Il viaggio impossibile di
Ulisse verso la piena conoscenza del vivere umano.
G. Pascoli - L'ultimo viaggio
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XXI
LE SIRENE
Indi più lungi navigò, più triste.
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XXIII
IL VERO
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Giovanni Pascoli dedicò al mito di Ulisse un intero poema, incluso nella raccolta Poemi conviviali (1904).
Nelle note
alla prima edizione dei Poemi conviviali, Pascoli scriveva: « ...
mi sono insegnato di mettere d'accordo l'Odissea (XI, 121-137) col mito
narrato da Dante e dal Tennyson. Odisseo sarebbe, secondo la mia finzione,
partito per l'ultimo viaggio dopo che s'era adempito, salvo che per l'ultímo
punto, l'oracolo di Tiresia». L'«oracolo di Tiresia» è
la profezia, che Ulisse riceve dall'indovino tebano
Tiresía, incontrato nel mondo dei morti (il libro XI dell'Odissea
narra infatti la discesa dell'eroe agli Inferi):
Ulísse tornerà alla sua patria, ma dovrà quindi affrontare un nuovo viaggio:
con un remo in spalla, camminerà fintanto che non sarà giunto ad una terra i
cui abitanti, ignari del mare, scambino il remo per un ventílabro, strumento
che i contadini usavano per separare il grano dalla pula; allora, confitto a
terra il remo e fatti sacrífici a Posidone, potrà tornare a casa e
riprendere il posto di re: «per te la morte verrà / fuori dal
mare, così serenamente da coglierti / consunto da splendente vecchiezza:
intorno avrai popoli ricchi. Questo senza errore ti annunzio» Omero immagina per Ulisse, a conclusione di una vita tormentata ed errabonda, una serena vecchiaia; non così Dante e Tennyson che, come abbiamo visto, presentano un eroe o interamente dominato dal desiderio di conoscere, al punto di rinunciare al ritorno ad Itaca, o disgustato della vita mediocre e priva di attrattive che la sua isola e il suo ruolo di sovrano gli offrono, e deciso perciò a riprendere il mare. L'eroe del Pascoli, invece, dopo aver compiuto il viaggio alla ricerca degli uomini che non conoscono il mare, prescrittogli da Tíresia, per nove anni rimane ad Itaca. La sua non è però la «splendente vecchiezza » di cui parla il testo omerico, perché Ulisse, assorto nella rievocazione del proprio passato, nel rimpianto dei tempi eroici, è nello stesso tempo colto da un dubbio sempre più tormentoso: gli episodi che egli va ricordando appartengono alla realtà o all'immaginazione? E' questo dubbio che, nel decimo anno, lo spinge a riprendere la navigazione, con queí compagni che fedelmente lo hanno atteso e ai quali, come in Dante e in Tennyson, Ulisse rivolge un'allocuzione. ( E' il canto XII de L'ultimo viaggio, diviso, a somiglianza dell'Odissea, in ventiquattro canti, con un'inversíone, però: i primi dodici canti presentano l'eroe a terra, gli ultimi dodici ne raccontano il viaggio). Il viaggio è un navigare a ritroso, alla ricerca dei luoghi e delle figure che più fortemente hanno segnato l'esperienza dell'eroe: Circe, il Ciclope, le Sirene, Calípso. Ma nulla di ciò che Ulisse ha conservato nel ricordo corrisponde a verità: Circe non esiste, la sua canzone, che l'eroe si illude di risentire, non è che lo sciacquio del mare mosso dal vento; nella grotta di Polifemo abita un innocuo pastore, che a stento ricorda di aver udito raccontare che da quel monte piovevano pietre in mare « ... e che appariva un occhio / nella sua cima, un tondo occhio di fuoco » (XX, vv. 40-41).
Il mito si
dissolve, l'avventura di Ulisse si rivela sogno, non realtà.
Ogni certezza sembra dunque crollare: a chi
chiedere il «vero», dove cercare risposta al dubbio sempre più inquietante
circa l'illusorietà di ogni esperienza umana? Nell'Odíssea, le Sirene
avevano invitato Ulísse a fermarsi ad ascoltare il loro canto, giacché gli
avrebbero rivelato ogni cosa: Il mito greco aveva dato alle Sirene le sembianze di uccelli con volto di donna. Nei versi del Pascoli, esse hanno inizialmente l'aspetto di enigmatiche sfingi, immobili «alla punta dell'ísola fiorita,, verso cui la corrente «tacíta e soave» spinge inesorabilmente la nave di Ulisse. La ripresa dei due versi che fungono da ritomello («E la corrente tacita e soave /più sempre avanti sospíngea la nave,» sottolinea in maniera assai evidente (anche la presenza della rima collabora) il mutamento della situazione, ríspetto al racconto di Omero: non è tanto l'eroe padrone di sé, artefice del proprio destino, a scegliere di incontrare le Sirene, ma è piuttosto una forza a lui superiore che ad esse lo trascina. Certo Ulisse non ha perso la sua fisionomia di eroe della conoscenza: "Son io! Son io, che tomo per sapere! / Ché molto io vidi " alla ricerca tenace dell'eroe, tuttavia, non ha corrisposto alcuna acquisizione di certezze: "...ma tutto ch'io guardai nel mondo, mi riguardò; mi domandò: Chi sono?» Davvero più modemo, questo Ulisse dei Pascoli, non più segnato da quella determinazione a varcare il «límite», a conoscere terre ignote, che caratterizzava gli eroi di Dante e di Tennyson; o meglio, fornito anch'eglí di uguale determinazione, ma diversamente orientata: il suo viaggio non è più volto all'estemo, alla ricerca di nuovi lidi, ma all'intemo, alla scoperta dell'ambiguo confine tra sogno e realtà; mentre il «límite» non è costituito dalle mitiche Colonne d'Ercole, bensì connaturato nella condizione umana, irrevocabilmente volta alla morte. L'unica risposta all'affannoso interrogare di un Ulisse ormai giunto oltre l'illusione, ormai in grado di intravedere l'ídentità Sírene-scogli, prato fíorito-grande mucchio d'ossa, è il concretízzarsi della sola certezza che l'uomo può avere: la morte. La sostituzione del consueto ritomello di due versi con l'unico verso «E tra i due scogli si spezzò la nave», che funge da chiusa al canto XXIII, sancisce il carattere «ultimo» del naufragio di Ulisse. L'Eroe navigatore (così il Pascoli altrove lo designa) è pervenuto alla meta definitiva.
Nel canto
XXIV (Calipso), l'ultimo approdo è ímmaginato
nell'isola della dea, cui l'eroe senza vita sarà trascinato dalle onde;
ma fin d'ora siamo in grado di intendere ciò che il Pascoli ha voluto
significare. Il suo Ulisse, così « antieroe »
nell'assenza di sicurezze, nel dubbio che investe ogni
momento della vita passata e presente, è in realtà anch'eglí «eroe»:
nel voler indagare nel mistero dell'animo umano, nell'affrontare il crollo
delle illusioni, nell'accettare la realtà della morte. |