G. D'Annunzio - La memoria, esperienza ambigua tra rigenerazione, abbandono e disfacimento


Per il vitalismo dannunziano riandare al passato con il ricordo riveste varie connotazioni. Talora significa proiettarsi in una sfera di compiaciuta sospensione delle più intense pulsioni,  rifugiandosi nell'innocenza dell'infanzia, accanto alla figura amica della madre, illudendosi di operare un'intima rigenerazione del suo animo, dopo gli inganni e le ipocrisie mondane dell'estetismo. In realtà il poeta ricrea con grande abilità tecnica un coerente quadro ambientale del passato, fitto di elementi che richiamano la consunzione ed il disfacimento ( il giardino abbandonato, certe cose che l'oblio afflisse, un lento sol di settembre, uno sguardo stanco, qualche corda (che ) ancor manca, le dita ceree dell'ava...) di cui egli si compiace.
Consolante ed
illusorio allo stesso tempo è il tentativo, con quel richiamo alle immagine del passato, di poter operare un rinnovamento reale ( tempo è di rifiorire ), una reimmersione sincera in antichi affetti familiari, dando vita a un ribaltamento della sua sensibilità più ricca ed istintiva verso il presente. In realtà egli ha bisogno, per rituffarsi con energia nella pienezza della vita, di rivivere questo ambiguo piacere delle cose consunte e logorate dal tempo,  sfatte, languide e separate ormai irrevocabilmente da un abisso incolmabile. I Crepuscolari ritorneranno sugli stessi temi, ma con una leggerezza e un' ironia demistificante, che consentirà di istituire una più lucida riflessione sul rapporto tra il vecchio mondo ottocentesco che si chiude e la nuova cultura delle moderne città.

Nelle pagine del Piacere l'attesa di Elena da parte di Andrea Sperelli viene riempita e resa spasmodica dal ricordo della relazione passata. Anche in questo caso la rievocazione ha una sua profonda ambiguità perché alimenta, essa stessa, la passione, ricreando minuziosamente l'atmosfera degli incontri passati. In questi incontri la strategia di Andrea, per legare a sé l'amante, era proprio quella di farle rievocare assieme i momenti più coinvolgenti del loro antico rapporto. Ecco dunque che la dettagliata descrizione di questi attimi magici, diventa strumento narrativo tecnicamente ineccepibile per ricostruire lo stato di eccitazione crescente che il protagonista narratore sta vivendo. Il piacere è in fondo prodotto da un'accresciuta sensibilità del corpo e della mente, che si regge sull'abilità di mescolare reali percezioni ( legate al presente ) al raffinato filtro dell'evocazione del passato.
 

Consolazione

Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni, usciamo. Tempo è di rifiorire.

Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancóra per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.

Ancóra qualche rosa è ne' rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l'abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.

Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l'oblìo afflisse.

Che proveresti tu se ti fiorisse
la terra sotto i piedi, all'improvviso?

Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
sol di settembre
, e ancor non vedo argento
su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.

Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po' di sole,
un po' di sole su quel viso bianco.

Bisogna che tu sia forte; bisogna
che tu non pensi a le cattive cose...

Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l'anima tua sogna.

Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.

Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò.
La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
lo parlo. Di': l'anima tua m'intende?
Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende
quasi il fantasma d'un april defunto.

Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)
ha ne l'odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l'odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.


Sogniamo, poi ch'è tempo di sognare.
Sorridiamo. E la nostra primavera,
questa. A casa, più tardi, verso sera,
vo' riaprire il cembalo e sonare.

Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancóra manca
. E l'ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l'ava.

Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po' passate,

sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia
, assai nobile, anche un poco
triste;
e il suon sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell'altra stanza.

Poi per te sola io vo' comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.

Tutto sarà come al tempo lontano.
L'anima sarà semplice com'era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l'acqua al cavo de la mano.
 

G. D'Annunzio - Il ricordo rivissuto emozionalmente durante l'attesa del convegno d'amore con Elena Muti  -  Il piacere

Il Piacere - Libro primo I

  L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
  Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine del tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
  Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
  L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.

  Allora sorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora di intimità. Ella aveva molt'arte nell'accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d'un pallor d'ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
  Appena ella aveva compiuta l'opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe' vetri lottavano qualche tempo. L'odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l'abitudine, un po' crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch'eran ne' vasi, alla fine d'ogni convegno d'amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendo i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell'atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l'altro perché l'amante chino legasse i nastri delle scarpe ancóra disciolti.

  Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz'ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.
  Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d'innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili da lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme.
  La carrozza chiusa scorreva con un rumore eguale, al trotto: le muraglie delle antiche ville patrizie passavano d'innanzi agli sportelli, biancastre, quasi oscillanti, con un movimento continuo e dolce. Di tratto in tratto si presentava un gran cancello di ferro, a traverso il quale vedevasi un sentiero fiancheggiato di alti bussi, o un chiostro di verdura abitato da statue latine, o un lungo portico vegetale dove qua e là raggi di sole ridevano pallidamente.
  Elena taceva, avvolta nell'ampio mantello di lontra, con un velo su la faccia, con le mani chiuse nel camoscio. Egli aspirava con delizia il sottile odore di eliotropio esalante dalla pelliccia preziosa, mentre sentiva contro il suo braccio la forma del braccio di lei. Ambedue si credevano lontani dagli altri, soli; ma d'improvviso passava la carrozza nera d'un prelato; o un buttero a cavallo, o una torma di chierici violacei, o una mandria di bestiame.
  A mezzo chilometro dal ponte ella disse:
  - Scendiamo.
  Nella campagna la luce fredda e chiara pareva un'acqua sorgiva; e, come gli alberi al vento ondeggiavano, pareva per un'illusion visuale che l'ondeggiamento si comunicasse a tutte le cose.
  Ella disse, stringendosi a lui e vacillando sul terreno aspro:
  - Io parto stasera. Questa è l'ultima volta...
  Poi tacque; poi di nuovo parlò, a intervalli, su la necessità della partenza, su la necessità della rottura, con un accento pieno di tristezza. Il vento furioso le rapiva le parole di su le labbra. Ella seguitava. Egli interruppe, prendendole la mano e con le dita cercando tra i bottoni la carne del polso:
  - Non più! Non più!
  Si avanzavano lottando contro le folate incalzanti. Ed egli, presso alla donna, in quella solitudine alta e grave, si sentì d'improvviso entrar nell'anima come l'orgoglio d'una vita più libera, una sovrabbondanza di forze.
  - Non partire! Non partire! Io ti voglio ancóra, sempre...
  Le nudò il polso e insinuò le dita nella manica, tormentandole la pelle con un moto inquieto in cui era il desiderio di possessi maggiori.
  
Ella gli volse uno di quegli sguardi che lo ubriacavano come calici di vino. Il ponte era da presso, rossastro, nell'illuminazione del sole. Il fiume pareva immobile e metallico in tutta la lunghezza della sua sinuosità. I giunchi s'incurvavano su la riva, e le acque urtavano leggermente alcune pertiche infisse nella creta per reggere forse le lenze.
  Allora egli cominciò ad incitarla con i ricordi. Le parlava de' primi giorni, del ballo al Palazzo Farnese, della caccia nella campagna del Divino Amore, degli incontri mattutini nella piazza di Spagna lungo le vetrine degli orefici o per la via Sistina tranquilla e signorile, quando ella usciva dal palazzo Barberini seguita dalle ciociare che le offerivano nei canestri le rose.
  - Ti ricordi? Ti ricordi?
  - Sì.
  - E quella sera de' fiori, in principio; quando io venni con tanti fiori... Tu eri sola, accanto alla finestra: leggevi. Ti ricordi?
  - Sì, sì.
  - Io entrai. Tu ti volgesti appena; tu mi accogliesti duramente. Che avevi? Io non so. Posai il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu incominciasti a parlare di cose inutili, senza volontà e senza piacere. Io pensai, scorato: « Già ella non mi ama più! » Ma il profumo era grande: tutta la stanza già n'era piena. Io ti veggo ancóra, quando afferrasti con le due mani il mazzo e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La faccia risollevata pareva esangue e gli occhi parevano alterati come da una specie di ebrietà...

  - Segui, segui! - disse Elena, con la voce fievole, china sul parapetto, incantata dal fascino delle acque correnti.
  - Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo, e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora... Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle tue mani pallide su le mie tempie... Ti ricordi?

  - Sì. Segui!
  Egli seguiva, crescendo nella tenerezza. Inebriato delle sue parole, egli quasi perdeva la conscienza di ciò che diceva. Elena, con le spalle volte alla luce, andavasi chinando all'amante. Ambedue sentivano a traverso le vesti il contatto indeciso dei corpi. Sotto di loro, le acque del fiume passavano lente e fredde alla vista; i grandi giunchi sottili, come capigliature, vi si incurvavano entro ad ogni soffio e fluttuavano largamente.
  Poi non parlarono più; ma, guardandosi, sentivano negli orecchi un rumore continuo che si prolungava indefinitamente portando seco una parte dell'essere loro, come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall'intimo del loro cervello e si spandesse ad empire tutta la campagna circostante.
  Elena, sollevandosi, disse:
  - Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere acqua?
  Si diressero allora verso l'osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni carrettieri staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror dell'occaso feriva il gruppo umano ed equino, con viva forza.
 

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