Il «Cavour» conobbe, dopo la mite bonaccia ultrasecolare, una stagione
inquieta che coincise con gli anni centrali della presidenza di Pietro
Omodei Zorini, dal 1965 al 1975, il periodo effettivamente più acceso
del dibattito in tutta Italia. Il nuovo preside, cui «Il Mosaico» n. 4 anno
II aveva dedicato la prima pagina, giungeva all’Istituto dove si era
diplomato ragioniere nel 1925. Dopo la laurea in discipline economiche, nel
1942 era stato preside incaricato alla Scuola tecnica commerciale «Lanino»
con annessa Scuola d’avviamento professionale. Dal 1959 al 1965 aveva
ricoperto l’incarico di presidenza del «Bona» di Biella, allora altro
Istituto di eccellenza della provincia per l’indirizzo commerciale
mercantile specializzato per l’amministrazione industriale.
All’epoca Omodei Zorini era direttore del Consorzio Provinciale per
l’istruzione tecnica di Vercelli. Dunque un uomo di larga esperienza. In
apertura della sua presidenza al «Cavour» sottolineava, sul quindicinale,
quella che riteneva dovesse essere il punto di forza della gestione di una
scuola: «ciascuno sia persuaso di essere un elemento indispensabile alla
composizione del disegno».
Nella primavera scorsa Omodei Zorini è mancato. Non si era mai perso la
cerimonia di consegna dei premi di fine anno all’Istituto, sebbene già
avanti negli anni. Il “suo” Istituto, dove tutti, a buon diritto, lo
chiamavano ancora preside.
Lieto di ritornarvi sempre, antico amabile cerimoniere di un’etichetta
scomparsa in un mondo scolastico quasi del tutto diverso, cui tuttavia
rimase legato saldamente fino all’ultimo per antica disciplina e
consuetudine. E’ stato il primo preside della carriera scolastica di vari
docenti della generazione che ora si appresta al pensionamento: un’altra
delle ragioni per ricordarlo qui con una speciale nostalgia. Gli toccarono
anni delicati, a cominciare dalla questione dell’edilizia scolastica.
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Il contesto degli
anni Sessanta
Un articolo del «Mosaico» d’allora fa il punto della situazione all’Istituto
intorno alla metà degli anni Sessanta: si superano i 600 iscritti e le
capacità dell’edificio risultano nettamente insufficienti. Il Gabinetto di
fisica viene sacrificato per una ventina di posti banco; così pure il
Gabinetto di scienze: addio gloriose Aule speciali con laboratorio. Per
l’anno successivo (il 1966) si prevedeva un incremento del 10%.
Il Comune di Vercelli sembra che si fosse impegnato a compiere uno studio
per «portare alla pari l’indice della popolazione scolastica con quella
dell’occupazione di superficie». Ma i problemi non erano sicuramente tutti
lì.
Non è questa la sede per riconsiderare più
dettagliatamente le vicende della scuola italiana di quegli anni, ma è
necessario, per capirne meglio il clima, riconoscere che la scuola si stava
avviando a divenire terreno di una contrattazione sempre più difficile.
Già in pieno 1968 il Governo, ormai prossimo a riconoscere la gravità della
situazione, prospetta «la possibilità di incontri e di leale collaborazione
(con l’opposizione) per consentire il raggiungimento di soluzioni concrete,
nel comune interesse ad assicurare al paese una scuola funzionale ». Le
Confederazioni sindacali e la sinistra strappano alcune concessioni, ma non
una riforma sostanziale, caldeggiata tra l’altro anche dalla Confindustria
nelle indicazioni politiche sulla scuola. La Confindustria rilevava
l’urgenza di «una completa riconsiderazione del ruolo della scuola […]
l’educazione alla gestione non sia appannaggio della istituzione scuola, ma
avvenga oltre l’Università […]» candidandosi inoltre come possibile
interlocutore per l’integrazione dell’inefficiente sistema formativo
tradizionale con «un impegno dell’organizzazione imprenditoriale privata, in
collaborazione con aziende a partecipazione statale». Se il Comitato Tecnico
per la Programmazione scolastica istituito dal Ministero nel 1970 e
presieduto da Gozzer propone un nuovo piano per la scuola, l’allora
ministro Misasi pensa di dribblare il problema facendo leva sulla partecipazione
diretta della famiglia, su quella degli studenti, sulla “sensibilità dei
docenti “ e sulle loro “delicate responsabilità” per quello che viene eufemisticamente definito il “normale funzionamento della scuola”, di una
scuola in realtà vicina allo sfascio.
Il Ministro insomma delega ai Collegi dei docenti ogni
responsabilità di gestione sia dei rapporti con le famiglie, sia delle
assemblee studentesche, sia dei gruppi di studio. Questa
“democratizzazione” consiste soprattutto nel decentrare a presidi e docenti
il nodo fondamentale: i rapporti tra le richieste studentesche e il loro
controllo burocratico e politico.
Ma inevitabilmente la posizione ministeriale apre la strada ad una ulteriore
drammatica spaccatura all’interno della scuola: i documenti ministeriali
sembrano fatti apposta per prestarsi a letture, interpretazioni, risposte
ambigue. Si registrano in merito esperimenti veramente democratici condotti
da docenti e presidi sia in materia di programmazione che di contrattualità
con gli studenti, ma anche reazioni rigide che delegano la soluzione dei
problemi agli interventi della gerarchia statale (magistratura, forze di
polizia).
Va tuttavia riconosciuto che il potere politico a cominciare dalla fine
degli anni Settanta si pose il problema di attuare alcuni oggettivi
interventi, specialmente riguardo alla stato giuridico del personale.
Tuttavia una scuola fortemente ideologizzata caratterizzò il dibattito di
quegli anni, sostenuto da una massiccia sindacalizzazione.
Ora una conflittualità così accesa all’Istituto tecnico non c’è stata.
Tuttavia va ricordato che nei primi anni Settanta il «Cavour» (come altri
Istituti cittadini e provinciali) hanno conosciuto “scioperi” degli allievi,
tentativi più o meno organizzati di autogestione, volantinaggi frequenti,
insomma espressioni di contestazione diffusa che hanno messo sicuramente
alla prova una presidenza tradizionalista come quella di Omodei Zorini.
Dalla testimonianza orale dell’ex allievo Cesare Manachino (poi docente di
Materie letterarie all’Istituto nella seconda metà degli anni Ottanta) si
apprende che il Comitato degli studenti del «Cavour» nel 1969 aveva avanzato
queste richieste alla presidenza: il diritto di tenere assemblee (ancora non
erano stati varati i Decreti delegati, che risalgono al 1974), il voto
palese nelle interrogazioni, l’autogestione dei cosiddetti “controcorsi”
ovvero forme di tutoraggio pomeridiano gestito dagli stessi alunni per i
compagni di classe in difficoltà: una sorta di Progetto “Peer Education”
ante litteram, che sollevava perfino il problema spinoso dell’autovalutazione,
per altro all’epoca tentata in alcune grandi città e specialmente in una
terza Liceo di Cagliari , come testimoniano gli articoli Gli studenti
vercellesi e la contestazione e Autovoto e riforme del
quindicinale d’Istituto.
Il 1969 era stato un anno importante anche per altre
ragioni: la riforma dell’esame di maturità, il prolungamento quinquennale
dei Professionali e soprattutto la liberalizzazione dell’accesso alle
facoltà universitarie.
Il «Cavour», l’Itis e il Liceo scientifico erano gli istituti più impegnati
politicamente: gli studenti dei Collettivi avevano organizzato le prime
forme di “sciopero” di quegli anni (astensioni dalle lezioni sporadiche ed
occasionali c’erano stati anche nel passato, ad esempio per i fatti di
Ungheria).
Alla fine degli anni Sessanta l’Istituto prese parte a manifestazioni di
protesta per il caso Panagulis, e soprattutto a quelle a sostegno dei
lavoratori vercellesi della Montefibre e del Faini. Nel corteo sfilarono
insieme studenti e operai reclamando che si ponesse rimedio ai problemi
dell’occupazione e dell’industrializzazione nella città.
Bisogna ricordare che proprio alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni
Settanta alcune industrie che in passato avevano caratterizzato il tessuto
socio-economico cittadino attraversano pesanti momenti di crisi che
culmineranno in quegli stessi anni o nel decennio successivo con la
cessazione di ogni attività: Vercelli dunque finirà per caratterizzarsi per
uno sviluppo abnorme del terziario.
Nel contesto appena tratteggiato la liberalizzazione dei piani di studio e
l’accesso all’Università costituisce spesso una dilazione temporanea alla
soluzione del problema occupazionale, pesante nei settori direttamente
produttivi. In tutta Italia negli anni Settanta l’alleanza tra movimenti
studenteschi e classe operaia diviene più forte.
Dopo Misasi,
Scalfaro presenta la proposta di Riforma
dell’Istruzione secondaria: in sintesi, per quel che riguarda
l’istruzione tecnica
persiste la divisione tra indirizzi tecnici e indirizzi
umanistici, ma per rispondere all’inadeguatezza lamentate dal mercato del
lavoro, si introduce una novità: «per la determinazione degli insegnamenti e
dei relativi programmi connessi con gli indirizzi opzionali di contenuto
scientifico e tecnico-professionali sarà chiesto il parere anche del
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro». L’impressione di fondo che
si ricava da questo panorama getta una luce inequivocabile sugli anni tra il
Sessanta e il Settanta, decisamente caratterizzati da
un profondo malessere
dell’istituzione scolastica, continuamente accusata di non riuscire a stare
al passo con i tempi dalle grandi organizzazioni industriali, ma al tempo
stesso mai oggetto di vere riforme parlamentari.
Negli “anni di piombo” la scuola, ulteriormente
penalizzata, assiste alla disgregazione politica e sociale: per la esiguità
di assorbimento occupazionale nei settori maggiormente produttivi un numero
crescente di diplomati (e di laureati) sgomita per trovare un varco almeno
nel terziario, nella amministrazione pubblica. Molti docenti debbono
accettare incarichi sempre precari o entrano nella filiera delle scuole
private più spregiudicate che non offrono neppure alcune garanzie
assistenziali ed economiche basilari.
Questo il quadro in cui si attivano i Decreti delegati del 1974 (DPR
416/74) che introducono nuove forme di partecipazione attraverso
l’istituzione degli organi collegiali. Alla fine di quegli anni si intuirà
che accanto alla partecipazione sociale era necessario porre come urgenza il
decentramento per migliorare organizzazione e servizi della pubblica
amministrazione, rompendo una volta per tutte il monopolio del vecchio
modello centralistico ormai logoro.
Ma il dibattito in materia diverrà più concreto e
propositivo solo nella metà degli anni Novanta (i lineamenti della Legge
Bassanini sull’Autonomia del 1997). Dopo il 1 settembre 2000 tutti gli
istituti scolastici d’Italia sono divenuti scuole autonome.
Dal 2002 allo Stato sono assegnati poteri minori, mentre si definisce il
riconoscimento di più ampio ruolo alle Regioni e alle singole scuole,
legittimate in materia di autonomia dal testo costituzionale rinnovato. Ora
I diplomati degli anni Settanta - Ottanta usciti dalle scuole tecniche e
dunque anche del «Cavour», nel momento nevralgico in cui si predisponevano
tali cambiamenti, hanno constatato che la scuola di massa non significa
occupazione di massa e che la buona preparazione fornita da un regolare
corso di studi coronato dal diploma (requisito indispensabile, una volta
quasi del tutto soddisfacente per l’inserimento immediato nel mondo del
lavoro) forse era diventata quasi una sorta di prerequisito, in attesa di
altre soluzioni utili a fronteggiare la crisi economica.
Ma proprio quegli anni, in cui si comincia a capire che lo stesso diploma
corre rischi di svalutazione, coincidono con un incremento straordinario
delle iscrizioni, tant’è che nei primi anni Settanta il vecchio edificio
del «Cavour», risultato da tempo insufficiente, richiese un progetto di
ampliamento, la cosiddetta “Ala nuova”, realizzato dall’ingegner Franco
Bertinetti.
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