Le forze sociali ed economiche propulsive nel
Piemonte sabaudo
Lo storico
Rosario Romeo nella sua opera " Cavour e il suo tempo ", fa
precedere all'esame delle attività dell'Associazione agraria una lunga
analisi sulle forze socio-economiche e politico-culturali che dominavano la
scena piemontese.
La funzione di agente
primario del processo risorgimentale resterà dunque affidata,
nello Stato sabaudo, a quella
borghesia imprenditoriale che era venuta facendosi strada
soprattutto nel mondo dell'agricoltura ma anche in quello del
commercio e dell'industria, e che, col suo dinamismo,
costringeva anche
gli elementi più attivi della nobiltà a svecchiarsi e ad assumere fisionomia
e caratteri legati all'impresa e non più solo alla rendita fondíaria.
Dalle file di questa borghesia deriva buona parte di quel nuovo
ceto di professionisti, impiegati pubblici, intellettuali, che costituiranno
il ceto politicamente attivo negli anni decisivi del Risorgimento italiano.
A questo proposito può valere l'esempio di un
Giovanni Lanza,
figlio di un negoziante di ferramenta, che all'esercizio della professione
medica univa la gestione di un podere di 33 ettari per la più parte a
vigneto, nella zona di Casale, venutogli dal patrimonio familiare. Egli fu
tra i primi a introdurre nel Monferrato aratri di ferro, seminatrici,
estirpatoi; studiò e scrisse di agricoltura; si occupò dell'educazione
agricola dei ragazzi poveri, mirando ad ottenere, scriveva, « il
miglioramento della nostra agricoltura col miglioramento morale ed
intellettuale
dei contadini »; « sin d'allora egli prese a frequentare, come frequentava
poi ancora negli ultimi anni della sua vita, tutti i mercati e le fiere
della sua città, ove, confuso colla folla degli agricoltori e dei
negozianti, si compiaceva di osservare, interrogare e discutere di cose
agricole » . Oppure
l'esempio di un
Lorenzo Valerio,
figlio di un possidente, direttore di una manifattura di seta tra le
maggiori del Piemonte ad Agliè, scrittore di problemi dell'industria e del
lavoro, giornalista e promotore instancabile di iniziative e di opere
sociali.
Anche in provincia « nelle persone colte ed in quelle che hanno una
qualche tintura di lettere la
lettura delle gazzette estere e del paese » era « divenuta un vero bisogno,
onde soddisfare al fomite della curiosità, ed essere giornalmente ístrutti
degli avvenimenti importantissimi da parecchi anni in qua occorsi nelle
varie regioni del globo »: sì
che in un centro con poco più di 12 mila abitanti come Saluzzo nel 1832 si
contavano 53 abbonati a giornali stranieri e 47 a giornali nazionali".
Di questa « classe civile », in contrapposizione alla rozzezza dei ceti
popolari, si lodavano « i cortesi e puliti costumi », lo zelo con cui
« ognuno dà opera con impegno alla cura dei propri affari » e « l'ottima
qualità delle loro abitudini ».
La presenza di questo ceto dà peso e spessore alle iniziative che in
quegli anni i più attivi esponenti del ceto intellettuale, della nobiltà
liberale, della borghesia delle professioni e dell'impresa moltiplicano nel
settore della pubblicistica, dell'educazione popolare, della beneficenza.
Nel suo insieme il movimento rispondeva alle vedute generali del
liberalismo moderato e
al programma che esso veniva elaborando,
in vista di un
graduale progresso sostenuto dall'opinione illuminata del paese,
capace di percorrere vie assai diverse dalle cospirazioni e insurrezioni del
passato.
Si insisteva
piuttosto sulla
collaborazione tra le classi, fra padroni e operai, fra nobili e borghesi.
« Convinti - scriveva il
Valerio
nelle sue " Letture di famiglia " -
che ognuno il quale
sinceramente ami la patria sua e la voglia grande e potente deve far sì che
tutte le classi della società si guardino come solidali, e si stringano in
un nobile sentimento di concordia e di fratellanza,.."
Lo sviluppo delle relazioni commerciali, il superamento delle vecchie forme
di autosufficienza economica, il miglioramento delle comunicazioni, la più
diffusa istruzione, avevano assai contribuito ad attenuare, in questi
decenni, la disparità e l'ignoranza reciproca: ma, come suole accadere,
l'accresciuta consistenza e autorità delle forze nuove rendeva
più acuta l'insofferenza del
privilegio ancora goduto dalle vecchie élites. Tensioni e
intolleranza finora sconosciute venivano delineandosi adesso nei rapporti
tra la borghesia e la nobiltà, finora detentrice esclusiva del privilegio
politico e sociale; e negli anni successivi tenderanno piuttosto ad
aggravarsi, nonostante gli sforzi ripetuti del moderatismo.
C'era del resto la necessità di
consolidare le basi della monarchia sabauda assicurandole consensi e
sostegni più larghi fra quegli strati sociali in ascesa: specialmente
nelle file della
borghesia agraria, importante per le caratteristiche dominanti della
struttura economica del paese, e per l'associazione che in essa si
realizzava dello spirito
innovatore dell'impresa agricola con i tratti conservatori della possidenza
terriera, garanzia contro ogni spinta troppo audace e sovvertitrice.
E queste preoccupazioni dei circoli vicini alla dinastia acquistavano
maggior peso nella misura in cui si incontravano adesso con la ripresa,
da parte liberale, dell'antico sforzo, interrotto dalle amare
delusioni del '21 e del '33, ma ora nuovamente avviato,
di conquistare Carlo Alberto
alla causa liberale e nazionale.
In questo quadro si colloca
l'iniziativa di un
gruppo, guidato dal marchese
Cesare Alfieri di
Sostegno,
e composto dapprima di esponenti del
moderatismo
liberale ma poi allargatosi anche a
uomini del
democratismo e radicalismo, per la
istituzione di
« un'Associazione che tutti in sé riunisca i diversi elementi del progresso
agricolo ». L'incontro
si realizzò fra tale iniziativa e la volontà della monarchia di stabilire
più efficaci contatti con le forze vive della società piemontese. Per i
liberali moderati poteva
essere una delle tante vie intraprese in quegli anni per assicurare il graduale progresso civile del paese,
che si riteneva potesse condurre
senza scosse anche a futuri miglioramenti politici; per i
democratici
la creazione di un centro di raccolta e di discussione che facesse da
punto di riferimento per le forze sinora disperse del liberalismo subalpino;
per la monarchia un
nuovo passo nella direzione in cui volgeva allora anche la sua
politica riformatrice.
Lo statuto, approvato dai
promotori in una adunanza preparatoria del 31 maggio 1842,
venne sottoposto
alla Direzione generale della polizia, che non mancò di suggerire una
serie di modifiche intese a meglio garantire il controllo delle attività
della Associazione. Il 25 agosto 1842 si giunse così
all'approvazione sovrana dello statuto della Associazione agraria
"Volta a promuovere il
progresso agricolo con premii, ricompense, diffusione di libri, con
permanenti esposizioni di modelli di attrezzi rurali e con alcune temporarie
esposizioni di prodotti agricoli ed orticoli » "',
L'Associazione si proponeva, quando ne avesse avuto i mezzi, di
aprire scuole di agricoltura
teorico-pratiche, con annessi poderi « dove anche si esercitasse
nella pratica un buon numero di giovani ».
In ciascuna provincia ove si raccogliessero
più di dodici membri era prevista l'istituzione di un
Comizio agrario,
la cui presidenza onoraria spettava all'intendente
della provincia, analogamente a quanto si prevedeva per i
congressi annuali della
Associazione che si svolgessero in quella località; mentre tutti i
regolamenti interni dovevano essere sottoposti alla preventiva approvazione
della segreteria dell'interno.
La creazione di un
ente associativo con larghi caratteri di pubblicità e su basi di
considerevole ampiezza appariva ed era cosa radicalmente nuova nella
struttura rigidamente autoritaria dello Stato e della società subalpina:
ed essa suscitò fin dall'inizio, anche nei più risoluti esponenti
liberali, qualche cauta speranza.
Assai presto si venne segnalando
come
inevitabile il passaggio dalle « questioni di agronomia... a quelle
d'economia sociale » che sarà, come vedremo,
il terreno dello scontro più
grave fra le due ali della Associazione.
Lorenzo Valerio,
iscrittosi nel febbraio 1843, esprimeva fin da allora vivo interesse per il
« grand développement » che essa veniva assumendo: « le
gouvernement se propose de l'aider puíssamment et on a porté en bilan 40
mille pour elle. Le
plan de cette nouvelle association, qui embrasse tout l'état, est vaste et
beau: pourvu que les hommes qui ont été librement élus en séance générale
sachent la guider! Nos
Piémontais sont si nouveaux dans ce chemin! ». E' da rilevare,
peraltro, che in queste fasi iniziali le
contrapposizioni
più tarde sono appena accennate, nella generale volontà di guardare
anzitutto agli obiettivi comuni a tutti coloro che aspiravano a mutare lo
stato di cose esistente. Lo stesso
Valerio, di
lì a qualche anno alla testa della frazione « democratica », è in frequenti
rapporti con uomini appartenenti a tutto lo schieramento liberale italiano,
da Capponi
a Lambruschini
Ridolfi e
Vieusseux,
da Enrico Mayer
a Giuseppe Ferrari,
dal Tommasco
all'Aporti; e in
Piemonte i suoi contatti comprendono i
Balbo e i
Petitti non
meno che i Cornero e i
Montezemolo,
per non parlare dell'ambiente
cavouriano, dai
De La Rue allo stesso
conte Cavour. Non
diversi da quelli preferiti dai moderati sono poi i metodi d'azione che egli
adotta, facendosi promotore di
asili, scuole, istituzioni di beneficenza e mutua comprensione e
avvicinamento tra le classi mentre respinge
nettamente il democratismo materialistico ostentato dal
Brofferio.
Una concreta prova dell'attesa,
negli strati politicamente più sensibili,
che le attività dell'Agraria andassero ben al di là, del settore
strettamente tecnico, si ha
nella presenza, fra i suoi associati, di una folta schiera di intellettuali
e professionisti, spesso privi, come subito si cominciò a rilevare, di ogni
specifico interesse o competenza nelle cose dell'agricoltura. Sui primi 1.634 iscritti (oltre a 91 città, comuni ed enti vari) si
contavano infatti 519 professionisti, 94 sacerdoti, 211 funzionari e
militari, 80 commercianti, industriali e banchieri; sì che pur contando
fra gli agricoltori in senso proprio tutte le persone senza qualifica
dichiarata, i proprietari e i nobili, si giunge a una somma di appena
730, pari al 45 per cento del totale; e la composizione rimane
sostanzialmente inalterata anche dopo le prime ammissioni di nuovi Soci. Fin
dall'origine, dunque, l'Associazione, anche a
giudizio di coloro che più
tenacemente si opposero alla sua politicizzazione, non fu solo
uno strumento di progresso agrario, ma anche «
un moyen efficace de progrès
donnait à toutes les individualités,
par l'arène qu'elle
ouvrait à toutes les intelligences désireuses
de percer, ou de s'employer,
par
le contact forcé qu'elle établissait entre les différentes classes de la
société".
Tuttavia,
sino al marzo 1845 le sue attività proseguirono su una base di
sufficiente accordo tra i vari gruppi, nonostante che non mancassero
polemiche e dissensi particolari.
Il 6 aprile 1843 aveva inizio la pubblicazione della
« Gazzetta dell'Associazione
agraria », in duplice redazione, italiana e francese;
mentre si andava organizzando la rete dei Comizi.
Presto venne in primo piano il problema di una precisa definizione dei
compiti e della fisionomia dell'Associazione, che la differenziasse
nettamente dalla preesistente
Società di agricoltura, nata nel 1795, la quale a questo
fine chiese e ottenne nello stesso 1843 di mutare la propria
denominazione in quella di
Accademia di
Agricoltura.
L'Associazione, sosteneva una lettera aperta apparsa sulla «
Gazzetta » nel giugno 1843, «
non debba essere una Società di dotti », né « deve
tendere a divenirlo »; « le sarebbe anzi nocivo l'averne sembianza, sia
perché la missione speciale che s'è imposta è quella dei pratici, sia
perché ella ha bisogno di chiedere il concorso e stabilire la sua influenza
nelle campagne, ov'ella deve
promuovere la propagazione pratico-agraria, e non già agrario-scientifica »
E su questa via si avviò, in sostanza, l'associazione, assegnando premi e
medaglie, organizzando concorsi e dimostrazioni pratiche al fine
di promuovere una più vasta
applicazione e un migliore uso delle concimazioni più efficaci e delle
migliori rotazioni agricole, della chimica agraria, della fitopatologia, nei
più vari settori, dalla silvicoltura alla enologia, alla produzione dei
foraggi, alle risaie, al caseificio, alle bonifiche e alle macchine
agricole, fino a problemi come quelli relativi al credito agrario, alla
statistica,alle assicurazioni, alle ferrovie, al rapporto fra progresso
agricolo e industriale, alla politica commerciale.
Ma anche sotto questo piano non mancarono scontri e contrasti vivaci,
che sotto la veste tecnica nascondevano più vaste e radicali
differenziazioni di ordine politico. E di uno fra i più aspri di essi fu
protagonista lo stesso Cavour.
I contrasti tra Cavour e
l'Associazione
Il conte era stato tra i firmatari del
documento uscito dalla riunione del 31 maggio 1842, in cui si era
concretata l'iniziativa per la creazione della Società. Era stato
inoltre nominato consigliere residente dell'Associazione e più tardi
membro del comitato di statistica, nonostante una lunga assenza da
Torino per viaggi all'estero durata quasi un anno, dal giugno del 1842 al
giugno del 1843. Tornato
poi a Torino, deciso, come meglio vedremo, a dividere la sua
attività fra la cura degli affari e l'opera di pubblicista, la sua
collaborazione con la vita della società assunse subito il ritmo e
l'incisività che egli portava in tutte le sue forme di impegno, ma questo
non senza confronti e scontri anche aspri. Così, fin dal 30 agosto 1843
la «Gazzetta » dell'Associazione agraria recava un suo articolo in cui,
partendo dal giudizio che in parte già conosciamo sulle condizioni generali
dell'agricoltura piemontese , egli svolgeva una serrata polemica
contro la proposta, ventilata fin dalla fondazione della società, di
procedere all'istituzione di poderi modello. L'efficacia di tali
istituzioni, a suo avviso, poteva avere una
reale incidenza sugli agricoltori
pratici solo quando i metodi che vi si dimostravano avessero una
netta ed evidente superiorità in confronto a quelli già in uso da parte dei
buoni agricoltori: ma questo era da escludere in Piemonte, dove
l'esperienza, se pur non sostenuta da una adeguata sistemazione teorica,
aveva già consentito di realizzare un sistema
agrario assai perfezionato e adatto alle particolari condizioni del paese,
che sarebbe stato errore gravissimo cercar di sostituire adottando le
pratiche teorizzate dalla scienza agronomica più in voga, quasi tutta
fondata su esperienze e situazioni proprie dell'Europa settentrionale.
Nello stato di cose esistente, solo « individuali miglioramenti di
dettaglio » erano possibili. Dichiarava Cavour, « io m'opporrò con
tutte le mie forze allo stabilimento di un podere-modello, siccome ad una
creazione più nocevole che vantaggiosa all'interesse reale dell'agricoltura
piemontese ». Tra gli argomenti più validi egli citava il fallimento
economico del tentativo di istituire un podere modello nel Bolognese
sotto la direzione del barone
Victor Crud, che, nonostante la valentia del celebre agronomo,
traduttore di
Thaér, non aveva dato al proprietario alcun reddito durante ventidue
anni di gestione. C'era indubbiamente
un limite di sostanziale
conservatorismo agricolo in queste posizioni del conte, che
tuttavia si identificava con
la sua avversione e la sua
insofferenza del progressismo verbale, in agricoltura e in politica, di
tanti intellettuali, destituiti di ogni legame con quell'empírismo concreto
e fattivo al quale egli dava importanza sempre maggiore.
Ciò avvertirono i
destinatari della polemica, esponenti di quell'ala progressista e talora
democratizzante dell'Agraria che aveva già una notevole consistenza,
anche se finora non aveva osato scoprirsi sul piano politico.
La reazione di costoro fu dunque vivacissima. Qualche settimana
dopo la « Gazzetta » pubblicava un'ampia replica di
Napoléon Donnet
che, pur ammettendo i
progressi dell'agricoltura padana, ricordava tuttavia l'arretratezza
di varie zone,
e i molti miglioramenti possibili in fatto di lavorazione dei vini, di
strumenti ed edifici rurali, di pratiche seguite nell'allevamento e nella
silvicultura. Dichiarava che nessuno aveva mai « preteso doversi
tenere palmo a palmo alle pratiche del settentrione », ma che tuttavia la
« cultura del nord » poteva
offrire molti esempi di metodi più razionali, anche se lo scopo non era
certo di imporre un unico tipo di avvicendamento; e
attribuiva al
Cavour la tesi che « nulla nel sistema attuale richiegga
cangiamento o miglioramento ». Poche settimane dopo, altro
intervento polemico di Felice Duboin,
convinto che « la maggior
parte delle nostre terre sono lungi dal dare il prodotto di cui sono
suscettibili »; e ancora a sostegno dei poderi modello
scriveva poi il conte
Carlo Veggi.
A tutti replicava
Cavour ai primi dell'anno
successivo, ribattendo puntualmente le argomentazioni avversarie,
respingendo l'accusa di conservatorismo,
sottolineando i
vantaggi della sperimentazione condotta da privati, obbligati a tener
conto di quelle considerazioni di economicità che invece sfuggivano a
costosi e inefficienti istituti pubblici come quello auspicato, e
sottolineando che non nelle scuole poteva acquistarsi « quella perizia nella
pratica delle faccende rurali, che è la prima condizione di successo in
un'impresa agricola » ma piuttosto attraverso l'iniziativa di privati
volenterosi, eventualmente incoraggiati dal governo o dall'Assocíazione.
L'oríentamento
prevalente nella Società agraria era decisamente avverso alle tesi
cavouriane. Ci si avviò dunque sulla strada che condusse
all'affitto della tenuta demaniale della Veneria, da destinare a
podere modello, e alla fondazione dell'annesso istituto
agrario-forestale, approvata con brevetto 19 agosto 1846, e anch'essa
vanamente combattuta dal Cavour. Al quale, tuttavia, le vicende successive
sembrano aver dato ampiamente ragione, poiché la situazione finanziaria
dell'istituto e del podere divenne rapidamente insostenibile, così da
indurre nel 1848 l'Associazione a cedere il terreno al
marchese di Sambuy.
Da parte sua il conte non dimenticò quella vicenda neppure dopo la sua
ascesa al potere; e nel 1853 fece
sopprimere l'istituto della Veneria, sostituendovi, secondo le vedute che
aveva sempre sostenuto, alcuni insegnamenti di discipline ausiliarie
dell'agricoltura.
La polemica ebbe peraltro riflessi
collaterali che restarono in buona parte coperti dal segreto, e che sono
tuttavia assai indicativi della pesante ipoteca che il patrocinio
governativo gettava sulla vita dell'Associazione. In effetti,
Cavour
aveva trovato un energico sostenitore nel direttore della pubblicazione
« Repertorio d'agricoltura »,
Rocco Ragazzoni, che già
qualche anno prima aveva ospitato un precedente scritto del conte sul
caratteri dell'agricoltura piemontese. Il « Repertorio »
aveva dato conto di tutte le principali battute della polemica, prendendo
apertamente partito per le tesi cavouriane, e non risparmiando ironie
nei confronti dei suoi contradditori. Un costante tono sarcastico ed offensivo da parte del
Ragazzoni caratterizza i suoi giudizi sui resoconti della « Gazzetta »
l'organo ufficiale dell'Associazione, che veniva bersagliato di critiche,
giudicato di livello impari agli sforzi e alle aspettative della direzione
della Società, formicolante di « errori di scienza, di lingua e di
tipografia »; se ne
sottolineava lo scarso prestigio all'estero, dovuto, si asseriva,
essenzialmente all'editore Burdin,
che era fatto oggetto di una sistematica serie di critiche e di ironie in
quasi ogni numero del « Repertorio ».
Era troppo, nel Piemonte carloalbertino,
per una iniziativa, come quella
della Società, che il governo aveva
posto apertamente sotto il proprio patrocinio. Il 24 agosto 1844
il marchese della
Marmora, regio commissario presso l'Associazione,
denunciava il caso
al ministero dell'interno, chiedendo che si dessero « le
opportune disposizioni onde la critica rimanga per lo meno nei limiti della
moderazione » . E in effetti, dopo aver considerato la convocazione
del Ragazzoni davanti al temutissimo
colonnello Lazzari,
ispettore generale di polizia, il ministero dell'interno incaricò
l'intendente generale ,di Torino di « chiamare a sé il predetto sig.
Professore, per severamente redarguirlo dello sconcio modo con cui si è
permesso criticare, o deridere nel suo giornale gli atti ed i membri »
dell'Agraria, « ed
ammonirlo ad un tempo a regolarsi meglio in avvenire col non eccedere nelle
sue censure quei limiti che le leggi dell'onestà e dell'urbanità impongono
ad ogni scrittore »;
minacciandolo, nel
caso che insistesse, del ritiro della licenza.
L'ammonimento non poteva mancare di produrre il suo effetto: le
annotazioni del Ragazzoni mutarono bruscamente tono, e alla fine dell'anno,
pur senza smentire le critiche precedenti, egli si diceva lieto di
constatarne i buoni risultati, comprovati dal miglioramento della « Gazzetta
».
Il
significato politico di una così estesa associazione veniva intanto
facendosi più evidente, e con esso
veniva lentamente
modificandosi anche la sua composizione sociale,
con l' immissione di molti professionisti e borghesi, man mano
che aumentava il numero dei soci, i quali raggiungevano i 2.700 alla fine
del 1844, alla vigilia, cioè, dei
primi aperti contrasti fra l'ala moderata e quella democratica.
Già nel settembre 1843, in occasione del V
congresso degli scienziati italiani a Lucca, il
Maestri e
il Ridolfi
auspicavano che l'Agraria Piemontese potesse un giorno «
divenire il nucleo di
un'associazione agraria italiana » e quando, durante il
congresso dell'Associazione a Pinerolo, nell'agosto 1844, il
conte di Salmour
propose che ai soci « pratici »
dell'agricoltura si consentisse di parlare in dialetto, la maggioranza si
oppose « all'abbandono della lingua italiana, patrimonio e vincolo di tutti
gli abitanti d'Italia »; e deliberò anzi « doversene con
ogni sforzo, anche dall'Associazione agraria, a cui sono ammessi gl'ltaliani
tutti senza distinzione di sorta, mantenere ed estendere l'uso ».
Quella della lingua era allora
una tematica assai viva sui periodici di orientamento liberale, impegnati
nello sforzo di sostituire la lingua nazionale al francese, ancora
largamente usato in Piemonte, specie nei ceti più elevati. Su
questi temi di carattere nazionale si poteva registrare probabilmente
un largo consenso in tutta l'associazione, anche se erano assai
diversi il grado di impegno e i tempi di azione previsti dai vari settori di
opinione.
Ma fu essenzialmente
sul terreno della
condotta interna degli affari, e dunque sulla maggiore o minore
democraticità della gestione, che si ebbe il primo grave scontro, a carattere
non più tecnico ma quasi scopertamente politico; ed esso fu
accentuato dalla coincidenza con la crisi determinata dalle dimissioni del
marchese Cesare Alfieri
dalla presidenza dopo la sua assunzione al Magistrato della Riforma, nel
gennaio 1845. Fin dall'estate 1843 il
marchese Massimo
di Montezemolo e il conte
Giambattista Michelini avevano sostenuto, sulle « Letture
di famiglia », che
l'approvazione del regolamento dell'Agraria doveva avvenire con la più larga
partecipazione dei soci, e non dei soli componenti la direzione.
Decisivo, per il successo dell'Associazione, appariva al
Montezemolo
il « concorso morale » di tutti i soci; e per ottenerlo
« è d'uopo che tutti i membri dell'Associazione
partecipino ugualmente allo studio ed alla controversia delle questioni
agronomiche, che in ciascun d'essi nasca la fiducia nei mezzi impiegati
dalla società; e che la nuova istituzione desti in tutti amore e
sollecitudine con dare ad ogni socio un valor personale e una parte attiva a
rappresentare, chiamandolo a concorrere al ben pubblico coll'opera e col
pensiero ». La discussione, ripresa e allargata qualche mese dopo
da Napoléon Donnet , si sviluppò via via nel senso della proposta di una duplice
modifica dello statuto, tendente ad
assicurare ai
Comizi provinciali una più larga partecipazione alle quote di associazione
e una maggiore
rappresentanza nella direzione: da essa si faceva anche
dipendere la possibilità di assicurare una più sollecita riscossione dei
contributi e un più vivace interesse per la « Gazzetta », che denunciava
una certa stanchezza.
La concessione ai Comizi di una
più adeguata rappresentanza pareva equa ed accettabile anche a uomini di
parte decisamente moderata come il
Salmour e lo stesso
regio commissario
La Marmora trovò una
risoluta opposizione nel
Cavour, che in un articolo della « Gazzetta » "'
cercò di mostrarne
l'infondatezza, mentre ribadiva l'inopportunità di una diversa ripartizione
delle quote sociali. A rischio di attirarsi l'accusa di fautore
dell'accentramento, egli sottolineava i vantaggi che la struttura
esistente della società aveva mostrato, lodando la funzione
unificatrice dei congressi, giustificava i difetti iniziali del
periodico, sosteneva che i mezzi non mancavano ai comizi, e che in ogni modo
essi traevano vantaggio da molte delle iniziative promosse dagli organi
centrali. Al
Cavour
replicò il Montezemolo, accusandolo di farsi
rappresentante e difensore del "principio d'immobilità, di
resistenza ad ogni impulso che possa spingere le instituzioni oltre la sfera
che ne circoscrisse gl'incunaboli, che mira a perpetuarne la vita e l'azione
con difenderle da ogni contatto e mescolanza con elementi nuovi »; e insomma
di essere un esponente dello « spirito di conservazione".
La proposta di una maggiore rappresentanza dei Comizi, che consentisse a
ciascuna provincia di avere un suo rappresentante, venne poi approvata a
maggioranza, su concorde iniziativa del
Montezemolo
e del Valerio. Le
tesi cavouriane avevano dunque subito un mezzo insuccesso.
Altri contrasti con lo schieramento democratico all'interno della Società
si verificarono in occasione della nomina del successore di
Cesare Alfieri. Mentre
Cavour difendeva la lunga durata triennale dell'incarico del
conte di Salmour,
studioso del credito agrario e di altri problemi di economia rurale, altri
membri della Società ( tra cui
Lorenzo Valerio, che aveva avanzato la candidatura del marchese
Emilio di Sambuy
) volevano ridotto tale incarico a soli dieci mesi. Fu in quel
periodo ( 1845 ) che Cavour cominciò ad emergere come
guida politica del movimento
liberale. La sua autorevolezza di uomo politico gli procurò da un
lato una posizione di crescente prestigio nell'Associazione, avviata a
comprendere la parte più influente dell'ambiente liberale italiano, ma
d'altro canto gli causò rivalità ed avversioni non piccole tra i
democratici.
Gli undici mesi della presidenza
Salmour,
fino alle nuove elezioni, furono caratterizzati da una
sempre più netta contrapposizione
tra i due partiti. Lo scopo del partito cavouriano che Salmour
chiama «
agricole », per contrapporlo all'opposizione del «
parti politíque
» ( dei Valerio,
Sineo, Montezemolo ), era « d'amener par le progrès agricole de
meílleures conditions politiques »; la sua differenza dalla parte
democratica era solo ispirata dalla «
crainte de compromettre à tout
jamais le
même but politique », qualora avesse secondato «
l'imprudente ímpatience
» dello schieramento valeriano. In effetti le ramificazioni e
l'organizzazione della corrente democratica, più nettamente politicizzata,
venivano gradualmente rafforzandosi con il lento innalzarsi della
temperatura politica, in Piemonte e fuori del Piemonte. E tuttavia, sino
alla vigilia della nuova adunanza generale non sembra che si fosse previsto
da nessuna delle due parti uno scontro vero e proprio.
Nel
1846 la nomina del
Salmour a
presidente avvenne con appena un voto di differenza e l'opposizione
comunque annotò il successo dell'elezione a vicepresidente del
proprio candidato il conte
Filiberto Avogadro
di Collobiano, ed a segretario il
Valerio,
escludendo il
Cavour.
La situazione si aggravò nelle settimane successive, specie dopo una
seduta della direzione il 5 marzo, nella quale i
neoeletti del gruppo Valerio
fecero adottare una serie di misure relative alla composizione dei comitati
e delle commissioni che miravano ad accrescere, attraverso questi organi, il
loro controllo sulle future assemblee generali. Fu allora che il
marchese di Cavour,
padre di Camillo, il 9 marzo, denunciò al re l'Associazione come un
centro di sovversione politica, ricevendo l'ordine di preparare una
modificazione dello statuto della
società atta a "couper court à toutes tendances ou manifestations
politiques".
E' difficile dire se l'iniziativa della denuncia
sia partita da Cavour, che sino a qualche giorno prima si preoccupava solo
di rafforzare la presidenza del Salmour o se sia stata invece un'iniziativa
del padre. Certo
Cavour venne informato della cosa e non risulta che vi abbia in alcun modo
reagito. Egli si impegnò anzi a mantenere il segreto che il padre gli
aveva imposto.
Dopo l'ammonizione del Valerio, del Buniva e del Sineo da parte delle
autorità sabaude,
il sovrano avocò a sé la nomina di presidente e del vicepresidente
dell'Associazione e sottopose a previa autorizzazione tutte le adunanze ed i
temi di discussione. Il nuovo presidente risultò il
conte Filiberto
Avogadro di Collobiano.
Con questa decisione il sovrano
Carlo Alberto
intendeva ufficialmente riconfermare ed anzi rafforzare l'appoggio già
concesso in passato alla Società. In realtà non poteva sfuggire l'avocazione
del controllo dell'intero organismo sotto le mani del governo, tanto che il
Valerio,
rammaricandosi del clima di tensione che si era creato e della ormai scarsa
autonomia decisionale della Società, scriveva nel marzo del 1846 a Domenico Carutti:
" Fui tribolatissimo a cagione dell'Associazione Agraria, per cui ebbi minacce di carcere....
Ora l'Associazione fu calunniata
presso il re, e malgrado che in essa non sia stata commessa veruna
illegalità anche minima, fu ora colpita in modo che io dubito assai che
possa ancora fare il bene a cui era ed è chiamata... La direzione fu presentata al re
siccome una mano di giacobini, l'adunanza generale poco meno della
Convenzione nazionale... quante forze, delazioni ed intrighi si sono messe in
opera dai Salmour, dai Cavour e dai Pozzi. Dapprima fu sospeso ed ora mutato
interamente lo statuto, cosicché ( l'Associazione ) rimane quasi un
dicastero del Ministero dell'Interno"
La fazione del
Valerio
non aveva perso il controllo dell'Associazione - anche grazie alla
difesa che portò avanti presso il sovrano
Cesare Alfieri
- mentre il gruppo
di Cavour
continuava a perdere influenza, così che lo stesso conte nella successiva
adunanza del febbraio 1847 non compare neppure tra gli intervenuti,
rimanendo anche escluso da tutte le cariche sociali. Infine in una riunione
politica tenutasi negli ultimi mesi del 1847 tutti i soci lasciarono la sala
quando egli chiese la parola e il solo Michelangelo Castelli restò a
stringergli la mano.
Lo scontro si era dunque chiuso con un netto
successo del Valerio, che ne derivò grande influenza in seno
all'Associazione, incrementando ulteriormente il numero dei soci fino alle
3.371 unità del 1848.
Tra i cosiddetti
democratici si facevano strada accenti e
atteggiamenti di tipo popolareggiante,
con una sensibilità più viva per i
problemi dei ceti popolari, rispetto a quelli degli ambienti moderati più
vicini al Cavour. Sensibilità che ispirò nell'inverno 1844-45
la nascita di una società di
pubblici scaldatoi o di
soccorsi invernali, che
mise in funzione sei locali in cui venivano ospitati fino a 3000 poveri al
giorno, ai quali si distribuivano cibo e aiuti, si tenevano letture e si
consentiva di continuare il proprio lavoro. Fu questa una delle iniziative
che maggiormente mostrarono il contatto tra movimento liberale e ceti
popolari nel Piemonte prerisorgimentale. Tuttavia il governo vietò
l'esperimento l'anno successivo. Al congresso di Casale si aprì una
discussione sul tema dei furti di
legna nelle campagne, che sconfinò poi in una discussione
sulle condizioni generali dei contadini nell'agricoltura piemontese. In
quell'occasione non pochi aristocratici ( come il
conte Casanova,
proprietario nel Vercellese, ed il
marchese Balbi Piovera ) difesero la tesi secondo cui il
furto di legna diviene quasi una necessità in condizione di estrema
indigenza. Il dibattito ampliato fino a toccare il livello dei
salari e la disoccupazione rurale
non mancò di
accenti radicaleggianti.
Cavour, pur
non rifiutando un aperto confronto ed una convivenza con questo democratismo,
non si adattò mai
all'accettazione della supremazia delle sinistre, come invece fecero
i moderati, rimasti in minoranza nell'Agraria dopo il 1846. In realtà il
parti libéral exagéré che
Cavour
aveva combattuto non aveva affatto un carattere rivoluzionario e anzi
rappresentava abbastanza fedelmente le aspirazioni politiche di molti ceti
borghesi e intellettuali, contrari alle discriminazioni dei nobili ma certo
contrari a radicali sconvolgimenti sociali. L'appoggio rinnovato all'Agraria
da parte di Carlo Alberto,
che decise di conservare buoni rapporti con forze sociali dotate di
influenza crescente nel paese e legate ad aspirazioni nazionali, mette in
rilievo forse l'errore allora
commesso da Cavour nel lasciarsi identificare con una frazione minoritaria e
socialmente esposta del liberalismo, troppo vicina alle posizioni della
nobiltà terriera; lasciando trapelare altresì giudizi
decisamente impopolari, come quello che definiva i
democratici coloro che
" più odiano i nobili, di ciò che
essi amino il popolo".
Anche uomini come
Ilarione Petitti, non
solo politicamente ma anche personalmente vicini al
Cavour, definivano il
gruppo da lui condotto come quello di «
alcuni giovani prepotenti ed
alteri » ; e l'insistenza sulla parte che nello scontro
ebbero l' indole alquanto irascibile e il temperamento
imperioso del conte ritorna con vari accenti in tutte le
testimonianze di quei fatti. Senza che a moderare quei tratti fosse ancora
intervenuto l'autocontrollo derivante dall'esperienza e dalla pratica degli
affari politici. Si aggiunga l'errore tattico e politico ancora più
grave di avere fatto ricorso o di aver consentito che il padre facesse
ricorso all'intervento impopolarissimo della polizia, senza riuscire
a conservare il segreto o quanto meno a distinguere nettamente le proprie
responsabilità. Anche qui è facile scorgere le radici di un gesto del
genere nella tendenza quasi
irresistibile dell'uomo a imporre sempre e in ogni circostanza la propria
volontà, nella scarsa stima ch'egli faceva degli avversari, nella
spregiudicatezza innata e accresciuta proprio in quegli anni della sua
esperienza di uomo d'affari. Ma il risultato, togliendo credito
e prestigio al Cavour presso buona parte dello schieramento liberale, sarà
di ridurne grandemente le
possibilità di azione e l'influenza politica in questi anni decisivi che
vanno dal 1846 alla vigilia del 1848-49, con riflessi che non
saranno del tutto spenti neanche durante le vicende di quel biennio: e
ciononostante che le opinioni del conte rimanessero, come egli ripeteva con
giustificata convinzione e sicurezza, " qual furono sempre liberali e
progressive"
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