L'anno
moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor
velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie
erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la
piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e
dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de'
Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari,
attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne'
vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe
di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato
slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che
sorgon dietro la Vergine del tondo di Sandro Botticelli alla Galleria
Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i
fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio
dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze
un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura
d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè
era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette
mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le
figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio.
La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane
d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i
vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora.
Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una
delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un libro,
ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo
sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente
ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna
con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per
ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il
mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo
che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue
azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell'aspettante un
ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare,
prima di rivestirsi, dopo un'ora di intimità. Ella aveva molt'arte
nell'accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti
con ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar le faville.
Il suo corpo sul tappeto, nell'atto un po' faticoso, per i movimenti de'
muscoli e per l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture,
e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d'un pallor d'ambra che
richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le
estremità un po' correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi
direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della
metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l'opera, le legna conflagravano e rendevano un
sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato
crepuscolo entrante pe' vetri lottavano qualche tempo. L'odore del ginepro
arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie
di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l'abitudine, un po'
crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch'eran ne' vasi, alla fine
d'ogni convegno d'amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita,
mettendo i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella
devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell'atto che ogni volta ella
faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l'altro
perché l'amante chino legasse i nastri delle scarpe ancóra disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva
guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo
lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz'ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si
sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un
poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero
riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille
ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data
era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea.
Egli ora, aspettando,
poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza
infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d'innanzi ora
in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono
essere visibili da lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro
forme.
La carrozza chiusa scorreva con un rumore eguale, al trotto: le muraglie
delle antiche ville patrizie passavano d'innanzi agli sportelli, biancastre,
quasi oscillanti, con un movimento continuo e dolce. Di tratto in tratto si
presentava un gran cancello di ferro, a traverso il quale vedevasi un
sentiero fiancheggiato di alti bussi, o un chiostro di verdura abitato da
statue latine, o un lungo portico vegetale dove qua e là raggi di sole
ridevano pallidamente.
Elena taceva, avvolta nell'ampio mantello di lontra, con un velo su la
faccia, con le mani chiuse nel camoscio. Egli aspirava con delizia il
sottile odore di eliotropio esalante dalla pelliccia preziosa, mentre
sentiva contro il suo braccio la forma del braccio di lei. Ambedue si
credevano lontani dagli altri, soli; ma d'improvviso passava la carrozza
nera d'un prelato; o un buttero a cavallo, o una torma di chierici violacei,
o una mandria di bestiame.
A mezzo chilometro dal ponte ella disse:
- Scendiamo.
Nella campagna la luce fredda e chiara pareva un'acqua sorgiva; e, come
gli alberi al vento ondeggiavano, pareva per un'illusion visuale che
l'ondeggiamento si comunicasse a tutte le cose.
Ella disse, stringendosi a lui e vacillando sul terreno aspro:
- Io parto stasera. Questa è l'ultima volta...
Poi tacque; poi di nuovo parlò, a intervalli, su la necessità della
partenza, su la necessità della rottura, con un accento pieno di tristezza.
Il vento furioso le rapiva le parole di su le labbra. Ella seguitava. Egli
interruppe, prendendole la mano e con le dita cercando tra i bottoni la
carne del polso:
- Non più! Non più!
Si avanzavano lottando contro le folate incalzanti. Ed egli, presso alla
donna, in quella solitudine alta e grave, si sentì d'improvviso entrar
nell'anima come l'orgoglio d'una vita più libera, una sovrabbondanza di
forze.
- Non partire! Non partire! Io ti voglio ancóra, sempre...
Le nudò il polso e insinuò le dita nella manica, tormentandole la pelle
con un moto inquieto in cui era il desiderio di possessi maggiori.
Ella gli volse uno di quegli sguardi che lo ubriacavano come calici di
vino. Il ponte era da presso, rossastro, nell'illuminazione del sole. Il
fiume pareva immobile e metallico in tutta la lunghezza della sua sinuosità.
I giunchi s'incurvavano su la riva, e le acque urtavano leggermente alcune
pertiche infisse nella creta per reggere forse le lenze.
Allora egli cominciò ad incitarla con i ricordi.
Le parlava de' primi
giorni, del ballo al Palazzo Farnese, della caccia nella campagna del Divino
Amore, degli incontri mattutini nella piazza di Spagna lungo le vetrine
degli orefici o per la via Sistina tranquilla e signorile, quando ella
usciva dal palazzo Barberini seguita dalle ciociare che le offerivano nei
canestri le rose.
- Ti ricordi? Ti ricordi?
- Sì.
- E quella sera de' fiori, in principio; quando io venni con tanti
fiori... Tu eri sola, accanto alla finestra: leggevi.
Ti ricordi?
- Sì, sì.
- Io entrai. Tu ti volgesti appena; tu mi accogliesti duramente. Che
avevi? Io non so. Posai il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu
incominciasti a parlare di cose inutili, senza volontà e senza piacere. Io
pensai, scorato: « Già ella non mi ama più! » Ma il profumo era grande:
tutta la stanza già n'era piena. Io ti veggo ancóra, quando afferrasti con
le due mani il mazzo e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La
faccia risollevata pareva esangue e gli occhi parevano alterati come da una
specie di ebrietà...
- Segui, segui! - disse Elena, con la voce fievole, china sul parapetto,
incantata dal fascino delle acque correnti.
- Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la
faccia, con i fiori, opprimendoti.
Tu risorgevi continuamente, porgendo la
bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra
sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi
in tutto il corpo, e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora...
Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le
braccia nude sino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il
piccolo tremito delle tue mani pallide su le mie tempie...
Ti ricordi?
- Sì. Segui!
Egli seguiva, crescendo nella tenerezza. Inebriato delle sue parole, egli
quasi perdeva la conscienza di ciò che diceva. Elena, con le spalle volte
alla luce, andavasi chinando all'amante. Ambedue sentivano a traverso le
vesti il contatto indeciso dei corpi. Sotto di loro, le acque del fiume
passavano lente e fredde alla vista; i grandi giunchi sottili, come
capigliature, vi si incurvavano entro ad ogni soffio e fluttuavano
largamente.
Poi non parlarono più; ma, guardandosi,
sentivano negli orecchi un rumore
continuo che si prolungava indefinitamente portando seco una parte
dell'essere loro, come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall'intimo del
loro cervello e si spandesse ad empire tutta la campagna circostante.
Elena, sollevandosi, disse:
- Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere acqua?
Si diressero allora verso l'osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni
carrettieri staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror
dell'occaso feriva il gruppo umano ed equino, con viva forza.