Il peso dei ricordi opprimenti del passato
in Ermengarda ( Adelchi ) ed in Napoleone ( 5 maggio ).


La parte lirica del
coro dell'atto IV dell'Adelchi riguarda la scena relativa alla morte di Ermengarda. Anche negli ultimi attimi della sua esistenza terrena Ermengarda subisce gli effetti del ricordo nostalgico e angoscioso dell'amore per Carlo, che l'ha ripudiata. Tali memorie sonop un ostacolo alla sua pace interiore.  Questo era il destino immodificabile dell'infelice sulla terra, di chiedere sempre un oblio che le sarebbe stato negato.

 Viene rievocato il suo passato recente segnato soprattutto dai tormenti dell'eroina chiusa nel monastero di Brescia dopo il ripudio. Essa cerca di far tacere il ricordo dei giorni felici del matrimonio, ma quei giorni, pur censurati, riaffiorano prepotentemente nella memoria in tutte le ore del giorno, in tutti i luoghi, come una presenza ossessiva. Con la strofa 11 viene descritta più minuziosamente la condizione psicologica di Ermengarda tormentata dal suo passato e dal risorgere della passione. Attraverso la similitudine del cespo d'erba che riprende vita grazie alla rugiada, ma poi è incendiato dalla vampa del sole si ripropone il motivo della potenza 'empia' dell'amore, che risorge 'immortale' e assale l'anima ormai vittima del suo passato. La strofa 15 ripropone infine il motivo della liberazione dal tormento angoscioso delle immagini del passato, che è possibile solo  con una morte cristiana rasserenatrice di ogni umano conflitto


 

Manzoni, Adelchi, Coro ATTO IV

 

Sparsa le trecce morbide
sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime
S'innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula

Stende l'estremo vel.
Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:

Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.
Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di chiedere
Che le saria negato;

E al Dio de' santi ascendere
Santa del suo patir.
Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl'irrevocati dì;
Quando ancor cara, improvida

D'un avvenir mal fido,

Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:
Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;
E dietro a lui la furia
De' corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir de' veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L'irto cinghiale uscir;
E la battuta polvere
Riga di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D'amabile terror.
Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d'Aquisgrano!
Ove, deposta l'orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!


 

 

Come rugiada al cespite
Dell'erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier, cui l'empia
Virtù d'amor fatica,
Discende il refrigerio
D'una parola amica,

E il cor diverte ai placidi
Gaudii d'un altro amor.
Ma come il sol che, reduce,
L'erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L'immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;
Ratto così dal tenue
Obblio torna immortale
L'amor sopito, e l'anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.

Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;

Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,
Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.
Te, dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,

Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:

Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.
Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com'era allor che improvida

D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea.
Così
Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.


La stessa condizione angosciosa tocca Napoleone, che trascorre in totale solitudine nell'esilio di S. Elena gli ultimi giorni che lo dividono dalla morte.

Nel 5 maggio il ricordo oppressivo del passato è richiamato soprattutto nei versi centrali e finali dell'ode. Come incombe vorticosa l’onda sul naufrago - poco prima di soccombere alla furia del mare - mentre lo sguardo  tenta invano fino all'ultimo di scorgere un lontano approdo, ugualmente il cumulo dei ricordi gloriosi del suo passato militare e politico sta per vincere le difese di Napoleone. Egli non riesce a dare spazio e concretezza a tali memorie ormai troppo dolorose, perché il ricordo diventa un peso insopportabile nell'inazione presente. Napoleone è un uomo fatto solo per agire che non tollera l'oziosa vita dell'esule.

In altri versi si precisa ancor meglio la negatività del ricordo in relazione al presente isolamento: giorni in cui egli ripensava agli accampamenti continuamente spostati, alle trincee battute dall’artiglieria, al lampeggiare delle armi, alla cavalleria all’assalto, agli ordini concitati ed alla loro rapida esecuzione. A tanto strazio il suo animo ansioso di pace stava per soccombere, quando valido venne l'aiuto di Dio.

Assumendo la fede in Dio come guida negli ultimi attimi della sua vita, egli conosce una morte cristiana, rasserenante - come era stato per Ermengarda.

 



 

Il cinque maggio

Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,

muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.

   lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:

   vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.

  dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.

   La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;

   tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.

  ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor. 

 

   e sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.

   come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;

   tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!

   Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette,
e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!

  e  ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.

   Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;

   e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.

   Bella Immortal! benefica
Fede ai trïonfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.

   tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.  

 

 

 

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