La vicenda si svolge sul finire
dell’ 800 nel mondo dell'alta aristocrazia romana. Il protagonista è il
conte Andrea Sperelli tutto penetrato e imbevuto di
spirito e gusto artistico ( estetismo ), avido di amore e
di piacere ( edonismo ), amante raffinato ed elegantissimo, circondato di lusso, ma
dalla vita densa di
contraddizioni e senza alcuna forza morale e volontà, educato dal padre
all'indifferenza per i principi etici
La narrazione prende le mosse dal
momento in cui Andrea si prepara a ricevere nella sua casa
Elena Muti la
donna al quale è stato legato da una passione travolgente, sperando di
riannodare la relazione, e che due anni prima aveva improvvisamente deciso
di lasciarlo, senza spiegazioni.
Ma quando la donna giunge da lui e gli dice che non può più essere la sua amante
il racconto ricostruisce la storia di Andrea e Elena seguendo il filo dei
ricordi.
I due si erano conosciuti in casa
della marchesa d’ Ateleta immediatamente attratti, immersi in un mondo
magico e passionale, attraversato dalla continua tensione, dalla ricerca del piacere
e
dalla vita mondana. Improvvisamente però
Elena era scomparsa e riapparsa
due anni dopo sposata con un ricchissimo
lord inglese. Nel frattempo per
alleviare le pene d’amore Andrea si era dato a una vita dissoluta passando
da un amore a un altro cercando una donna che gli ricordasse Elena.
Giunto a diverbio con un giovane amico a causa di un’amante contesa lo
affronta in duello e resta gravemente ferito.
Convalescente, ospitato nella
villa della cugina inizia la fase spirituale e purificatrice.
A contatto con la natura aveva ripensato all’assurdità della propria
esistenza e aveva trovato l’unico rifugio e l'unica apparente vera meta
della propria vita nella ricerca estetica e nella passione per l'Arte.
Durante questa fase incontra Maria Ferres donna dall’ aspetto nobile e
dall’animo purissimo e sensibile, moglie di un diplomatico guatemalteco. In
lei vede dapprima il simbolo della sua purificazione, ma in un secondo
momento tra i due
il rapporto si trasforma in amore, grazie al comune legame per la bellezza
artistica e musicale.
I due tornano poi a Roma dove
Andrea ricomincia ad essere ossessionato dall’ idea di riallacciare il
rapporto con Elena, la quale
però ad un appuntamento notturno non si presenta, facendo intuire un suo
tradimento. Andrea decide di rivolgere tutta la sua attenzione a
Maria,
la quale gli cede, pur vivendo tragicamente la relazione, turbata dalla
gelosia per Elena. Uno scandalo costringe il marito di Maria ad abbandonare
la città e lei deve seguirlo; Andrea scopre che Elena ha un nuovo amante e
nell’ultimo convegno d’amore con Maria si lascia fuggir il nome di
Elena.
Il romanzo termina con Maria che fugge inorridita,
mentre avviene la vendita all’asta dei
suoi mobili e Andrea, solo e sconfitto, visita le sale ormai vuote.
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Libro
I
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San
Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi
primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle
domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una
moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il
romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via
Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne'
vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe
di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato
slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che
sorgon dietro la Vergine del tondo di Sandro
Botticelli alla Galleria
Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma:
i
fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio
dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante.
Tutte le cose a
torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro
ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e
sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da
Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano
scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce
entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento
riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la
trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora.
Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una
delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un libro,
ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo
sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente
ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna
con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per
ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il
mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo
che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue
azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a
quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo
un'ora di intimità. Ella aveva molt'arte nell'accumulare gran pezzi di legno
su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e
rovesciava un po'
indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto
un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre
pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i
cavi, soffuso d'un pallor d'ambra che richiamava al pensiero la Danae del
Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche, le mani e
i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di
Dafne
in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l'opera, le legna conflagravano e rendevano un
sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato
crepuscolo entrante pe' vetri lottavano qualche tempo. L'odore del ginepro
arso dava al capo uno stordimento leggero.
Elena pareva presa da una specie
di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l'abitudine, un po'
crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch'eran ne' vasi, alla fine
d'ogni convegno d'amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita,
mettendo i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella
devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell'atto che ogni volta ella
faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l'altro
perché l'amante chino legasse i nastri delle scarpe ancóra disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato.
Da tutte le cose che Elena aveva
guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo
lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz'ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si
sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un
poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato.
Tutte le cose avrebbero
riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille
ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data
era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea.
Egli ora, aspettando,
poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza
infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d'innanzi ora
in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono
essere visibili da lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro
forme..........
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Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un
abilissimo apparecchiatore. Ma
nell'artificio quasi sempre egli metteva tutto sé;
vi spendeva la ricchezza
del suo spirito largamente; vi si obliava così che non
di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua
stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d'un incantatore
il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.
Tutto, intorno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di
vita che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d'una
religione, gli strumenti d'un culto, ogni figura su cui si accumuli la
meditazione umana o da cui l'imaginazione umana poggi a una qualche ideale
altezza. Come una fiala rende dopo lunghi anni il profumo dell'essenza che
vi fu un giorno contenuta, così certi oggetti conservavano pur qualche vaga
parte dell'amore onde li aveva illuminati e penetrati quel fantastico
amante. E a lui veniva da loro una incitazione tanto forte ch'egli n'era
turbato talvolta come dalla presenza d'un potere soprannaturale.
Pareva, in vero, ch'egli conoscesse direi quasi la
virtualità afrodisiaca
latente in ciascuno di quegli oggetti e la sentisse in certi momenti
sprigionarsi e svolgersi e palpitare intorno a lui. Allora, s'egli era nelle
braccia dell'amata, dava a sé stesso ed al corpo ed all'anima di lei una di
quelle supreme feste il cui solo ricordo basta a rischiarare una intiera
vita. Ma s'egli era solo, un'angoscia grave lo stringeva, un rammarico
inesprimibile, al pensiero che quel grande e raro apparato d'amore si
perdeva inutilmente.
Inutilmente! Nelle alte coppe fiorentine le rose, anch'esse aspettanti,
esalavano tutta la intima lor dolcezza. Sul divano, alla parete, i versi
argentei in gloria della donna e del vino, frammisti così armoniosamente
agli indefinibili colori serici nel tappeto persiano del XVI secolo,
scintillavano percossi dal tramonto, in un angolo schietto disegnato dalla
finestra, e rendevan più diafana l'ombra vicina, propagavano un bagliore ai
cuscini sottostanti. L'ombra, ovunque, era diafana e ricca, quasi direi
animata dalla vaga palpitazion luminosa che hanno i santuarii oscuri ov'è un
tesoro occulto. Il fuoco nel camino crepitava; e ciascuna delle sue fiamme
era, secondo l'imagine di Percy Shelley, come una gemma disciolta in una
luce sempre mobile. Pareva all'amante che ogni forma, che ogni colore, che
ogni profumo rendesse il più delicato fiore della sua essenza, in quell'attimo.
Ed ella non veniva! Ed ella non veniva!
Sorse allora nella mente di lui, per la prima volta, il pensiero del
marito.
Elena non era più libera. Aveva rinunziato alla bella libertà della
vedovanza, passando in seconde nozze con un gentiluomo d'Inghilterra, con un
Lord Humphrey Heathfield, alcuni mesi dopo l'improvvisa partenza da Roma.
Andrea infatti si ricordava di aver visto l'annunzio del matrimonio in una
cronaca mondana, nell'ottobre del mille ottocento ottanta cinque; e d'aver
sentito fare su la nuova Lady Helen Heathfield una infinità di commenti per
tutte le villeggiature di quell'autunno romano. Anche si ricordava di avere
incontrato una decina di volte, nel precedente inverno, quel Lord Humphrey
ai sabati della principessa Giustiniani-Bandini e nelle vendite pubbliche.
(...)
Qual parte aveva quell'uomo nella vita di Elena? Da quali legami, oltre
che dalle nozze, era Elena legata a colui?
Quali transformazioni aveva
operato in lei il contatto materiale e spirituale del marito?
Gli enigmi sorsero d'un tratto nell'animo di Andrea, tumultuariamente. In
mezzo al tumulto, gli apparve netta e precisa l'imagine del connubio fisico
di que' due; e il dolore fu così insopportabile
ch'egli si levò col balzo
istintivo d'un uomo il quale si senta d'improvviso ferire in un membro
vitale. Attraversò la stanza, uscì nell'anticamera, origliò alla porta
ch'egli aveva lasciata socchiusa. Eran quasi le cinque meno un quarto.
Dopo un poco, egli udì su per le scale un passo, un fruscìo di vesti, un
respiro affaticato. Certo, una donna saliva. Tutto il sangue gli si mosse
con tal veemenza, che, snervato dalla lunga aspettazione, egli credeva di
smarrire le forze e di cadere. Ma pure udì il suono del piede feminile su
gli ultimi gradini, un respiro più lungo, il passo sul pianerottolo, su la
soglia. Elena entrò.
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Libro III, cap. II
...Quella quiete gelida e
precisa gli ricondusse lo spirito alla realità, gli ridiede la conscienza
vera del suo stato. Egli richiuse, e tornò a sedersi.
L'enigma di Elena lo
attrasse ancóra; le interrogazioni gli risorsero in tumulto, lo incalzarono.
Ma ebbe la forza di ordinarle, di coordinarle, di esaminarle a una a una,
con una strana lucidità. Come più procedeva nell'analisi, più acquistava di
lucidità; e di quella sua crudele psicologia godeva come d'una vendetta.
Infine, gli pareva d'aver denudata un'anima, d'aver penetrato un mistero.
Gli pareva, infine, di possedere Elena assai più a dentro che non al tempo
dell'ebbrezza.
Chi era ella mai?
Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario. A similitudine
di tutte le creature avide di piacere, ella aveva per fondamento del suo
essere morale uno smisurato egoismo. La sua facoltà precipua, il suo
asse
intellettuale, per dir così, era
l'imaginazione: una
imaginazione romantica,
nudrita di letture diverse, direttamente dipendente dalla matrice,
continuamente stimolata dall'isterismo. Possedendo una certa intelligenza,
essendo stata educata nel lusso d'una casa romana principesca, in quel lusso
papale fatto di arte e di storia, ella erasi velata d'una vaga incipriatura
estetica, aveva acquistato un gusto elegante; ed avendo anche compreso il
carattere della sua bellezza, ella cercava, con finissime
simulazioni e con
una mimica sapiente, di accrescerne la spiritualità, irraggiando una
capziosa luce d'ideale.
Ella portava quindi, nella comedia umana, elementi pericolosissimi; ed
era occasion di ruina e di disordine più che s'ella facesse publica professione
d'impudicizia.
Sotto l'ardore della imaginazione, ogni suo capriccio prendeva
un'apparenza patetica. Ella era la donna delle passioni fulminee, degli incendii improvvisi.
Ella copriva di fiamme eteree i bisogni erotici della
sua carne e sapeva transformare in alto sentimento un basso appetito...
Così, in questo modo, con questa ferocia, Andrea giudicava la donna un
tempo adorata. Procedeva, nel suo esame spietato, senza arrestarsi d'innanzi
ad alcun ricordo più vivo. In fondo ad ogni atto, a ogni manifestazione
dell'amor d'Elena trovava l'artifizio, lo studio, l'abilità, la mirabile
disinvoltura nell'eseguire un tema di fantasia, nel recitare una parte dramatica, nel combinare una scena straordinaria. Egli non lasciò intatto
alcuno de' più memorabili episodii: né il primo incontro al pranzo di casa
Ateleta, né la vendita del cardinale Immenraet, né il ballo del'Ambasciata
di Francia, né la dedizione improvvisa nella stanza rossa del palazzo
Barberini, né il congedo su la via Nomentana nel tramonto di marzo. Quel
magico vino che prima lo aveva inebriato ora gli pareva una mistura perfida.
Ben però, in qualche punto, egli rimaneva perplesso, come se,
penetrando
nell'anima della donna, egli penetrasse nell'anima sua propria e ritrovasse
la sua propria falsità nella falsità di lei; tanta era l'affinità delle due
nature. E a poco a poco il disprezzo gli si mutò in una indulgenza ironica,
poiché egli comprendeva. Comprendeva tutto ciò che ritrovava in sé
medesimo.
Allora, con fredda chiarezza, definì il suo intendimento.
Tutte le particolarità del colloquio avvenuto nel giorno di San Silvestro,
più d'una settimana innanzi, tutte gli tornarono alla memoria; ed egli si
piacque a riconstruir la scena, con una specie di
cinico sorriso interiore,
senza più sdegno, senza concitazione alcuna, sorridendo di Elena, sorridendo
di sé medesimo. -
Perché ella era venuta? Era venuta perché quel
convegno
inaspettato, con un antico amante, in un luogo noto, dopo due anni, le era
parso strano,
aveva tentato il suo spirito avido di commozioni rare,
aveva tentata la sua fantasia e la sua curiosità. Ella voleva ora vedere a
quali nuove situazioni e a quali nuove combinazioni di fatti l'avrebbe
condotta questo giuoco singolare. L'attirava forse la novità di un amor
platonico con la persona medesima ch'era già stata oggetto d'una passion
sensuale. Come sempre, ella erasi messa con un certo ardore all'imaginazione
d'un tal sentimento; e poteva anche darsi ch'ella credesse d'esser sincera e
che da questa imaginata sincerità avesse tratto gli accenti di profonda
tenerezza e le attitudini dolenti e le lacrime. Accadeva in lei un fenomeno
a lui ben noto. Ella giungeva a creder verace e grave un moto dell'anima
fittizio e fuggevole; ella aveva, per dir così, l'allucinazione sentimentale
come altri ha l'allucinazione fisica. Perdeva la conscienza della sua
menzogna; e non sapeva più se si trovasse nel vero o nel falso, nella
finzione o nella sincerità.
Ora, a questo punto era lo stesso fenomeno morale che ripetevasi in lui di
continuo. Egli dunque non poteva con giustizia accusarla. Ma, naturalmente,
la scoperta toglieva a lui ogni speranza d'altro piacere che non fosse
carnale. Omai la diffidenza gli impediva qualunque dolcezza d'abbandono,
qualunque ebbrezza dello spirito. Ingannare una donna sicura e fedele,
riscaldarsi a una grande fiamma suscitata con un baglior fallace,
dominare
un'anima con l'artifizio, possederla tutta e farla vibrare come uno stromento, habere non haberi, può essere un alto diletto. Ma
ingannare sapendo d'essere ingannato è una sciocca e sterile fatica, è un
giuoco noioso e inutile.
Egli doveva dunque ottener che Elena rinunziasse all'idea di fraternizzare
e gli tornasse fra le braccia come un tempo.
Egli doveva riprendere il
possesso materiale della bellissima donna, trarre dalla bellezza di lei il
maggior possibile godimento, e quindi esserne per sempre liberato dalla
sazietà. Ma in questa impresa conveniva usar prudenza e pazienza. Già nel
primo colloquio l'ardor violento aveva fatto cattiva prova. Appariva
manifesto ch'ella fondava il suo progetto di impeccabilità su la famosa
frase: « Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo? » La grande
macchina platonica era mossa da questo santo orrore delle mescolanze. Poteva
anche darsi che, in fondo in fondo, questo orrore fosse sincero. Quasi tutte
le donne d'amorosa vita, se giungono a concluder nozze, affettano ne' primi
tempi del matrimonio una feroce purità e si pongono a far professione di
mogli caste con leale proposito. Poteva quindi anche darsi che Elena fosse
presa dal comune scrupolo. Nulla di peggio, allora, che assalirla di fronte
e apertamente urtare la sua novella virtù. Invece, conveniva secondarla
nelle aspirazioni spirituali, accettarla come « la sorella più cara, l'amica
più dolce » , inebriarla d'ideale, platonizzando con accortezza; e a poco a
poco trarla dalla candida fraternità a un'amicizia voluttuosa, e da
un'amicizia voluttuosa alla total resa del corpo. Probabilmente queste
transizioni sarebbero state rapidissime. Tutto dipendeva dalla
circostanza....
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