La composizione del 1898 viene inserita nella raccolta dei Poemetti.
La fonte è rivelata da Maria Pascoli nella sua biografia del fratello.
Durante gli anni trascorsi da lei come educanda in convento, un giorno le
fanciulle, durante una passeggiata, avevano scorto una pianta con una bella
spiga di fiori rossi. La curiosità le spinse ad avvicinarsi, ma la madre
maestra intimò loro di non farlo. Quel fiore infatti " emanava un profumo
venefico così penetrante che faceva morire". Le fanciulle
indietreggiarono impaurite e Maria rimase per un pezzo con il timore della
digitale purpurea, standone sempre alla lontana. La poesia riprende ed
amplia in chiave simbolica questo particolare. La
digitale purpurea diviene quasi certamente simbolo dell'esperienza amorosa,
piacevole e nello stesso tempo distruttiva, che caratterizzerà l'esperienza
della sorella Rachele ( immaginaria interlocutrice di Maria
nell'atmosfera rarefatta del collegio ove le due compagne si ritrovano dopo
molto tempo ).
I simboli si organizzano in una chiara
polarità. La fanciulla bionda, dalle vesti
semplici e dallo sguardo modesto, è immagine di innocenza e di purezza (
Maria , la sorella che fedelmente ha accettato
di condividere la sua vita con il poeta ): l'altra
bruna, dagli occhi che ardono è
immagine di una sensualità
inquieta ( è Rachele che si sposerà ed
abbandonerà la casa-nido di Castelvecchio ).
Rachele si abbandonerà dunque al fascino mortale della digitale purpurea (
in chiave simbolica interpretabile appunto come l'abbandono
amoroso oppure come la stessa anticipazione del
mistero della morte, vissuto dolcemente e positivamente in quanto
ricongiunzione ai propri cari, ) richiama l'ambiguità psicologica del
poeta, segnato traumaticamente dalla distruzione del nido familiare ed
incapace di ricostruire il senso della sua esperienza vitale.
Pascoli in realtà gioca ampiamente sull'ambiguo, sul
non detto, sull'allusivo proprio per caricare di indistinta emozionalità
l'emblema floreale.
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La digitale purpurea |
Bocklin, L'isola dei morti |
I
Siedono. L'una
guarda l'altra. L'una
esile e
bionda, semplice di
vesti
e di
sguardi; ma l'altra,
esile e
bruna,
l'altra... I due
occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le
vedesti
più?» «Non più,
cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le
rividi le mie
bianche suore,
e li rivissi i
dolci
anni che
sai;
quei
piccoli
anni così
dolci al
cuore...»
L'altra
sorrise. «E
di': non lo
ricordi
quell'orto
chiuso? i rovi con le
more?
i ginepri tra cui zirlano i
tordi?
i bussi amari? quel
segreto
canto
misterioso, con quel
fiore,
fior di...?»
«morte:
sì,
cara». «Ed
era
vero? Tanto
io ci credeva che non mai,
Rachele,
sarei passata al
triste
fiore accanto.
Ché si
diceva: il
fiore ha come un
miele
che inebria l'aria;
un suo
vapor che bagna
l'anima
d'un
oblìo
dolce e crudele.
Oh! quel
convento in
mezzo alla montagna
cerulea!»
Maria
parla: una
mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra
guardano
lontano.
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II
Vedono.
Sorge nell'azzurro
intenso
del
ciel di
maggio il loro
monastero,
pieno di litanie,
pieno d'incenso.
Vedono;
e si profuma il lor
pensiero
d'odor
di
rose e di
viole a
ciocche,
di sentor d'innocenza e di
mistero.
E negli orecchi
ronzano, alle bocche
salgono melodie dimenticate,
là, da tastiere appena appena
tocche...
Oh! quale vi
sorrise
oggi, alle grate,
ospite
caro? onde più
rosse e
liete
tornaste alle
sonanti camerate
oggi:
ed
oggi, più
alto,
Ave, ripete,
Ave
Maria, la vostra
voce in coro;
e poi d'un
tratto (perché mai?) piangete...
Piangono,
un poco, nel
tramonto d'oro,
senza perché. Quante
fanciulle sono
nell'orto,
bianco qua e
là di loro!
Bianco
e ciarliero. Ad or ad or, col
suono
di vele al
vento, vengono.
Rimane
qualcuna, e
legge in un suo
libro
buono.
In
disparte da loro agili e sane,
una
spiga di
fiori, anzi di
dita
spruzzolate di
sangue,
dita umane,
l'alito
ignoto
spande di sua
vita.
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III
«Maria!»
«Rachele!»
Un poco più le
mani
si premono. In quell'ora
hanno
veduto
la
fanciullezza, i
cari
anni
lontani.
Memorie
(l'una
sa dell'altra al
muto
premere)
dolci, come è
tristo e pio
il lontanar d'un
ultimo saluto!
«Maria!»
«Rachele!»
Questa
piange, «Addio!»
dice tra sé, poi
volta la
parola
grave a
Maria, ma i
neri
occhi no: «Io,»
mormora,
«sì:
sentii quel
fiore.
Sola
ero con le cetonie
verdi. Il
vento
portava
odor di
rose e di
viole a
ciocche.
Nel
cuore, il languido fermento
d'un
sogno che
notturno arse e che s'era
all'alba,
nell'ignara
anima,
spento.
Maria,
ricordo quella
grave
sera.
L'aria
soffiava
luce di baleni
silenziosi. M'inoltrai
leggiera,
cauta, su per i
molli terrapieni
erbosi. I
piedi mi
tenea la
folta
erba. Sorridi? E dirmi
sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la
dolcezza! molta!
tanta, che,
vedi... (l'altra lo stupore
alza degli
occhi, e
vede
ora, ed
ascolta
con un suo lungo
brivido...) si
muore!»
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La vegetazione malata del decadentismo.
La digitale purpurea di Pascoli, dai
fiori simili a "dita spruzzolate di sangue, dita umane" insieme con
il vischio dell'omonima poesia è un tema particolarmente caro alla
letteratura del Decadentismo: quello della vegetazione malata, mostruosa,
oscena, velenosa, nella quale sembra materializzarsi in un emblema molto
incisivo il compiacimento per tutto ciò che è impuro, corrotto, malsano.
In questa immagine della vegetazione mostruosa e pericolosamente legata a
valenze di morte, che affascina gli scrittori decadenti, si può vedere una
trascrizione metaforica dell'inconscio, in cui proliferano i mostri, gli
impulsi perversi e inconfessabili, che la coscienza respinge e che urgono
sotto la sua superficie. L'inconscio è una grande scoperta appunto del
Decadentismo.
La presentazione della composizione el breve
riferimento critico alla "Vegetazione malata del decadentismo" sono tratte
da Baldi., Giusso, Razzetti, Zaccaria, Dal testo alla storia, dalla storia
al testo, Paravia, Vol 4/1
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STUDENTESSA:
L'atto creativo è sempre il risultato della rielaborazione di un lutto in
senso psicoanalitico di perdita come ha affermato Melanie Klein
?
PETRELLA: Anche questo è un tema controverso. Certamente quando Melanie
Klein individua nel processo di riparazione la molla segreta del processo
artistico - lei insiste molto su questo aspetto - e quindi, il
bisogno da
parte dell'artista di ricreare un oggetto distrutto nel proprio mondo
interno, un oggetto distrutto e perduto, verso cui si stabiliscono rapporti,
sentimenti di colpa, ecco io credo che indichi solo una componente del
processo artistico. Personalmente non penso che questa sia la chiave
interpretativa dell'attività artistica. È qualcosa che esiste in tutti i
processi di ricreazione fantastica, nel sogno. È un processo molto generale.
Quindi la riparazione - penso che sia corretto di parlare di riparazione -:
non trovo molto salutare attaccarsi a singoli concetti per spiegare fenomeni
così complessi come quello dell'arte, perché ci sono anche fatti artistici
che nascono dalla scissione e non dalla riparazione, per esempio, cioè dal
fatto che il soggetto divide il mondo in due parti, da una parte esiste
l'elemento distruttivo e dall'altra un mondo di bellezza, di ideale, che
funziona, per così dire, per contrasto. Tutto dipende - probabilmente molto
dipende - dagli assetti interiori dell'artista e dalla capacità nostra,
quando fruiamo dell'opera d'arte, di interagire emotivamente e anche spesso
del tutto inconsciamente, inconsapevolmente, con ciò che l'artista ci
propone.
da
http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=429#silenzio
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