G. D'Annunzio - La tensione del superuomo combattente
ed il suo ripiegamento interiore.

La canzone d'oltremare
da
Merope - Il libro quarto delle
 Laudi del cielo della terra e degli eroi 



 


Le Canzoni della gesta d'oltremare
.

Sono dieci canzoni di Gabriele d'Annunzio, stampate nel 1912, quale IV libro delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, intitolato a Merope. Sono state scritte in occasione della guerra di Libia, e appaiono come poesia d'occasione, anche se la loro vera occasione non è la giornalistica necessità della propaganda militare, quanto il sentimento che esaltò il poeta per essere stato annunziatore per l'Italia della sua avventura coloniale nel Mediterraneo, in vista cioè di un nuovo tempo di lotta e di conquista. Questa esaltazione, testimoniava da un lato il nazionalismo ed il patriottismo dannunziano, riallacciando la sua produzione ai motivi meno autentici della sua poesia, quelli celebratori e superumani, proprio ora che si affaccianao nella sua poetica toni segreti d'ansia di mistero e d'ombra. 

 

La canzone d'oltremare

I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi,
o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora.
Tu sorridi alla terra che tu predi.
Italia!
Dall'ardor che mi divora
sorge un canto più fresco del mattino,
mentre di te l'esilio si colora.
Oggi più alta sei che il tuo destino,
più bella sei che la tua veste d'aria;
e di lungi il tuo vólto è più divino.

Odo nel grido della procellaria
l'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro
nel vento della landa solitaria.

Con tutte le tue prue navigo a ostro,
sognando la colonna di Duilio
che rostrata farai d'un novo rostro.
E nel cuore, oh potenza dell'esilio,
il nome tuo m'è giovine e selvaggio
come nel grido delle navi d'Ilio.

Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio,
nella città del Fiore e del Leone
quando ogni fiato era d'amor messaggio,
sì novo come questa tua stagione
maravigliosa in cui per te si canta
con la bocca rotonda del cannone.

Questa è per te la primavera santa
che - dice il dio - «d'ogni semenza è piena
e frutto ha in sé che di là non si schianta».
Oggi nova tu sei per ogni vena
sopra l'oblìo dell'onta; e nelle Sirti
ucciderai l'ultima tua sirena.
Come vivremo, o bella, per servirti?
come morremo, o fior delle contrade,
perché tu c'inghirlandi de' tuoi mirti?

Del miglior sangue fa le tue rugiade
e serba la promessa d'Oriente,
se il paradiso è all'ombra delle spade.
Siamo cinti d'oblìo. Siamo una gente
fresca e spedita, immemore dei giorni
squallidi, paziente e impaziente,
immemore dei sonni e degli scorni
quand'ella mendicava il suo preconio
dal ciompo, tempestando il pan ne' forni,
e la pace era femmina da conio
che per ruffian s'avea qualche Bonturo
e un Zanche per mezzano al mercimonio.

Giorni senz'alba, il rullo del tamburo,
lo squillo della tromba, e questa sorte
che turbina alle soglie del futuro,
vi disperdono. Tuonano sì forte
le volontà, che nella rossa aurora
non s'ode il crollo delle cose morte.
Ecco il giorno, ecco il giorno della prora
e dell'aratro, il giorno dello sprone
e del vomere. O uomini, ecco l'ora.

È venuta col rombo del tifone
pel Mar Mediterraneo, più fiera
che l'astro su la spalla d'Orione,
più colorata che la messaggera
della Celeste. E al grido «Issa! Issa!»
già tutta l'aria è sola una bandiera.
Emerge dalle sacre acque di Lissa
un capo e dalla bocca esangue scaglia
«Ricòrdati! Ricòrdati!» e s'abissa.
E il Mar Mediterraneo, che vaglia
le stirpi alla potenza ed alla gloria,
in ogni flutto freme la battaglia.

«Ch'io mi discalzi» dice la Vittoria,
simile a grande mietitrice albana,
fosca sotto la fronda imperatoria
«Ch'io mi discalzi presso la fiumana
di Rumia bella, dove il suo meandro
nutre l'olivo a Pallade romana.

Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandro
in Lebda, nella cuna di colui
che suggellò la tomba d'Alessandro.
Ch'io m'abbeveri là dove già fui,
non per l'umide argille alla caverna
onde il Lete discende i regni bui,
ma per l'aride sabbie alla cisterna
di Roma, che nell'ombra una silente
linfa conserva e una memoria eterna.
Con me, con me verso il Deserto ardente,
con me verso il Deserto senza sfingi,
che aspetta l'orma il solco e la semente;
con me, stirpe ferace che t'accingi
nova a riprofondar la traccia antica
in cui te stessa ed il tuo fato attingi,
con me là dove chi combatte abbica,
perché nella corona io ti connetta
la foglia della quercia con la spica!

Se tu mi veda oggi nell'armi eretta
sopra la prua, tu mi vedrai domani
da presso curva al suolo che t'aspetta,
quando pacata come i Decumani
acerrimi, con nude ambe le braccia,
tu rempierai di semi le tue mani.
Troppo vegliai, avverso la minaccia
del sonno e della febbre, in Ostia morta,
volta al limo del Tevere la faccia,
tra gli stipiti alzati della Porta
Marina dove a vespero s'aduna
luce fatale dalle pietre assorta,
io sola con l'anelito, se alcuna
ombra d'iddio scorgessi o udissi entrare
nella foce la Nave e la Fortuna.

Ah, se tanto vegliai sul limitare
terribile, ch'io dorma un sonno lene
e breve, sotto l'Arco d'oltremare!
Ch'io sogni il greco sogno di Cirene,
sotto l'Arco del savio Imperatore
sgombro della barbarie e delle arene,
schiuso al Trionfo, mentre dalle prore
splende la pace in Tripoli latina,
recando i dromedarii un sacro odore.

O incenso del Deserto alla marina,
profumo delle incognite contrade
fulvo come la giubba leonina;
aròmati e metalli, armenti e biade,
e Berenice dalla chioma d'oro!
Il paradiso è all'ombra delle spade.
La palma è la sorella dell'alloro.»
Dice la grande Vergine che squilla
simile a Clio nel grande aonio coro.

E per noi dalla libica Sibilla,
sotto il cielo voltato dal Titano,
la sentenza di Dio si disigilla.
Preparate l'aratro cristiano,
preparate la falce per la mèsse,
il frantoio e la macina al Soldano,
l'ascia il piccone e il palo ch'ei dilesse,
i gran magli e le macchine forbite
simili a moltitudini indefesse;
i forni vasti come le meschite
pel ferro dissepolto, le magone
ov'aspro strida nell'assidua lite;
le fornaci per cuocere il mattone
dei costruttori, in cui porrem l'impronta
che piacque a Nerva: Roma col timone.
Ogni tristezza dietro a noi tramonta.
Chi latra ancóra nella lorda fossa,
quando il fato con l'anima s'affronta?
Italia, alla riscossa, alla riscossa!
Ricanta la canzone d'oltremare
come tu sai, con tutta la tua possa,
come quando sorgeva sopra il mare
in sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio
«Arremba! Arremba!» e ne tremava il mare,
scrosciando la galèa, preso il vantaggio
e infisso il cuor del capitano al rostro,
con le vele e coi remi all'arrembaggio.

«Dienai', Dienai' e 'l Signor nostro!
Dienai', Dienai' e 'l San Sepolcro!»
cantava la galèa sul Mare Nostro.
Nel croscio de' tuoi secoli io t'ascolto.
«Dienai', Die n'aìti in mare e in terra!»
Alza nel grido il tuo raggiato vólto,
e in terra e in mare tieni la tua guerra.

 

Il Notturno - Il ferimento e l'esperienza del dolore


Nel 1915 D'Annunzio ritorna in Italia e partecipa attivamente alla propaganda interventista col discorso a Quarto per la Sagra dei Mille. Durante la guerra, alla quale partecipò come volontario, ottenne vari riconoscimenti per le sue imprese spericolate. In seguito a un incidente occorsogli durante un atterraggio di fortuna, perse un occhio. Costretto all’immobilità per un certo periodo, scrisse il Notturno, una serie di prose ritenute tra le sue creazioni più sincere e più intense.


Il Notturno ha una particolare fisionomia nel panorama della produzione dannunziana: è il testo in cui in modo particolare risultano evidenti una componente riflessiva e meditativa, il superamento della tensione superomistica che pervade quasi tutte le altre opere di D'Annunzio, l'esperienza del dolore vissuta come occasione di bilancio della propria vita e di scoperta degli altri. In questa prospettiva il passo è particolarmente significativo.
 

Ferito tra i feriti

Qualcuno nella stanza attigua legge non so che, ad alta voce.  Ho inteso frusciare il foglio, ma non seguo le parole se non a tratti.
Ho il capo più basso dei piedi, i piedi congiunti, i gomiti contro i fianchi, la bocca aperta e arida, il cuore ambasciato.  Comincio a intorpidirmi nel mio sudore penoso.
Odo il nome di Patria; e un gran brivido mi attraversa.
Odo di nuovo il nome di Patria; e il medesimo brivido mi passa per...tutte le midolle.

Dal mio torpore, dal mio sudore, dal mio patimento, dal mio tedio, dalla mia disperazione nasce un bene che non si può significare.

«La pupilla dell'occhio destro non si dice della cosa più cara che alcuno abbia?  Tu hai dato la pupilla dell'occhio destro a colei che ami: la tua pupilla di veggente, il tuo lume di poeta.»

L'alterezza è sempre pronta a insorgere, ahimè.  Una mano dolce e severa la raumilia.

Vengono intorno al mio letto quei soldati ciechi che si accalcarono intorno alla mia branda in quell' ospedaletto da campo dove feci la prima sosta.  C'è chi ha un solo occhio bendato; c'è chi ha una larga benda intorno al capo chiazzata di sangue.  C'è chi mi guarda con l'occhio scoperto, e lacrima.  C'è chi, non potendomi vedere, timidamente mi tocca, e trema.  Mi sono fratelli.  Nessuno mai mi fu tanto vicino come questi mi sono.
Era un mattino grigio e crudo. Il tuono dei mortai scoteva il giorno intorno al sole come il vento sfalda la cenere d'un ceppo che si consuma.  Cumuli lustri di carbone sotto alberi spogli, su la riva dell' Ausa nericcia come una gora di gualchiere. Nulla più.

Alla soglia dell'ospedaletto il bianco delle fasce trapassate dal sangue. la povera carne messa fuori di combattimento, la bocca inquieta di chi non vede, l'odore tenace della trincea e della caverna, lo stupore della battaglia abbuiata.  Nulla più.
I feriti mormorarono il mio nome e s'accalcarono nell'andito, commossi.  Invece dell'elmetto di ferro portavano il turbante di cotone e di garza.  Qualcuno si chinava in su, per cercare di scorgermi di sotto alla benda.  Sorridevo, a testa alta, come nel camminamento battuto, dicendo: “Coraggio figliuoli!»
Uno, che aveva tutt'e due li occhi fasciati mi chiamò col mio nome di battesimo.  Era un soldato della mia terra d'Abruzzi.  Balbettava, voleva sapere che avessi.

Ero stanco e digiuno, allo stremo della mia forza.  Prima di ammettermi nella camera oscura per esaminarmi, il medico mi fece distendere sopra una branda coperta d'un lenzuolo di bucato.  Mi coricai supino.  L'onda violacea palpitava nell'occhio perduto, e l'altro s'abbagliava nella vertigine.  Socchiusi le palpebre.  Con un tonfo di disperazione nel petto, udii passare su l'asilo il rombo d'un'ala da battaglia.  Il rombo portò via il rimanente della mia forza.  Mi diceva: «Non più!  Non più!  Non più!» 

Allora lo scalpiccìo e il mormorìo mi avvertirono che i feriti forzavano la soglia. Allora i feriti a un occhio si appressarono, e stettero accanto alla branda.  I feriti a tutt'e due gli occhi vennero anch'essi, e rimasero intorno alla branda.  Tacevano.  Li udivo respirare, sospirare.  Travedevo quelli del lato sinistro, l'inchinarsi pietoso dei loro turbanti di lino, le loro bocche meste, le loro mani rassegnate.
Avevo compassione di loro com'essi avevano compassione di me.  Ero a loro compagno; erano la mia gente.  Ero nudo di ogni privilegio, senza singolarità, senza rilievo, senz'altra gloria che il mio umile sacrifizio.  Non soffrivo di me ma di non poter più combattere, ma di non aver più le mie ali, le mie armi, il mio compito.  Ero messo fuori della guerra, allontanato dal fuoco, escluso dalla fucina dove si fondeva la sostanza nuova.

Com'era il mio viso?  Toccavo in quel punto il fondo della tristezza e della dolcezza.  Nulla mai nella vita m'aveva fatto tanto male e tanto bene.  Qual era il mio aspetto paziente, su quel lenzuolo, su quella branda dove tanti altri semplici soldati avevano giaciuto?  Mi sentivo mancare
Allora un d'essi fece, piano, scotendo il capo bendato, con l'accento schietto del suo paese, con una pietà attonita, uno fece: «Questo è quell'uomo!» E non dimenticherò mai la sua voce.  E, se sapessi dove ritrovarla, dovunque la cercherei.
 

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