( cap. 1)
Lungo il viale deserto, nel profondo silenzio della notte, i carri degli
ortolani, diretti verso Parigi percuotevano con l'eco dei loro monotoni
scossoni, a destra e a sinistra, le facciate delle case immerse nel sonno
dietro i filari confusi degli olmi. Un carro di cavoli e un altro di piselli
si erano riuniti sul ponte di Neully ad otto carri di rape e di carote
calati da Nanterre; ed i cavalli procedevano a testa bassa, con andatura
pigra e uguale rallentata dalla fatica della salita. Su in alto, sdraiati
bocconi, sul carico dei legumi, sonnecchiavano i carrettieri coi loro
mantelli a righe nere e grigie, le redini arrotolate ai polsi. Nell'ombra
una fiamma improvvisa di gas rischiarava a tratti ora i chiodi di una
scarpa, ora la manica azzurra di una blusa, o il cocuzzolo di un berretto in
mezzo alla fioritura enorme dei mazzi rossi di carote e bianchi delle rape,
tra la verdura traboccante dei piselli e dei cavoli.
E sulla strada, e da quelle vicine, avanti indietro da ogni parte, il
cigolio lontano di altri carri annunciava che altri convogli stavano
arrivando tutti insieme, alle due del mattino, nelle tenebre della città,
cullata nel sonno profondo di quell'ora dal rumore di tutte quelle
provvigioni che la attraversavano.
In testa era Balthazar, il cavallo di Mme François enorme;
camminava mezzo addormentato, ciondolando le orecchie ad ogni passo, quando
all'altezza di rue Longchamp, un sobbalzo di paura lo fece impuntare di
colpo sulle quattro zampe. Le bestie che lo seguivano andarono a sbattere il
capo sul dietro del carro che li precedeva. La fila si fermò con un gran
rumore di ferraglia, tra le bestemmie dei carrettieri svegliati di
soprassalto. Mme François, appoggiata all'asse che tratteneva i legumi sul
davanti aguzzava gli occhi, ma non riusciva a distinguere niente, per la
scarsa luce della piccola lanterna quadrata che rischiarava sulla sinistra,
a mala pena, uno dei fianchi lucenti di Balthazar.
«Oh, mamma, andate avanti!» gridò uno degli uomini che si era rizzato in
ginocchio sulle rape.
«Che cosa c'è? Qualche
porco ubriacone...?» La donna si era sporta in avanti ed aveva visto a
destra, quasi tra le zampe del cavallo, un corpo nero che sbarrava la
strada. Si voltò al carrettiere: «Non si può mica schiacciare la gente,»
disse saltando a terra.
L'uomo se ne stava disteso colle braccia aperte e il viso nella polvere;
pareva straordinariamente lungo, magro come un ramo secco; ed era
incredibile come Balthazar con una zampata non l'avesse spezzato in due. Mme
François, sul momento, pensò fosse morto; si chinò, gli prese una mano e
sentì che era calda.
«Ehi voi...» disse con dolcezza. Ma i carrettieri non avevano
altrettanta pazienza. Quello che si era alzato in ginocchio sulle rape gridò
con voce rauca: «Dategli una frustata, mamma, è pieno, quel porco,
sbattetelo nel fosso.» In quel momento l'uomo aveva aperto gli occhi e
fissava Mme François con aria sgomenta, impaurita, senza muoversi. Ella
pensò che fosse davvero ubriaco. «Non dovete restare qui,» gli disse, «se
non volete farvi schiacciare... Dove siete diretto?»
«Non so...» rispose lui con un filo di voce; poi aggiunse a fatica girando
attorno uno sguardo inquieto:
«Andavo a Parigi, e sono
caduto non so...»
La donna poté
distinguerlo meglio. Faceva pena: i calzoni neri, l'abito nero sbrindellato
e quella magrezza tremenda. Un berretto di panno spesso e nero, calato per
paura fin sulle sopracciglia, lasciava intravedere un paio di occhi scuri,
grandi, singolarmente dolci in mezzo ad un viso duro e tormentato. Mme
François pensò che era veramente troppo magro per aver bevuto.......
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PREFAZIONE
I Rougon-Macquart
dovranno comprendere una ventina di romanzi. Il piano generale è fissato fin
dal 1869, ed io lo seguo con estremo rigore. Arrivato il momento dell'Assommoir,
l'ho scritto, così come scriverò gli altri, senza deviare nemmeno per un
attimo dalla mia linea retta. Ecco da cosa deriva la mia forza. Ho un
obiettivo cui tendere.
Quando L'Assommoir è apparso su un giornale, è stato attaccato con
una violenza senza precedenti. È stato imputato di tutti i crimini. Occorre
dunque ch'io spieghi qui, in poche righe, le mie intenzioni di scrittore?
Quello che ho voluto dipingere è il fatale decadimento d'una famiglia
operaia nell'ambiente appestato dei nostri sobborghi. Al fondo
dell'ubriachezza e della poltroneria, troviamo l'allentamento dei legami
familiari, gli orrori della promiscuità, il progressivo oblio d'ogni onesto
sentimento; quindi, come scioglimento, la vergogna e la morte. Non è altro
che morale in atto.
L'Assommoir
è senza dubbio il più casto dei miei libri. Ho dovuto spesso toccare delle
piaghe ben altrimenti spaventose. Soltanto la forma ha scandalizzato. Se la son presa con le parole. Il mio crimine è stato quello d'aver avuto la
curiosità letteraria di raccogliere e fondere in uno stampo adeguatamente
elaborato la lingua del popolo. Ah! la forma, ecco il più grande dei
crimini! Eppure, di tale lingua, esistono dei dizionari. Gli eruditi la
studiano e ne apprezzano il vigore, l'imprevedibilità e la forza delle
immagini. È un boccone prelibato per i grammatici ficcanaso. Non conta.
Nessuno si è accorto che volevo fare un lavoro puramente filologico, un
lavoro che credo del più vivo interesse storico e sociale.
Ma nemmeno mi difendo. La mia opera mi difenderà. È un'opera di verità,
il primo romanzo sul popolo che non menta e abbia lo stesso odore del
popolo. Ma non bisogna affatto concluderne che il popolo per intero sia
cattivo: i miei personaggi non sono infatti cattivi, sono soltanto ignoranti
e corrotti dall'ambiente di dura fatica e di miseria in cui vivono.
Cap.1
Gervaise aveva aspettato Lantier fino alle due del mattino. Poi, tutta in
brividi per essere rimasta in camicia all'aria frizzante della finestra,
s'era assopita, gettata di traverso sul letto, febbricitante, le guance
inondate di lacrime.
Da otto giorni. appena uscivano dal Veau à Deux Têtes, dove mangiavano, lui
la mandava a dormire con i bambini e ricompariva soltanto a notte fonda,
raccontandole che andava a cercar lavoro.
Quella sera, mentre spiava il suo
ritorno, le era sembrato di vederlo entrare al ballo del Grand-Balcon, le
cui dieci finestre fiammeggianti illuminavano come in un manto d'incendio la
nera colata dei boulevards esterni; e dietro di lui, a cinque o sei passi di
distanza, le mani penzoloni, come se gli avesse appena lasciato il braccio
per non passare insieme sotto il crudo chiarore dei globi del portone, aveva
visto avanzare la piccola Adèle, una brunitrice che mangiava al loro stesso
ristorante.
Quando Gervaise
si svegliò, verso le cinque, irrigidita, le reni a pezzi, scoppiò in
singhiozzi. Lantier non era tornato. Era la prima volta che dormiva fuori
casa. Restò seduta sulla sponda del letto, sotto il brandello di perse
sbiadita che pendeva da un braccio attaccato al soffitto con una cordicella.
E lentamente, i suoi occhi velati di lacrime facevano il giro della misera
camera ammobiliata: un cassettone di noce cui mancava un cassetto, tre sedie
di paglia e un tavolino bisunto, su cui languiva una brocca slabbrata. Era
stato aggiunto, per i bambini, un lettino di ferro che bloccava il
cassettone e occupava i due terzi della stanza. Il baule di Gervaise e
Lantier, spalancato in un angolo, mostrava i suoi fianchi vuoti e, sul
fondo, un vecchio cappello d'uomo, nascosto sotto un mucchio di camicie e di
calzini sporchi. Lungo le pareti, sulle spalliere dei mobili, pendevano uno
scialle bucato, un paio di pantaloni mangiati dal fango, gli ultimi stracci
rifiutati perfino dai rigattieri. Al centro del camino, fra due candelieri
di zinco spaiati, c'era un pacchetto di bollette del Monte dei pegni, d'un
rosa tenue. Era la camera migliore della locanda, la camera del primo
piano, che dava sul boulevard.
Coricati l'uno
accanto all'altro sullo stesso guanciale, i due bambini intanto dormivano.
Claude, che aveva otto anni, con le manine distese fuori della coperta,
respirava lentamente, mentre Etienne, di soli quattro anni, sorrideva, un
braccio passato attorno al collo del fratello. Lo sguardo smarrito della
madre si fermò su di loro: scoppiò allora nuovamente in singhiozzi, si
schiacciò un fazzoletto sulla bocca per soffocare le piccole grida che le
sfuggivano. E a piedi nudi, senza curarsi di rimettere le ciabatte cadute a
terra, tornò ad affacciarsi alla finestra, ricominciò la stessa attesa della
notte, frugando con lo sguardo i marciapiedi, in lontananza.
La locanda si trovava sul boulevard de la Chapelle, a sinistra della
barriera Poissonnière. Era una catapecchia a due piani, dipinta di color
rosso vino fino al secondo, con persiane infradiciate dalla pioggia. Al di
sopra d'un lampione dai vetri incrinati, si poteva leggere, fra le due
finestre, in grandi lettere gialle da cui la muffa del gesso aveva portato
via qualche frammento: Locanda Boncoeur, tenuta da Marsouillier. Gervaise,
ostacolata dal lampione, doveva sporgersi, con il fazzoletto sempre sulle
labbra. Guardava a destra, dalla parte
del boulevard de Rochechouart, dove gruppi di beccai, davanti ai mattatoi,
parevano immobili nei loro grembiali insanguinati: e il vento fresco
trascinava con sé, a tratti, un fetore, un odore selvaggio di bestie
massacrate. Guardava a sinistra, abbracciando d'infilata il lungo nastro del
viale, per arrestarsi quasi dirimpetto a sé, alla massa bianca dell'ospedale
di Lariboisière, allora in costruzione. Lentamente, da un capo
all'altro dell'orizzonte, seguiva il muro del dazio, al di là del quale, la
notte, sentiva a volte delle grida come di
assassinati: e frugava allora con gli occhi gli angoli più appartati, i
punti più oscuri, neri di umidità e lerciume, con la paura di scoprirvi il
corpo di Lantier, crivellato nel ventre dalle coltellate.
Quando sollevava lo sguardo, oltre la grigia e
interminabile muraglia che circondava la città come in una fascia di
deserto, intravedeva un immenso chiarore, un pulviscolo di sole, già
riempito del chiasso mattutino di Parigi. Ma era pur sempre alla barriera
Poissonnière che tornava, con il collo teso, sentendosi stordita dal veder
scorrere, fra i due tozzi padiglioni del dazio, il flusso ininterrotto di
uomini, bestie e carri, che calava dalle alture di Montmartre e della
Chapelle. Era tutto uno scalpiccio
d'armenti, una folla che arrestandosi all'improvviso s'allargava in
pozzanghere sulla via, uno sfilare senza fine di operai che andavano al
lavoro, con i loro arnesi sulla schiena e il loro pane sotto braccio. E
quella folla si lasciava inghiottire da Parigi, per annegarvi, continuamente.
Quando Gervaise, fra tutta quella gente, credeva di riconoscere Lantier, si
sporgeva ancora di più, rischiando di cadere. Si premeva poi ancora più
forte il fazzoletto sulla bocca, come per ricacciare indietro il suo dolore.
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Cap 1
Alle nove, la sala dei teatro delle Variétés
era ancora vuota. Poche persone, in balconata e in platea, aspettavano,
sperse in mezzo alle poltrone di velluto granata, nella scarsa luce del
lampadario a fiamma abbassata. Un'ombra copriva la grande macchia rossa dei
sipario; e dal palcoscenico non proveniva nessun rumore, la ribalta era
spenta, i leggii dei suonatori sparsi qua e là. Soltanto in alto, nella
galleria di terz'ordine, intorno alla rotonda dei soffitto su cui donne e
bambini nudi spiccavano il volo in un cielo inverdito dal gas, da un brusio
continuo di voci si alzavano risa e richiami, e teste coperte da cuffiette e
da berretti si assiepavano sotto'gli ampi vani concavi, incorniciati d'oro.
Di tanto in tanto si scorgeva una maschera, indaffarata, con dei biglietti
in mano, che faceva passare davanti a sé un signore e una signora, i quali
prendevano posto, l'uomo in frac, la donna sottile e flessuosa, che
lentamente lasciava vagare intorno lo sguardo. In platea apparvero due
giovani. Restarono in piedi, guardandosi intorno.
«Che ti dicevo, Hector?», esclamò il meno giovane, un ragazzone con baffetti
neri. «Siamo arrivati troppo presto. Avresti potuto lasciarmi finire in
pace il sigaro.»
Passava una maschera.
«Oh! monsieur Fauchery», disse in tono confidenziale, «non si comincerà
certo prima di una mezz'ora.»
«Allora, perché lo annunciano per le nove?», mormorò Hector, il cui lungo
volto magro assunse un'aria scontenta. «Stamattina, Clarisse, che recita
nello spettacolo, mi ha giurato che avrebbero cominciato alle otto in
punto.»
Tacquero un istante, alzando la testa, esplorando
con lo sguardo l'ombra dei palchi, ma la carta verde con cui erano
tappezzati li rendeva ancora più bui. In basso, le barcacce erano immerse
in una completa oscurità. Nella balconata c'era soltanto una grossa
signora, arenata sul velluto del parapetto. A destra e a
sinistra, tra alte colonne, ì palchi di proscenio erano ancora vuoti, sotto
i drappeggi di velluto a lunghe frange. La sala, tutta bianco e oro,
ravvivata in verde chiaro, sembrava dissolversi, come se le fiamme basse dei
grande lampadario di cristallo la riempissero di un finissimo pulviscolo.
«Sei riuscito ad avere il palco di proscenio per Lucy?», chiese Hector.
«Sì», rispose l'altro, «ma non senza fatica... Oh! non c'è pericolo che Lucy
arrivi troppo presto!»
Soffocò un leggero sbadiglio, poi, dopo un momento di silenzio:
«Hai fortuna, tu, a non aver mai assistito a una prima...
La Bionde
Vénus
sarà l'avvenimento dell'anno. Se ne parla da sei mesi. Ah! Caro mio, che
musica! Che fuoco! Bordenave, che sa il fatto suo, l'ha tenuta per
l'Esposizione.»
Hector ascoltava religiosamente. Domandò:
«E Nanà, la nuova stella, quella che interpreta
Venere, la conosci?».
«Ma guarda un po'! Ci risiamo!», gridò Fauchery alzando le
braccia al cielo. «Da stamattina, tutti mi tormentano con questa Nanà. Ho
incontrato più di venti persone, e Nanà di qua, e Nanà di là! Che ne so,
io! Non conosco mica tutte le ragazze di Parigi!...
Nanà è un'invenzione di Bordenave. Vedrai che bella
roba!»
Si calmò. Ma la sala vuota, la mezza luce dei lampadario, quel
raccoglimento da chiesa pieno di voci bisbiglianti, quell'aprirsi e
chiudersi di porte lo infastidivano.
«Ah! No!», disse improvvisamente. «Ci s'intristisce, qui. Io esco...
Forse giù troveremo Bordenave. Ci darà un po' di particolari.»
A pianterreno, nel grande vestibolo pavimentato di
marino, dov'era il botteghino, il pubblico cominciava ad affluire. Dai tre
cancelli aperti si vedeva scorrere la vita ardente dei boulevard, brulicanti
di folla e fiammeggianti di luci nella bella notte d'aprile. Si sentivano
arrivare e fermarsi carrozze, sportelli sbattere rumorosamente, e la gente
entrava, a gruppetti, sostando davanti al botteghino, e raggiungendo poi,
nel fondo, il doppio scalone, che le donne salivano lentamente, con un
leggero ondeggiare dei fianchi. Nella cruda luce dei gas, sulla smorta
nudità di quella sala, che una squallida decorazione Impero trasformava nel
peristilio di un tempio di cartone, facevano un violento spicco alti
manifesti gialli, coi nome di Nanà in grosse lettere nere. Alcuni uonúni,
come agganciati mentre passavano, li leggevano; altri, in piedi,
chiacchieravano, bloccando le porte; mentre, vicino al botteghino, un uomo
massiccio, dalla larga faccia rasata, rispondeva burberamente alle persone
che insistevano per avere dei posti.
«Ecco Bordenave», disse Fauchery scendendo lo scalone.
Ma il direttore l'aveva già visto.
«Eh! Siete proprio un amico!», gli gridò da
lontano. « è così che mi avete scritto la cronaca?... Ho sfogliato Le
Figaro di stamattina: niente.»
«Un momento!», rispose Fauchery. «La dovrò almeno vedere, la vostra Nanà,
prima di poterne parlare... Oltretutto, non vi avevo promesso nulla.»
Poi, per tagliar corto, gli presentò suo cugino, Monsieur Hector de
La Faloise, un giovane venuto a Parigi a compiere la sua educazione. Il
direttore lo soppesò con un'occhiata. Hector, invece, lo osservava con
emozione. Era proprio lui Bordenave, quell'esibitore di donne, che
trattava da aguzzino, quel cervello sempre desideroso di pubblicità, quell'uomo
vociante. scatarrante, che si dava grandi manate sulle cosce, cinico, con
un'anima da sbirro! Hector pensò che fosse il caso di dirgli una frase
gentile.
«Il vostro teatro ... », cominciò con voce flautata.
Bordenave l'interruppe asciuttamente, con una parola cruda, da uomo che
ama le situazioni chiare.
«Dite pure il mio bordello.»
Allora, Fauchery fece una risata d'approvazione, mentre La Faloise
restava col suo complimento in gola, scandalizzato, ma cercando di far
vedere che aveva apprezzato la battuta. Il direttore, nel frattempo, si era
precipitato a stringere la mano a un critico teatrale, il cui giornale aveva
una grande influenza. Quando tornò, La Faloise si era ripreso. Temeva di
essere considerato un provinciale, mostrandosi troppo sconcertato.
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