La ginestra o fiore del deserto ( 1836 )


Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro - La processione per l'eruzione del Vesuvio del 1631.


E' l' opera in cui si rivela l'eroismo ed il titanismo leopardiano, pronto ad offrirsi alla morte senza supplicare aiuto e senza cercare conforto nella provvidenza divina o nell'ottimismo della ragione scientifica. Gli aspetti principali della composizione sono:
il paesaggio deserto del Vesuvio, la ginestra, fiore delicato e fragile che, col suo profumo, sembra offrire consolazione a paesaggi aspri e desolati, pronta a chinare il suo stelo, senza viltà alla Natura onnipotente.

La furia cieca ed inesorabile del Vesuvio richiama per contrasto la stupida superbia degli uomini, che, timorosi di prendere atto della loro vera condizione, abbandonano le certezze razionali per affidarsi alle illusioni religiose.
La natura crudele e violenta sembra suggerire invece come unico rimedio la fratellanza degli uomini che, essendo tutti ugualmente sottoposti alla sua onnipotenza, dovrebbero unirsi contro di essa
La ginestra con il suo umile piegarsi alla furia della lava incombente è maestra di dignità per il genere umano.
 

TESTO

CONTENUTI

NUCLEI CONCETTUALI

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.

Giovanni, III, 19

Qui su l'arida schiena

Del formidabil monte

Sterminator Vesevo,

La qual null'altro allegra arbor né fiore,

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,

Contenta dei deserti. Anco ti vidi

De' tuoi steli abbellir l'erme contrade

Che cingon la cittade

La qual fu donna de' mortali un tempo,

E del perduto impero

Par che col grave e taciturno aspetto

Faccian fede e ricordo al passeggero.

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

Lochi e dal mondo abbandonati amante,

E d'afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

Di ceneri infeconde, e ricoperti

Dell'impietrata lava,

Che sotto i passi al peregrin risona;

Dove s'annida e si contorce al sole

La serpe, e dove al noto

Cavernoso covil torna il coniglio;

Fur liete ville e colti,

E biondeggiàr di spiche, e risonaro

Di muggito d'armenti;

Fur giardini e palagi,

Agli ozi de' potenti

Gradito ospizio; e fur città famose

Che coi torrenti suoi l'altero monte

Dall'ignea bocca fulminando oppresse

Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

Una ruina involve,

Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

I danni altrui commiserando, al cielo

Di dolcissimo odor mandi un profumo,

Che il deserto consola.

La ginestra sorge sul pendio spoglio e sterile del Vesuvio .
Essa abbelliva un tempo le solitarie campagne della città di Roma, ed è tuttora muta testimonianza di antiche glorie ormai scomparse.

Un tempo Stabia, Ercolano e Pompei sorgevano sulle falde del monte, che devastò con i suoi fiumi di lava campi e città. La rovina avvolge ora quei luoghi, ma la ginestra con il suo profumo sembra compiangere le disgrazie umane.

La ginestra è fiore simbolo della condizione umana per la sua fragilità. E' fiore che si accompagna alle grandezze abbattute....

il suo dolcissimo profumo
consola luoghi deserti ed abbandonati dall'uomo, colpito dalla violenza della Natura

( vv. 1 - 37 )

 

A queste piagge

Venga colui che d'esaltar con lode

Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

È il gener nostro in cura

All'amante natura. E la possanza

Qui con giusta misura

Anco estimar potrà dell'uman seme,

Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

Con lieve moto in un momento annulla

In parte, e può con moti

Poco men lievi ancor subitamente

Annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

Son dell'umana gente

Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,

Secol superbo e sciocco,

Che il calle insino allora

Dal risorto pensier segnato innanti

Abbandonasti, e volti addietro i passi,

Del ritornar ti vanti,

E procedere il chiami.

Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,

Di cui lor sorte rea padre ti fece,

Vanno adulando, ancora

Ch'a ludibrio talora

T'abbian fra sé. Non io

Con tal vergogna scenderò sotterra;

Ma il disprezzo piuttosto che si serra

Di te nel petto mio,

Mostrato avrò quanto si possa aperto:

Ben ch'io sappia che obblio

Preme chi troppo all'età propria increbbe.

Di questo mal, che teco

Mi fia comune, assai finor mi rido.

Libertà vai sognando, e servo a un tempo

Vuoi di novo il pensiero,

Sol per cui risorgemmo

Della barbarie in parte, e per cui solo

Si cresce in civiltà, che sola in meglio

Guida i pubblici fati.

Così ti spiacque il vero

Dell'aspra sorte e del depresso loco

Che natura ci diè. Per questo il tergo

Vigliaccamente rivolgesti al lume

Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli

Vil chi lui segue, e solo

Magnanimo colui

Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

 

Le" magnifiche sorti e progressive" esaltate dall'800, il secol superbo e sciocco, vengono facilmente ridicolizzate dalla Natura onnipotente che distrugge con grande facilità ogni opera umana.

Il poeta non potrà mai condividere lo stupido ottimismo della sua età.
Il pensiero ottocentesco ha dimenticato il razionalismo illuministico per inseguire le illusioni
dello spiritualismo cattolico, che promette una falsa sicurezza attraverso la fede nella provvidenzialità divina.
Il secolo superbo e sciocco si vanta del suo" regredire" verso forme di illusoria provvidenzialità mentre rifugge dalla verità della ragione.

Solo la RAGIONE invece guida l'uomo verso il progresso ed una valida convivenza civile.

 


 



Animo magnanimo chi riconosce
la miseria umana e la sopporta
con dignità.

Solidarietà, non odio.

La natura matrigna è la sola nemica
dell'uomo. Verità, onestà, socialità.

Giustizia e pietà degli uomini.(vv.37-157)

Antiromanticismo dottrinale.
Difesa dell'Illuminismo sensista e del razionalismo, che ha liberato l'uomo dalla superstizione medioevale e dallo spiritualismo.


Uom di povero stato e membra inferme

Che sia dell'alma generoso ed alto,

Non chiama sé né stima

Ricco d'or né gagliardo,

E di splendida vita o di valente

Persona infra la gente

Non fa risibil mostra;

Ma sé di forza e di tesor mendico

Lascia parer senza vergogna, e noma

Parlando, apertamente, e di sue cose

Fa stima al vero uguale.

Magnanimo animale

Non credo io già, ma stolto,

Quel che nato a perir, nutrito in pene,

Dice, a goder son fatto,

E di fetido orgoglio

Empie le carte, eccelsi fati e nove

Felicità, quali il ciel tutto ignora,

Non pur quest'orbe, promettendo in terra

A popoli che un'onda

Di mar commosso, un fiato

D'aura maligna, un sotterraneo crollo

Distrugge sì, che avanza

A gran pena di lor la rimembranza.

 

Nobil natura è quella

Che a sollevar s'ardisce

Gli occhi mortali incontra

Al comun fato, e che con franca lingua,

Nulla al ver detraendo,

Confessa il mal che ci fu dato in sorte,

E il basso stato e frale;

Quella che grande e forte

Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire

Fraterne, ancor più gravi

D'ogni altro danno, accresce

Alle miserie sue, l'uomo incolpando

Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

Che veramente è rea, che de' mortali

Madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

Congiunta esser pensando,

Siccome è il vero, ed ordinata in pria

L'umana compagnia,

Tutti fra sé confederati estima

Gli uomini, e tutti abbraccia

Con vero amor, porgendo

Valida e pronta ed aspettando aita

Negli alterni perigli e nelle angosce

Della guerra comune. Ed alle offese

Dell'uomo armar la destra, e laccio porre

Al vicino ed inciampo,

Stolto crede così qual fora in campo

Cinto d'oste contraria, in sul più vivo

Incalzar degli assalti,

Gl'inimici obbliando, acerbe gare

Imprender con gli amici,

E sparger fuga e fulminar col brando

Infra i propri guerrieri.

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell'orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade, altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel ch'ha in error la sede.


L'uomo non deve far mostra ridicolmente della propria ricchezza e vigoria fisica, ma  deve con coraggio  cogliere la fragilità della sua condizione.

E' stolto credere di essere nati per godere. La condizione  umana è legata al dolore e la natura è la sola colpevole di tale sorte. L'uomo deve stringersi in un nuovo patto sociale con i suoi simili.

Animo magnanimo e nobile è quello che riconosce la miseria umana e sopporta con dignità la condizione di debolezza in cui l'uomo e tutte le creature sono inserite, pur ERGENDOSI
CORAGGIOSAMENTE A RIVENDICARE TUTTA LA DIGNITA' DEL SUO ESSERE.

SOLIDARIETA' e non ostilità deve esserci tra gli uomini, impegnati nella guerra comune contro la Natura matrigna, che è la sola nemica dell'umanità.

Onestà, rettitudine, verità saranno rispettate solo in una società
che si regga sulla RAGIONE, lontana da false illusioni..
 


TITANISMO e valore della
SOLIDARIETA' tra gli  uomini.

Dall'aperta confessione di debolezza l'uomo acquista paradossalmente una sua alta dignità, che lo spinge a riconoscere nei suoi simili gli unici possibili alleati contro il comune nemico, la natura, che causa il destino di dolore a noi riservato.

E' eroico ( titanico ) questo ergersi contro l'onnipotenza della Natura.
 

Si profila dunque una morale laica basata sulla solidarietà reciproca.


Sovente in queste rive,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

Seggo la notte; e su la mesta landa

In purissimo azzurro

Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,

Cui di lontan fa specchio

Il mare, e tutto di scintille in giro

Per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

Ch'a lor sembrano un punto,

E sono immense, in guisa

Che un punto a petto a lor son terra e mare

Veracemente; a cui

L'uomo non pur, ma questo

Globo ove l'uomo è nulla,

Sconosciuto è del tutto; e quando miro

Quegli ancor più senz'alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle,

Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo

E non la terra sol, ma tutte in uno,

Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio

Che sembri allora, o prole

Dell'uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

Per tua cagion, dell'universe cose

Scender gli autori, e conversar sovente

Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

Fin la presente età, che in conoscenza

Ed in civil costume

Sembra tutte avanzar; qual moto allora,

Mortal prole infelice, o qual pensiero

Verso te finalmente il cor m'assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.


Dalle pendici del Vesuvio desolate e spoglie si vede il golfo di Mergellina.

Il cielo stellato si specchia nel mare che brilla di mille luci. Le luci stellari, così piccole e distanti, ricordano la finitezza dell'uomo di fronte all'immensità dell'universo.

La stirpe umana appare un nulla di fronte all'immensa volta
celeste. Invece l'uomo si crede dominatore della natura e prediletto dagli dei.

Questo stupido ottimismo spinge al riso o alla pietà.


Lo spazio sterminato che avvolge la terra viene percepito in tutta la sua bellezza ed immanenza.
Il cielo stellato, osservato dalle pendici del Vesuvio, richiama l'enorme distanza che ci separa dagli astri, la relatività del tutto, e principalmente la fragilità dell'uomo, essere sconosciuto alle grandi forze dell'universo.

L'orgoglio umano, l'illusione ottimistica nella religione sono pertanto bersaglio del poeta: divengono oggetto di riso o di pietà


Come d'arbor cadendo un picciol pomo,

Cui là nel tardo autunno

Maturità senz'altra forza atterra,

D'un popol di formiche i dolci alberghi,

Cavati in molle gleba

Con gran lavoro, e l'opre

E le ricchezze che adunate a prova

Con lungo affaticar l'assidua gente

Avea provvidamente al tempo estivo,

Schiaccia, diserta e copre

In un punto; così d'alto piombando,

Dall'utero tonante

Scagliata al ciel profondo,

Di ceneri e di pomici e di sassi

Notte e ruina, infusa

Di bollenti ruscelli

O pel montano fianco

Furiosa tra l'erba

Di liquefatti massi

E di metalli e d'infocata arena

Scendendo immensa piena,

Le cittadi che il mar là su l'estremo

Lido aspergea, confuse

E infranse e ricoperse

In pochi istanti: onde su quelle or pasce

La capra, e città nove

Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello

Son le sepolte, e le prostrate mura

L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

Dell'uom più stima o cura

Che alla formica: e se più rara in quello

Che nell'altra è la strage,

Non avvien ciò d'altronde

Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.


Un pomo maturo, cadendo a terra,  distrugge inesorabilmente un intero formicaio


Ugualmente la furia del vulcano erompe dalle viscere della terra e in pochi istanti sconvolge e seppellisce ricche città.

La natura non rispetta le opere umane.


Indifferenza della natura verso le sue creature.

L'eruzione del Vesuvio e la distruzione di un formicaio con la sua vita operosa.( vv. 202-236)


Ben mille ed ottocento

Anni varcàr poi che spariro, oppressi

Dall'ignea forza, i popolati seggi,

E il villanello intento

Ai vigneti, che a stento in questi campi

Nutre la morta zolla e incenerita,

Ancor leva lo sguardo

Sospettoso alla vetta

Fatal, che nulla mai fatta più mite

Ancor siede tremenda, ancor minaccia

A lui strage ed ai figli ed agli averi

Lor poverelli. E spesso

Il meschino in sul tetto

Dell'ostel villereccio, alla vagante

Aura giacendo tutta notte insonne,

E balzando più volte, esplora il corso

Del temuto bollor, che si riversa

Dall'inesausto grembo

Su l'arenoso dorso, a cui riluce

Di Capri la marina

E di Napoli il porto e Mergellina.

E se appressar lo vede, o se nel cupo

Del domestico pozzo ode mai l'acqua

Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

Desta la moglie in fretta, e via, con quanto

Di lor cose rapir posson, fuggendo,

Vede lontan l'usato

Suo nido, e il picciol campo,

Che gli fu dalla fame unico schermo,

Preda al flutto rovente,

Che crepitando giunge, e inesorato

Durabilmente sovra quei si spiega.

Torna al celeste raggio

Dopo l'antica obblivion l'estinta

Pompei, come sepolto

Scheletro, cui di terra

Avarizia o pietà rende all'aperto;

E dal deserto foro

Diritto infra le file

Dei mozzi colonnati il peregrino

Lunge contempla il bipartito giogo

E la cresta fumante,

Che alla sparsa ruina ancor minaccia.

E nell'orror della secreta notte

Per li vacui teatri,

Per li templi deformi e per le rotte

Case, ove i parti il pipistrello asconde,

Come sinistra face

Che per vòti palagi atra s'aggiri,

Corre il baglior della funerea lava,

Che di lontan per l'ombre

Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Così, dell'uomo ignara e dell'etadi

Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno

Dopo gli avi i nepoti,

Sta natura ognor verde, anzi procede

Per sì lungo cammino

Che sembra star. Caggiono i regni intanto,

Passan genti e linguaggi: ella nol vede:

E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,

Anche tu presto alla crudel possanza

Soccomberai del sotterraneo foco,


Sono passati 1800 anni dall'eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C. Il misero contadino è ancora sospettoso della furia del monte.

La Natura ancora siede tremenda e minaccia gli uomini. Il pastore,
se ode ribollire l'acqua nel pozzo sveglia i figli e fugge via, vedendo la lava che si distende ancora.

Il bagliore della lava illumina tremendo i luoghi delle antiche rovine.

La Natura è ignara delle generazioni umane e delle loro trasformazioni: Essa ha leggi immutabili e inesorabili, che non è in potere dell'uomo di modificare o controllare.


Angoscia sempre risorgente da parte degli abitanti della zona vesuviana, ogni volta che il vulcano manda segni di minaccia.

La natura è perennemente giovane.

I suoi lunghi cicli la rendono quasi immutabile. L'uomo è immerso al contrario nella caducità e si vanta di essere eterno

(237-296)


Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo

Su tue molli foreste. E piegherai

Sotto il fascio mortal non renitente

Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi

Al futuro oppressor; ma non eretto

Con forsennato orgoglio inver le stelle,

Né sul deserto, dove

E la sede e i natali

Non per voler ma per fortuna avesti;

Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quanto le frali

Tue stirpi non credesti

O dal fato o da te fatte immortali.


La ginestra docile si piega alla furia del vulcano e reclina i suoi steli, soccombendo dignitosamente alla Natura.

L'uomo è invece ben più stolto e vanamente superbo, credendosi dagli dei o dal destino predestinato all'immortalità..


Dignità, umiltà, saggezza della ginestra e stoltezza e presunzione dell'uomo

La ginestra sa di non essere immortale, né destinataria di una sorte privilegiata nell'universo

( vv.297-315)

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