Parlare di bellezza nella nuova società industriale,
popolata dagli scenari del divertimento, del lusso, della ricchezza esibita,
ha un senso molto diverso rispetto all'età romantica.
Baudelaire - del tutto contrario al nuovo clima di progresso
materiale della sua Parigi- e gli Scapigliati milanesi
- seppur più modestamente sul piano creativo - si fanno
portatori del giudizio dell'artista circa i mutamenti
intervenuti. A mutare non è solo un canone di gusto, quanto un
contesto storico e la stessa idea di arte. La bellezza
socialmente intesa e fruita si lega sempre più frequentemente alla
materialità, al consumo dei piaceri, alla reiterazione variata del
divertimento, alle apparenze festose dei café chantant. Il lusso, le
forme dell'eleganza sono alla radice del fascino
femminile.
Si svuota insomma lentamente il canone etico dei
grandi valori ( armonia, misura, equilibrio, intensità passionale,
fedeltà, religiosità, perennità ideale del bellezza celebrata
dall'arte ....) che accompagnavano l'idea di bellezza
ottocentesca - sia neoclassica che romantica. Il modello di Eva,
ballerina fatua ed imprevedibile, attratta dalle futilità della nuova
società, sarà riproposto con maggior forza tragica da
Emile Zola nel romanzo dei Rougon Maquart
Nanà. In questo caso la morte per vaiolo della protagonista, che
vede mostruosamente deturpato il suo corpo di proverbiale bellezza, è una
chiara metafora negativa
sulla minacciosa corruzione che accompagna i falsi valori
dell'industrialismo e del progresso della società borghese avanzata di fine
'800.
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Eva ( 1873 )
E' questo uno dei primi romanzi di G. Verga, che nascono nel clima culturale
della Scapigliatura milanese.
Eva, al pari dell'eroina di Una peccatrice,
è una donna bella e fascinosa, destinata a causare
un'infelice passione. Essa guadagna col suo
lavoro di ballerina il lusso che è indispensabile cornice al suo fascino.
Un povero pittore, Enrico Lanti, si innamora di
lei, ed essa, curiosa e presa dallo strano carattere dell'artista, lo
ricambia, dividendosi tra lui e le sue attività professionali: soluzione
che, al suo spregiudicato buon senso, sembra la migliore. Però, quando lo
vede tormentato dalla gelosia,
giunge a dargli la gran prova d'amore di dividere con
lui la miseria. Lungi dagli splendori tra cui Enrico l'ha conosciuta,
Eva s'accorge presto d'aver perduto ogni fascino per l'amante, e allora lo
lascia e torna alla sua vita equivoca. Così
Lanti soffre solo nella miseria, finché trova la sua strada e si conquista
gloria e agiatezza. Allora lo riprende la passione per Eva, e poiché non può
riaverla, provoca il suo amante, si batte in duello e
va a morire, povero e segnato dalla malattia, nel paesello natale, tra la
sua famiglia disperata.
In questo tipico romanzo "di transizione" il Verga giunse, forse
involontariamente, a simboleggiare, nelle figure dei due protagonisti,
il contrasto tra due mentalità e tra due opposte
formule d'arte. Il Lanti è l'artista, romantico, pieno di
slanci ideali e fiducioso in un'idea di arte totalmente appagante che
diviene l'unica ragione di vita; tesi questa sostenuta e condivisa dal
movimento degli Scapigliati.
Eva è invece personaggio più legato al realismo prosaico della nuova società
industriale, che sostiene e ostenta apertamente il valore del denaro, del
divertimento, del lusso esibito, senza il pudore che una società contadina -
come quella da cui proviene il Lanti - ha ancora per l'autenticità dei
sentimenti.
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[Premessa]
1 Eccovi una
narrazione - sogno o storia poco importa - ma vera, com'è stata o come
potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocrisie.
Voi ci troverete qualche cosa di
voi che vi appartiene, ch'è il frutto delle vostre passioni, e se sentite di
dover chiudere il libro allorché si avvicina vostra figlia - voi che
non osate scoprirvi il seno dinanzi a lei se non alla presenza di duemila
spettatori e alla luce del *gas*, o voi che, pur lacerando i guanti
nell'applaudire le ballerine, avete il buon senso di supporre che ella non
scorga scintillare l'ardore dei vostri desideri nelle lenti del vostro
occhialetto - tanto meglio per voi, che rispettate ancora qualche
cosa.
2 Però
non maledite l'arte ch'è la manifestazione dei vostri gusti. I greci
innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il cancan
litografato sugli scatolini dei fiammiferi.
Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni;
l'arte allora era una civiltà,
oggi è un lusso: anzi un lusso da scioperati.
La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand'è esclusivo come oggi,
non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la
logica, che il godimento
materiale. In tutta la
serietà di cui siamo invasi, e nell'antipatia per tutto ciò che non è
positivo - mettiamo pure
l'arte scioperata - non
c'è infine che la tavola
e la donna. Viviamo in
un'atmosfera di Banche e di imprese industriali, e
la febbre dei piaceri è
l'esuberanza di tal vita.
3 Non accusate l'arte,
che ha il solo torto di aver più cuore di voi, e di piangere per voi i
dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete
soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che
create, - voi che vi
meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l'onore là dove voi
non lasciate che la borsa, - voi che fate scricchiolare allegramente i
vostri stivalini inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono
dolori sconosciuti, che l'arte raccoglie e che vi getta in faccia.
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Nell'Introduzione a "Eva", Verga dichiara di voler ritrarre, senza retorica
e senza ipocrisia, la vera realtà di una certa parte della società,
salottiera, frivola, anche crudele nella sua egoistica brama di piaceri. E
dichiara questo polemicamente, sostenendo, alla "naturalista", che l'arte
deve raccogliere questi "pezzi" di verità e "buttarli in faccia" a quel
pubblico che può riconoscere se stesso nei protagonisti del romanzo.
Intenzione polemica nella quale si avverte anche l'eco della Scapigliatura.
Può dirsi, perciò, che Verga, tra il 1866 e il 1872,
cammina verso il traguardo di una
rappresentazione veritiera e moralmente impegnata: cioè vuole denunciare i
mali di una società corrotta e immorale.
D'altronde in quella società egli viveva, da siciliano
e da provinciale che, approdato al Nord e alla metropoli, ne
subiva il fascino cosmopolita, ma dentro vi si sentiva
anche a disagio e, in parte, li respingeva: l'attraevano, certo, l'eleganza,
la raffinatezza, la cultura; lo respingevano l'ipocrisia, l'egoismo, la
frivolezza, l'immoralità e, forse soprattutto, quel culto del dio denaro,
che caratterizzava un ambiente in rapida espansione economica capitalistica.
Insomma era la civiltà urbana, borghese e moderna a metterlo a disagio, lui,
che in fondo conservava nell'animo certi valori contadini e provinciali.
Ed è significativo che alcuni dei protagonisti di
quei racconti, sconfitti nelle loro passioni, "vinti" dalla vita, si
rifugino nel loro paese natìo, abbandonata per sempre la grande città: ed il
paese natìo è, guarda caso!, la Sicilia. Così pure è significativo che
"Tigre reale", del 1873, si chiuda con la
riscoperta del valore della famiglia da parte del
protagonista, deluso e bruciato dalla passione peccaminosa e perversa per
una nobildonna russa. E il ritorno alla famiglia (alla moglie devota e
buona, al figlioletto) coincide, non è un caso, con il trasferimento in
campagna: lontano cioè dai veleni della città.
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