G. D'Annunzio - La prosa surreale ed enigmatica del Notturno


Il Notturno nasce dalle annotazioni prese da D'Annunzio in un periodo di cecità ed immobilità forzata, in conseguenza di un incidente aereo che gli aveva provocato il distacco della retina. L'opera consta di annotazioni frammentarie, che emergono dalle percezioni della realtà circostante ( colte solo attraverso l'udito ), dalle visioni, dalle fantasie e dai ricordi che si susseguono disordinatamente ed alogicamente.
Il carattere non pianificato della composizione lascia molto spazio alle libere associazioni, ad immagini talvolta allucinatorie che si sviluppano intrecciandosi e fondendosi in un delirio tra il vigile e l'onirico. Il dato fisico e gli echi del contesto esterno sono comunque fondamentali per dar corso alle impressioni mentalmente ricreate dall'immaginario.
 


Illustrazione da un'edizione del Notturno


A. Rodin, Il pensatore


Sento il sole dietro le imposte. Sento che c'è un'afa di marzo chiara e languida sul canale: Sento che è bassa marea.
La primavera entra in me come un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, in una sonnolenza rotta di sussulti e di tremori.
Ascolto.
Lo sciaquio alla riva lasciato dal battello che passa.
I colpi sordi dell'onda contro la pietra grommosa.

Le grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le loro risse stridenti, le loro pause galleggianti.
Il battito di un motore marino.
Il chioccolìo sciocco del merlo.
Il ronzìo lùgubre d'una mosca che si leva e si posa.
Il ticchettio del pendolo che lega tutti gli intervalli.
La gocciola che cade nella vasca del bagno.
Il gemito del remo nello scalmo.
Le voci umane nel traghetto.
Il rastrello su la ghiaia del giardino.
Il pianto d'un bimbo non racconsolato.
Una voce di donna che parla e non s'intende.
Un'altra voce di donna che dice: «A che ora? a che ora?»
[...]
Dal bulbo dell'occhio, con una fitta improvvisa, rompe il giacinto violetto.
Serro i denti.  Sento le barbe" aggrovigliate nel cervello.  Sento distinte le membrane e le squame carnose.
Il gambo s'allunga.  Il fiore si compisce, s'infoltisce, s'appesantisce. E' cupo, è quasi nero.  Lo vedo.
Chi me l'ha scerpato?
Ho paura del mio grido folle.
L'umore vischioso impiastra la compressa, mi cola giù per la gota.
Il nero rispunta, con una fitta più acuta.  Rinasce e si stronca e m'invesca".  E io grido.
Rigitta ancóra, si spezza ancóra.
Oggi non ho più nell'occhio il giacinto cupo.  Oggi ho nell'occhio non so che fiore villoso, tra rossigno e gialligno, simile all'orecchio di un cuccioletto.
(...)
Come può la pioggia di marzo avere questo suono argentino, questo clangore che brilla?
Slegatemi i piedi.

Come può la pioggia di marzo aver rapito gli spiriti del tripudio alla baccante che dorme?
Slegatemi i piedi.
Per i capelli, per i lunghi lunghi capelli afferrerò la pioggia di marzo sonatrice di cròtalo.

Ecco che la grazia della mia giovinezza  entra, senza toccare il pavimento, sollevando piano piano l'arcobaleno .
E' la mia magìa, questa?
Davvero dunque la malattia è d'essenza magica?
Tutto è presente.  Il passato è presente.  Il futuro è presente.
Questa è la mia magìa.  Nel dolore e nelle tenebre, invece di diventar più vecchio, io divento sempre più giovine.

 

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