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Il decennio della presidenza Omodei Zorini ( 1965 - 1975 )


Il Preside Omodei Zorini riceve "Il Mosaico" dal redattore Mario Martinotti. Con loro alcuni professori della scuola.
Si riconoscono i docenti  Giovanni Mazzeri, Mons. Giorgio Sarasso, Emilio Raisaro, Piero Magrassi,  don Giovanni Musazza.
 

Alle soglie del decennio Settanta - Ottanta da parte governativa i provvedimenti, invocati da più parti e promessi, per la riforma dell’istruzione superiore non vengono attuati e pur ripetendo continuamente che essa andava modificata nell’articolazione delle materie e nelle varie specializzazioni, di fatto non si rinnovano neppure i programmi e le metodologie didattiche ormai più obsolete. Negli Istituti tecnici superiori, in particolare, le contraddizioni segnano il passo: da un lato cresce lo scarto di contenuti tra i programmi di studio ministeriali e tutte le altre proposte e strumenti culturali e tecnici di cui si può disporre fuori del contesto scolastico; d’altro lato il mercato del lavoro non riesce più ad assorbire come nel passato tutti i nuovi diplomati, giacché l’indice di scolarità, negli Istituti tecnici aveva registrato un notevole incremento. 
Le contraddizioni in cui si era agitata violentemente la scuola dopo il Sessantotto-Sessantanove avevano trovano risposte convulse nelle lotte studentesche che coinvolsero in tutta l’Italia l’Università, ma anche la Scuola media superiore: dopo i Licei si erano mossi per primi proprio gli Istituti tecnici che lamentavano arretratezze pesanti nella formazione professionale.
 


Il «Cavour» conobbe, dopo la mite bonaccia ultrasecolare, una stagione inquieta che coincise con gli anni centrali della presidenza di Pietro Omodei Zorini, dal 1965 al 1975, il periodo effettivamente più acceso del dibattito in tutta Italia. Il nuovo preside, cui «Il Mosaico» n. 4 anno II aveva dedicato la prima pagina, giungeva all’Istituto dove si era diplomato ragioniere nel 1925. Dopo la laurea in discipline economiche, nel 1942 era stato preside incaricato alla Scuola tecnica commerciale «Lanino» con annessa Scuola d’avviamento professionale. Dal 1959 al 1965 aveva  ricoperto l’incarico di presidenza del «Bona» di Biella, allora altro Istituto di eccellenza della provincia per l’indirizzo commerciale mercantile specializzato per l’amministrazione industriale.
All’epoca Omodei Zorini era direttore del Consorzio Provinciale per l’istruzione tecnica di Vercelli. Dunque un uomo di larga esperienza. In apertura della sua presidenza al «Cavour» sottolineava,  sul quindicinale, quella che riteneva dovesse essere il punto di forza della gestione di una scuola: «ciascuno sia persuaso di essere un elemento indispensabile alla composizione del disegno».
Nella primavera scorsa Omodei Zorini è mancato. Non si era mai perso la cerimonia di consegna dei premi di fine anno all’Istituto, sebbene già avanti negli anni. Il “suo” Istituto, dove tutti, a buon diritto, lo chiamavano ancora preside.
Lieto di ritornarvi sempre, antico amabile cerimoniere di un’etichetta scomparsa in un mondo scolastico quasi del tutto diverso, cui tuttavia rimase legato saldamente fino all’ultimo per antica disciplina e consuetudine. E’ stato il primo preside della carriera scolastica di vari docenti della generazione che ora si appresta al pensionamento: un’altra delle ragioni per ricordarlo qui con una speciale nostalgia. Gli toccarono anni delicati, a cominciare dalla questione dell’edilizia scolastica.
 


Il contesto degli anni Sessanta

Un articolo del «Mosaico» d’allora fa il punto della situazione all’Istituto intorno alla metà degli anni Sessanta: si superano i 600 iscritti e le capacità dell’edificio risultano nettamente insufficienti. Il Gabinetto di fisica viene sacrificato per una ventina di posti banco; così pure il Gabinetto di scienze: addio gloriose Aule speciali con laboratorio. Per l’anno successivo (il 1966) si prevedeva un incremento del 10%.
Il Comune di Vercelli sembra che si fosse impegnato a compiere uno studio per «portare alla pari l’indice della popolazione scolastica con quella dell’occupazione di superficie». Ma i problemi non erano sicuramente tutti lì.

Non è questa la sede per riconsiderare più dettagliatamente le vicende della scuola italiana di quegli anni, ma è necessario, per capirne meglio il clima, riconoscere che la scuola si stava avviando a divenire terreno di una contrattazione sempre più difficile.
Già in pieno 1968 il Governo, ormai prossimo a riconoscere la gravità della situazione, prospetta «la possibilità di incontri e di leale collaborazione (con l’opposizione) per consentire il raggiungimento di soluzioni concrete, nel comune interesse ad assicurare al paese una scuola funzionale ». Le Confederazioni sindacali e la sinistra strappano alcune concessioni, ma non una riforma sostanziale, caldeggiata tra l’altro anche dalla Confindustria nelle indicazioni politiche sulla scuola. La Confindustria rilevava l’urgenza di «una completa riconsiderazione del ruolo della scuola […] l’educazione alla gestione non sia appannaggio della istituzione scuola, ma avvenga oltre l’Università […]» candidandosi inoltre come possibile interlocutore per l’integrazione dell’inefficiente sistema formativo tradizionale con «un impegno dell’organizzazione imprenditoriale privata, in collaborazione con aziende a partecipazione statale». Se il Comitato Tecnico per la Programmazione scolastica istituito dal Ministero nel 1970 e presieduto da Gozzer propone un nuovo piano per la scuola, l’allora ministro Misasi pensa di dribblare il problema facendo leva sulla partecipazione diretta della famiglia, su quella degli studenti, sulla “sensibilità dei docenti “ e sulle loro “delicate responsabilità” per quello che viene eufemisticamente definito il “normale funzionamento della scuola”, di una scuola in realtà vicina allo sfascio. 

Il Ministro insomma delega ai Collegi dei docenti ogni responsabilità di gestione sia dei rapporti con le famiglie, sia delle assemblee studentesche, sia dei gruppi di studio.  Questa “democratizzazione” consiste soprattutto nel decentrare a presidi e docenti il nodo fondamentale: i rapporti tra le richieste studentesche e il loro controllo burocratico e politico.
Ma inevitabilmente la posizione ministeriale apre la strada ad una ulteriore drammatica spaccatura all’interno della scuola: i documenti ministeriali sembrano fatti apposta per prestarsi a letture, interpretazioni, risposte ambigue. Si registrano in merito esperimenti veramente democratici condotti da docenti e presidi sia in materia di programmazione che di contrattualità con gli studenti, ma anche reazioni rigide che delegano la soluzione dei problemi agli interventi della gerarchia statale (magistratura, forze di polizia).



Va tuttavia riconosciuto che il potere politico a cominciare dalla fine degli anni Settanta si pose il problema di attuare alcuni oggettivi interventi, specialmente riguardo alla stato giuridico del personale. Tuttavia una scuola fortemente ideologizzata caratterizzò il dibattito di quegli anni, sostenuto da una massiccia sindacalizzazione. 
Ora una conflittualità così accesa all’Istituto tecnico non c’è stata.
Tuttavia va ricordato che nei primi anni Settanta il «Cavour» (come altri Istituti cittadini e provinciali) hanno conosciuto “scioperi” degli allievi, tentativi più o meno organizzati di autogestione, volantinaggi frequenti, insomma espressioni di contestazione diffusa che hanno messo sicuramente alla prova una presidenza tradizionalista come quella di Omodei Zorini.
Dalla testimonianza orale dell’ex allievo Cesare Manachino (poi docente di Materie letterarie all’Istituto nella seconda metà degli anni Ottanta) si apprende che il Comitato degli studenti del «Cavour» nel 1969 aveva avanzato queste richieste alla presidenza: il diritto di tenere assemblee (ancora non erano stati varati i Decreti delegati, che risalgono al 1974), il voto palese nelle interrogazioni, l’autogestione dei cosiddetti “controcorsi” ovvero forme di tutoraggio pomeridiano gestito dagli stessi alunni per i compagni di classe in difficoltà: una sorta di Progetto “Peer Education” ante litteram, che sollevava perfino il problema spinoso dell’autovalutazione, per altro all’epoca tentata in alcune grandi città e specialmente in una terza Liceo di Cagliari , come testimoniano gli articoli Gli studenti vercellesi e la contestazione e Autovoto e riforme del quindicinale d’Istituto.

Il 1969 era stato un anno importante anche per altre ragioni: la riforma dell’esame di maturità, il prolungamento quinquennale dei Professionali e soprattutto la liberalizzazione dell’accesso alle facoltà universitarie.
Il «Cavour», l’Itis e il Liceo scientifico erano gli istituti più impegnati politicamente: gli studenti dei Collettivi avevano organizzato le prime forme di “sciopero” di quegli anni (astensioni dalle lezioni  sporadiche ed occasionali c’erano stati  anche nel passato, ad esempio per i fatti di Ungheria).
Alla fine degli anni Sessanta l’Istituto prese parte a manifestazioni di protesta per il caso Panagulis, e soprattutto a quelle a sostegno dei lavoratori vercellesi della Montefibre e del Faini. Nel corteo sfilarono insieme studenti e operai reclamando che si ponesse rimedio ai problemi dell’occupazione e dell’industrializzazione nella città.
Bisogna ricordare che proprio alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta alcune industrie che in passato avevano caratterizzato il tessuto socio-economico cittadino attraversano pesanti momenti di crisi che culmineranno in quegli stessi anni o nel decennio successivo con la cessazione di ogni attività: Vercelli dunque finirà per caratterizzarsi per uno sviluppo abnorme del terziario.
Nel contesto appena tratteggiato la liberalizzazione dei piani di studio e l’accesso all’Università costituisce spesso una dilazione temporanea alla soluzione del problema occupazionale, pesante nei settori direttamente produttivi. In tutta Italia negli anni Settanta l’alleanza tra movimenti studenteschi e classe operaia diviene più forte.

Dopo Misasi, Scalfaro presenta la proposta di Riforma dell’Istruzione secondaria: in sintesi, per quel che riguarda l’istruzione tecnica persiste la divisione tra indirizzi tecnici e indirizzi umanistici, ma per rispondere all’inadeguatezza lamentate dal mercato del lavoro, si introduce una novità: «per la determinazione degli insegnamenti e dei relativi programmi connessi con gli indirizzi opzionali di contenuto scientifico e tecnico-professionali sarà chiesto il parere anche del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro». L’impressione di fondo che si ricava da questo panorama getta una luce inequivocabile sugli anni tra il Sessanta e il Settanta, decisamente caratterizzati da un profondo malessere dell’istituzione scolastica, continuamente accusata di non riuscire a stare al passo con i tempi dalle grandi organizzazioni industriali, ma al tempo stesso mai oggetto di vere riforme parlamentari.

Negli “anni di piombo” la scuola, ulteriormente penalizzata, assiste alla disgregazione politica e sociale: per la esiguità di assorbimento occupazionale nei settori maggiormente produttivi un numero crescente di diplomati (e di laureati) sgomita per trovare un varco almeno nel terziario, nella amministrazione pubblica. Molti docenti debbono accettare incarichi sempre precari o entrano nella filiera delle scuole private più spregiudicate che non offrono neppure alcune garanzie assistenziali ed economiche basilari.
Questo il quadro in cui si attivano i Decreti delegati del 1974 (DPR 416/74) che introducono nuove forme di partecipazione attraverso l’istituzione degli organi collegiali. Alla fine di quegli anni si intuirà che accanto alla partecipazione sociale era necessario porre come urgenza il decentramento per migliorare organizzazione e servizi della pubblica amministrazione, rompendo una volta per tutte il monopolio del vecchio modello centralistico ormai logoro.

Ma il dibattito in materia diverrà più concreto e propositivo solo nella metà degli anni Novanta (i lineamenti della Legge Bassanini sull’Autonomia del 1997). Dopo il 1 settembre 2000 tutti gli istituti scolastici d’Italia sono divenuti scuole autonome.
Dal 2002 allo Stato sono assegnati poteri minori, mentre si definisce il riconoscimento di più ampio ruolo alle Regioni e alle singole scuole, legittimate in materia di autonomia dal testo costituzionale rinnovato. Ora I diplomati degli anni Settanta - Ottanta  usciti dalle scuole tecniche e dunque anche del «Cavour», nel momento nevralgico in cui si predisponevano tali cambiamenti, hanno constatato che la scuola di massa non significa occupazione di massa e che la buona preparazione fornita da un regolare corso di studi coronato dal diploma (requisito indispensabile, una volta quasi del tutto soddisfacente per l’inserimento immediato nel mondo del lavoro) forse era diventata quasi una sorta di  prerequisito, in attesa di altre soluzioni utili a fronteggiare la crisi economica.
Ma proprio quegli anni, in cui si comincia a capire che lo stesso diploma corre rischi di svalutazione, coincidono con un incremento straordinario delle iscrizioni, tant’è che nei primi anni  Settanta  il vecchio edificio del «Cavour», risultato da tempo insufficiente, richiese un progetto di ampliamento, la cosiddetta “Ala nuova”, realizzato dall’ingegner Franco Bertinetti.

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