il difetto di dar troppa prevalenza alla risaia che raffredda di molto il terreno e richiede poi, quando si fa il rinnovo, che si dia molto letame.
Un altro inconveniente è quello della limitazione del prato che per alcune rotazioni non esiste affatto e per altre occupa meno di 1/3 o di 1/4 del terreno devoluto ai vari avvicendamenti. Però molti di questi hanno il pregio d'esser lunghi e di dare alla produzione dei foraggi un'importanza veramente considerevole. Parlando della zona irrigua non vanno trascurate le rotazioni del terreno linicolo, il quale offre l'esempio di una coltivazione veramente intensiva, sebbene non accompagnata dall'irrigazione.

Uno di questi avvicendamenti sarebbe il seguente:
Anno 1° segale ben concimata;
Anno 2° lino autunnale preceduto da tre lavorature dopo la segale, da un sovescio di fagioli e da un'abbondante concimazione;
Anno 3° granturco senza letame, su cui taluni seminano in settembre il ravizzone, per averlo nell'anno successivo;
Anno 4°
ravizzone e granturco agostano.

Queste rotazioni sono lodevoli perché accompagnate dall'uso di molti lavori e di abbondanti concimazioni, però hanno il difetto di non lasciar nessun posto alla produzione dei foraggi e di dar troppo predominio a quella dei grani.
Nella zona piana asciutta ed in tutti quei punti della prima, ove non si ha la possibilità d'aver acqua, le rotazioni agrarie sono brevissime, basate sulla coltivazione dei grani, e quasi del tutto prive di quella delle piante foraggere.

L'energia e gli strumenti

Conosciute le principali tecniche colturali, immediatamente si pose la definizione dell'energia disponibile e necessaria per la lavorazione dei campi, nelle sue due espressioni fondamentali, cioè quella animale e quella umana. Per la prima, dopo avere affermato una regola generale, secondo la quale si riteneva che fossero necessarie due coppie di buoi ogni 16 ettari di terreno sottoposto all'aratura, con pochi prati, si fece riferimento ad una iconografia agraria sul territorio di Vercelli del cav. Garbasse; in un podere irriguo che avesse la superficie di ettari 230 circa tenuto per 1/6 a prato, per metà a riso e per il resto a granturco, avena e frumento, si dovrebbero tenere 10 paia di buoi e 3 cavalli, nonché 35 vacche e 20 manzi come animali da prodotto.

Gli studi sugli animali dell'età preindustriale hanno evidenziato come questi fossero di taglia molto più piccola di quelli di età posteriore, come conseguenza della scarsità delle risorse alimentari a loro destinabili, delle cattive condizioni igieniche e  per le limitate conoscenze della genetica. La taglia degli animali da lavoro determinava la quantità di lavoro eseguibile e, in generale, di energia disponibile. Il problema venne in evidenza nel corso dell'inchiesta agraria. Nelle parti asciutte e piane dove l'aratro non ha da vincere la resistenza del terreno fangoso delle risaie, gli animali da lavoro sono di statura più piccola che non nella prima zona, e per lo più si tengono vaccherelle che servono a diversi scopi. Allora, per piccolo che sia il podere, si ha sempre un paio di questi animali, da cui si ritrae anche un po' di latte ed il vitello.
Nei campi del Vercellese non si potevano vedere molte di queste vaccherelle, così come buoi di piccola statura. Inoltre apparve con forza come l'estensione dei poderi condizionasse l'organizzazione, con riferimento soprattutto alle costruzioni per le abitazioni degli uomini e i ricoveri degli animali da lavoro. Si individuava nella grande estensione in appezzamenti contigui la causa della agglomerazione dei fabbricati, limitando le difficoltà conseguenti alle distanze. Ne derivava il seguente calcolo per quella che si può definire come l'energia espressa dagli uomini,  seguendo e indicazioni della monografia del Garbasso.

Nel Vercellese per il podere tipo si tiene il seguente numero di salariati:
3 prataioli, o capi d'uomini o campari da badile;
10 bifolchi per i buoi
2 famigli per le vacche
1 famiglio per i manzi
2 cavallari
1 casaro
1 falegname
2 o 3 ragazzi soprannumerari dai 15 ai 18 anni d'età
destinati ad aiutare i precedenti,
Senza contare i braccianti fissi che sono in numero variabile a seconda della volontà del conduttore. Occorrerebbe aggiungere al casaro un aiutante, per cui si avrebbe un totale di 25 a 27 famiglie tutto compreso, cioè un numero relativamente minore di quello del Novarese, ove però non si è tenuto conto del personale per la manipolazione del latte. Nei fondi dove la risaia ha uno straordinario predominio, come nel Vercellese, ove essa supera di gran lunga l'estensione del prato, il numero dei dipendenti risulta alquanto minore.

Ovviamente a questi occorre aggiungere gli avventizi, che non appaiono essere impiegati in modi e in settori molto diversi da quelli dei secoli precedenti. Spurgo dei canali, formazione delle risaie, movimenti di terra, mondatura del lino, del frumento e del riso, mietitura dei cereali, scalvo e potatura delle piante..., il pur lungo elenco non esaurisce tutte le possibilità di impiego per gli avventizi che venivano trovati in modo vario nelle singole aziende. In molte parti della provincia di Novara vi era una larga emigrazione periodica degli uomini, richiamati dal lavoro nelle «fabbriche», sia locali che straniere, tanto che toccava alle donne buona parte dei lavori agricoli. Il fenomeno era rilevante nelle parti collinose e nelle valli.

Nelle grandi aziende risicole vi era una procedura più complessa. Quando si devono eseguire lavori d'importanza come la mondatura ed il taglio dei risi, il coltivatore di fondi stipula un contratto col capo degli uomini il quale conduce sul fondo il numero necessario di persone. Questi poi si fa dare un soldo per giorno e per individuo dipendente da lui, e si fa molte volte rilasciare un tanto per la minestra a mezzodì, cercando di speculare anche da questa parte con svantaggio dell'alimentazione di tutta questa gente. Inoltre accade qualche volta di trovare persone di mala fede, che dopo essersi fatta rilasciare una caparra dai lavoranti, perché non se ne vadano a lavoro incominciato, essendo responsabili ed obbligati a farlo compiere in un dato tempo, fuggono col denaro raccolto o procurano di eludere gl'impegni assunti. I mietitori ed i trebbiatori del riso, e coloro che lo fanno essiccare sulle aie, giungono nei fondi a piccole frotte avendo a capo il più vecchio, e concludono col conduttore il patto di mietere e di riporre in magazzino tutto il raccolto mediante una data retribuzione in danaro e in natura, costituita quest'ultima da parte del riso greggio o lavorato, che si è raccolto.

Per i mondatori del riso, i mietitori, ecc., che si recano molto lontano dai loro luoghi di dimora si ha l'inconveniente che essi devono dormire alle volte sino per venti o trenta giorni consecutivi sulla paglia o sul fieno raccolto sotto le tettoie dei cascinali.
In sostanza, si nota chiaramente come alla fine degli anni Settanta dell'Ottocento le pratiche colturali e l'organizzazione del lavoro nelle grandi aziende agrarie del Vercellese non sia stato modificato significativamente dallo schema di fondo che si era venuto affermando fra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento. Del resto, la risaia si era diffusa nella seconda parte del Settecento dopo avere superato le resistenze dei secoli precedenti e aveva trovato un limite nella disponibilità dell'acqua. Questo aspetto, si può dire, è stato quello più seguito dopo la metà dell'Ottocento e l'inchiesta agraria ne prese atto riferendo l'insieme delle opere che, a partire dal grande canale Cavour, aveva garantito una maggiore quantità d'acqua. Si riteneva che il tutto non fosse ancora sufficiente e ci si affidava alla legge del 29 maggio 1873 sui consorzi irrigatori, ritenendo che avrebbe apportato effetti di espansione del sistema irrigatorio. Come per molti altri fenomeni dell'epoca gli organismi ministeriali avevano difficoltà a calcolare con esattezza l'estensione dei territori che potevano definirsi come irrigati e altrettanta difficoltà ritrovavano i tecnici per indicare l'estensione dei territori che avrebbero potuto ulteriormente essere irrigati. Il Ministero di agricoltura, nel 1882, calcolava che dei 393.418 ettari di superficie pianeggiante dell'intera provincia di Novara fossero irrigati 189.723 ettari, parimenti l'ing. Rocco Colli  nel 1876 stimava in 5.000 gli ettari di terra della provincia ancora irrigabili. Nel 1865 l'ing. Raffaele Parete li aveva valutati in 25.000 ettari.

I concimi conservavano ancora le caratteristiche antiche, con scarsità di quello animale e diffidenza per le innovazioni, che con tanta fatica erano state sperimentate da Camillo Cavour.

Una certa vivacità era riscontrabile negli attrezzi, dove gli aratri di nuova concezione, con i vomeri in grado scavare a maggiore profondità e rovesciare bene le zolle, si erano diffusi largamente. Incominciavano a vedersi le seminatrici, almeno nelle aziende di maggiore importanza, a differenza delle falciatrici e delle mietitrici, che apparivano in "piccolo numero", come gli spandi­fieno.

Incontrarono invece maggior favore le trebbiatrici. Nella massima parte dei poderi di pianura si trebbia già con macchine mosse dal vapore, od in qualche caso speciale da ruote idrauliche. Nelle aziende maggiori la macchina è del proprietario, altrove vi sono speculatori che girano le campagne con le loro macchine, e con una parte del personale necessario (generalmente un capo-macchinista, un fuochista e quattro uomini per immettere il frumento, i quali lavorano due alla volta, mentre gli altri due si riposano); essi trebbiano il grano mediante una quota dal 2 al 5 per cento sul prodotto, oppure lire 1,50 il Sacco.

Il termine di speculatore va in questo caso inteso in senso positivo, come generalmente era usato in questo periodo storico. Fra le cause che impedivano la diffusione di macchinari si citava la complessità di funzionamento e il loro peso, soprattutto per quelli che dovevano lavorare direttamente sui campi, che avrebbe richiesto, per il traino, un numero troppo elevato di animali, oltretutto di robusta costituzione. Le poche macchine esistenti si ritrovavano appunto ove esistevano molti animali di questo tipo, come appunto nelle risaie.
 


Fonti bibliografiche:
-  Giuseppe Bracco, Uomini, campi e risaie nell'agricoltura del Vercellese fra età moderna e contemporanea, Un. agricoltori di Vercelli e
   di Biella 2002
, pp. 89 sgg. 
 

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