G. D'Annunzio - da Maia - L'incontro di Ulisse
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Incontrammo colui che i Latini chiamano Ulisse, nelle acque di Leucade, sotto le rogge bianche rupi che incombono al gorgo vorace, presso l’isola macra come corpo di rudi ossa incrollabili estrutto e sol d’ argentea cintura precinto. Lui vedemmo su la nave incavata. E reggeva ei nel pugno la scotta spiando i volubili venti, silenzioso;e il pileo èstile dei marinai coprivagli il capo canuto, la tunica breve il ginocchio ferreo, la palpebra alquanto l’occhio aguzzo; e vigile in ogni muscolo era l’ infaticata possa del magnanimo cuore. |
Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse, nel mare su cui si affaccia Santa Maura, sotto le rocce rosse e bianche che scendono a picco sul mare Ionio, vicino all’isola pietrosa come un corpo da ossa ruvide costruito ma forti, e solo dal mare argenteo circondato . Lo vedemmo su una nave ricurva. Egli teneva con una una mano la scotta, spiando i venti che mutavano direzione in silenzio; il copricapo tipico dei marinai gli copriva la testa dai bianchi capelli, la veste corta copriva il ginocchio robusto e la palpebra copriva l’occhio vivace e vi era in ogni muscolo la potenza infaticabile data dalla magnanimità del cuore |
E non i tripodi massicci, non i lebeti rotondi sotto i banchi del legno luceano, i bei doni d’ Alcinoo re dei Feaci, né la veste né il manto distesi ove colcarsi e dormir potesse l’Eroe; ma solo ei tolto s’avea l’arco dall’allegra vendetta, l’arco di vaste corna e di nervo duro che teso stridette come la rondine nunzia del di, quando ei scelse il quadrello a fieder la strozza del proco. Sol con quell’arco e con la nera sua nave, lungi dalla casa d’alto colmigno sonora d’industri telai, proseguiva il suo necessario travaglio contra l’implacabile Mare. |
Né i grossi tripodi, né i vasi rotondi, che si trovavano sotto i banchi di legno, risplendevano, i bei doni del re dei Feaci, Alcinoo, né il suo vestito, né il mantello dove potesse stendersi e riposare l’ eroe; egli conservò solo l’ arco con cui iniziò la vendetta, l'arco costruito con vaste corna di cervo e con nervo resistente, che implacabile sibilò; proprio come la rondine annuncia l'avvento del giorno, quando egli scelse l'arma per colpire la gola dei proci. Solo con quell'arco e con la nera sua nave, lontano dalla sua dimora, dall'alto tetto, risuonante della vita industriosa dei telai di Penelope, avanzava Ulisse nel suo viaggio faticoso, inevitabile, voluto dal fato, contro l’implacabile mare. |
- O Laertiade- gridammo, e il cuor ci balzava nel petto come ai Coribanti dell’Ida per una virtù furibonda e il fegato acerrimo ardeva - O Re degli Uomini, eversore di mura, piloto di tutte le sirti, ove navighi? A quali meravigliosi perigli conduci il legno tuo nero? Liberi uomini siamo e come tu la tua scotta noi la vita nostra nel pugno tegnamo, pronti a lasciarla in bando o a tenderla ancora. Ma, se un re volessimo avere, te solo vorremmo per re, te che sai mille vie. Prendici nella tua nave tuoi fedeli insino alla morte!- Non pur degnò volgere il capo. |
-O figlio di Laerte - gridammo e il cuore ci balzava in petto come ai sacerdoti frigi che sul monte Ida nell'esaltazione dei riti orgiastici celebravano in onere di Cibele. - O re degli uomini, distruttore di città e conoscitore del mare, dove sei diretto e a quali straordinari pericoli conduci la tua nera nave? Siamo
uomini liberi |
Come a schiamazzo di vani fanciulli, non volse egli il capo canuto; e l’aletta vermiglia el pileo gli palpitava al vento su l’arida gota che il tempo e il dolore solcato avean di solchi venerandi. –Odimi- io gridai sul clamor dei cari compagni -odimi, o Re di tempeste! Tra costoro io sono il più forte. Mettimi a prova. E, se tendo l’arco tuo grande, qual tuo pari prendimi teco ma, s’io nol tendo, ignudo tu configgimi alla tua prua-. Si volse egli men disdegnoso a quel giovine orgoglio chiarosonante nel vento; e il folgore degli occhi suoi mi ferì per mezzo alla fronte. |
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Poi tese la scotta allo
sforzo del vento; e la vela regale lontanar pel Ionio raggiante guardammo in silenzio adunati. Ma il cuor mio dai cari compagni partito era per sempre; ed eglino ergevano il capo quasi dubitando che un giogo fosse per scender su loro intollerabile. Io tacqui in disparte, e fui solo; per sempre fui solo sul mare. E in me solo credetti. Uomo, io non credetti ad altra virtù se non a quella inesorabile d’un cuore possente. E ame solo fedele io fui, al mio solo disegno. O pensieri, scintille dell’Atto, faville del ferro percosso, beltà dell’incude!
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