La canzone d'oltremare
I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi,
o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora.
Tu sorridi alla terra che tu predi.
Italia! Dall'ardor che mi divora
sorge un canto più fresco del mattino,
mentre di te l'esilio si colora.
Oggi più alta sei che il tuo destino,
più bella sei che la tua veste d'aria;
e di lungi il tuo vólto è più divino.
Odo nel grido della procellaria
l'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro
nel vento della landa solitaria.
Con tutte le tue prue navigo a ostro,
sognando la colonna di Duilio
che rostrata farai d'un novo rostro.
E nel cuore, oh potenza dell'esilio,
il nome tuo m'è giovine e selvaggio
come nel grido delle navi d'Ilio.
Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio,
nella città del Fiore e del Leone
quando ogni fiato era d'amor messaggio,
sì novo come questa tua stagione
maravigliosa in cui per te si canta
con la bocca rotonda del cannone.
Questa è per te la primavera santa
che - dice il dio - «d'ogni semenza è piena
e frutto ha in sé che di là non si schianta».
Oggi nova tu sei per ogni vena
sopra l'oblìo dell'onta; e nelle Sirti
ucciderai l'ultima tua sirena.
Come vivremo, o bella, per servirti?
come morremo, o fior delle contrade,
perché tu c'inghirlandi de' tuoi mirti?
Del miglior sangue fa le tue rugiade
e serba la promessa d'Oriente,
se il paradiso è all'ombra delle spade.
Siamo cinti d'oblìo. Siamo una gente
fresca e spedita, immemore dei giorni
squallidi, paziente e impaziente,
immemore dei sonni e degli scorni
quand'ella mendicava il suo preconio
dal ciompo, tempestando il pan ne' forni,
e la pace era femmina da conio
che per ruffian s'avea qualche Bonturo
e un Zanche per mezzano al mercimonio.
Giorni senz'alba, il rullo del tamburo,
lo squillo della tromba, e questa sorte
che turbina alle soglie del futuro,
vi disperdono. Tuonano sì forte
le volontà, che nella rossa aurora
non s'ode il crollo delle cose morte.
Ecco il giorno, ecco il giorno della prora
e dell'aratro, il giorno dello sprone
e del vomere. O uomini, ecco l'ora.
È venuta col rombo del tifone
pel Mar Mediterraneo, più fiera
che l'astro su la spalla d'Orione,
più colorata che la messaggera
della Celeste. E al grido «Issa! Issa!»
già tutta l'aria è sola una bandiera.
Emerge dalle sacre acque di Lissa
un capo e dalla bocca esangue scaglia
«Ricòrdati! Ricòrdati!» e s'abissa.
E il Mar Mediterraneo, che vaglia
le stirpi alla potenza ed alla gloria,
in ogni flutto freme la battaglia.
«Ch'io mi discalzi» dice la Vittoria,
simile a grande mietitrice albana,
fosca sotto la fronda imperatoria
«Ch'io mi discalzi presso la fiumana
di Rumia bella, dove il suo meandro
nutre l'olivo a Pallade romana.
Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandro
in Lebda, nella cuna di colui
che suggellò la tomba d'Alessandro.
Ch'io m'abbeveri là dove già fui,
non per l'umide argille alla caverna
onde il Lete discende i regni bui,
ma per l'aride sabbie alla cisterna
di Roma, che nell'ombra una silente
linfa conserva e una memoria eterna.
Con me, con me verso il Deserto ardente,
con me verso il Deserto senza sfingi,
che aspetta l'orma il solco e la semente;
con me, stirpe ferace che t'accingi
nova a riprofondar la traccia antica
in cui te stessa ed il tuo fato attingi,
con me là dove chi combatte abbica,
perché nella corona io ti connetta
la foglia della quercia con la spica!
Se tu mi veda oggi nell'armi eretta
sopra la prua, tu mi vedrai domani
da presso curva al suolo che t'aspetta,
quando pacata come i Decumani
acerrimi, con nude ambe le braccia,
tu rempierai di semi le tue mani.
Troppo vegliai, avverso la minaccia
del sonno e della febbre, in Ostia morta,
volta al limo del Tevere la faccia,
tra gli stipiti alzati della Porta
Marina dove a vespero s'aduna
luce fatale dalle pietre assorta,
io sola con l'anelito, se alcuna
ombra d'iddio scorgessi o udissi entrare
nella foce la Nave e la Fortuna.
Ah, se tanto vegliai sul limitare
terribile, ch'io dorma un sonno lene
e breve, sotto l'Arco d'oltremare!
Ch'io sogni il greco sogno di Cirene,
sotto l'Arco del savio Imperatore
sgombro della barbarie e delle arene,
schiuso al Trionfo, mentre dalle prore
splende la pace in Tripoli latina,
recando i dromedarii un sacro odore.
O incenso del Deserto alla marina,
profumo delle incognite contrade
fulvo come la giubba leonina;
aròmati e metalli, armenti e biade,
e Berenice dalla chioma d'oro!
Il paradiso è all'ombra delle spade.
La palma è la sorella dell'alloro.»
Dice la grande Vergine che squilla
simile a Clio nel grande aonio coro.
E per noi dalla libica Sibilla,
sotto il cielo voltato dal Titano,
la sentenza di Dio si disigilla.
Preparate l'aratro cristiano,
preparate la falce per la mèsse,
il frantoio e la macina al Soldano,
l'ascia il piccone e il palo ch'ei dilesse,
i gran magli e le macchine forbite
simili a moltitudini indefesse;
i forni vasti come le meschite
pel ferro dissepolto, le magone
ov'aspro strida nell'assidua lite;
le fornaci per cuocere il mattone
dei costruttori, in cui porrem l'impronta
che piacque a Nerva: Roma col timone.
Ogni tristezza dietro a noi tramonta.
Chi latra ancóra nella lorda fossa,
quando il fato con l'anima s'affronta?
Italia, alla riscossa, alla riscossa!
Ricanta la canzone d'oltremare
come tu sai, con tutta la tua possa,
come quando sorgeva sopra il mare
in sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio
«Arremba! Arremba!» e ne tremava il mare,
scrosciando la galèa, preso il vantaggio
e infisso il cuor del capitano al rostro,
con le vele e coi remi all'arrembaggio.
«Dienai', Dienai' e 'l Signor nostro!
Dienai', Dienai' e 'l San Sepolcro!»
cantava la galèa sul Mare Nostro.
Nel croscio de' tuoi secoli io t'ascolto.
«Dienai', Die n'aìti in mare e in terra!»
Alza nel grido il tuo raggiato vólto,
e in terra e in mare tieni la tua guerra.
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