TESTO |
ANALISI
TESTUALE |
Vaghe stelle dell’Orsa,
io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi
dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo,
e quante fole
Creommi nel pensier l’aspetto vostro
E delle luci a voi compagne!
allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l’aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto
al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de’ servi.
E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
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Il cielo
stellato serve per far prendere contatto al poeta con la dimensione mentale
e sentimentale dell'adolescenza, che improvvisamente appare perlustrabile,
nuovamente, intensamente significativa per il suo animo. Tutto ciò avviene
quasi con stupore ( io non credea tornar per uso a contemplarvi....e
ragionar con voi).
Da questa
rinnovata presa di contatto con la tenera intensità del
passato emerge tuttavia una
volontà riflessiva e ragionativa, volta a
cogliere proprio l'unicità preziosa della facoltà immaginativa giovanile (
quante immagini un tempo, e quante fole / creommi nel pensier l'aspetto
vostro / e delle luci a voi compagne ). Visioni, favole,
fantasie si inseguono osservando il cielo stellato mentre
la natura tutt'attorno
ricrea quell'intensità emozionale fatta di bagliori e di sussulti, di profumi, di voci e di echi familiari. In
lontananza appaiono il mare ed i monti,
margine estremo dell'orizzonte
che divide dall'infinito, invalicabile ma idealmente penetrabile con il
pensiero e che un giorno
potrà essere fisicamente varcato con l'esperienza del viaggio e della
conoscenza, meta di un felicità oscuramente ambita, appena sfiorata
nell'illusione giovanile.
Non è tuttavia quella,
filtrata dalla ragione, una vera speranza:
è piuttosto consapevolezza del dolore, dell'assenza, del disinganno... che
si può barattare solo con la morte.
Ricordanza è dunque
questo smarrirsi nella contraddittoria ambiguità della rivisitazione dell'
antico piacere dell'immaginazione < di fronte
ad una natura seducente >, accanto alla consapevolezza della falsità delle
illusioni.
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Nè
mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio,
intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di se, ma perché tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil;
più caro
Che la fama e l’allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar:
ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell’arida vita unico fiore.
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La seconda strofa è un
rammarico doloroso ma anche un po' rancoroso < verso se stesso e verso gli
altri > per il venir meno del caro tempo giovanil, più caro / che la
fama e l'allor, più che la pura / luce del giorno, e lo spirar...dell'arida
vita unico fiore.La dinamica del ricordo si fa qui più vibrata: l'abbandono dolce e
nostalgico alle antiche sensazioni viene cancellato da una
riflessione
amara sul natio borgo selvaggio e sulla sua gente
zotica, vil. Soprattutto
pesa al poeta l'isolamento,
l'abbandono, l'incomprensione, la mancanza di rapporti umani che diano un
senso allo scorrere del tempo ed alla memoria del passato.
Il suo divenire aspro... spoglio di pietà e di virtù... sprezzator degli uomini ...va
di pari passo con
l'inesorabile fuga del tempo, che viene percepita come
inarrestabile lacuna dell'esistenza, come ferita in una vita irrealizzata,
disumana, consumata intra gli affanni.
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Viene il
vento recando il
suon
dell’ora
Dalla torre del borgo.
Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io
vigilava,
Sospirando il mattin. Qui
non è cosa
Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M’era, parlando,
il mio possente errore
Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza;
indelibata, intera
Il garzoncel, come
inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
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La suggestione è accresciuta
dall’atmosfera notturna
e dalla prospettiva spaziale indefinita creata dalla campagna. Si ha poi il
sussurrare del vento
tra i viali profumati. Dalla
torre del borgo, portati dal vento, giungono i rintocchi dell’orologio che suona le ore, un
richiamo al presente ed un ulteriore stimolo a ricordare. Questi rintocchi
erano un tempo motivo di
conforto, durante le sue
notti insonni in attesa della luce del giorno.
Proprio il suon
dell'ora richiama - attraverso un processo di
generalizzazione
l'insieme delle immagini ora
interiorizzate e rivissute. La
memoria involontaria
agisce
enfatizzando l'intensità dei
ricordi, riproducendoli
nitidi e circondati di tutta la ricchezza di emozioni che sono capaci ancora
di condensare attorno a loro. Il
ricordo è dunque dolce per sé ma
...con dolor sottentra il
pensier del presente.
La prospettiva è
chiara: se luoghi e situazioni, oggetto della percezione, sono capaci di
rievocare il passato, ora la
ragione agisce anch'essa in profondità ed
impedisce di rivivere l'incanto
dell'illusione giovanile.
Emerge drammatico il contrasto tra passato -
il mio possente errore
- e presente, soprattutto come
contrasto tra forme psicologiche
e disposizioni fondamentali dell'animo, tra loro irriducibili.
La strofa si chiude con
il richiamo alla
condizione generale della giovinezza intesa come ingenuo, costante, ingannevole vagheggiamento di bellezza e
felicità futura. Il garzoncel è assimilato ad inesperto amante,
a colui cioè che fa cattiva prova dell'amore
proiettando sul futuro e sulla vita tenaci e vane speranze.
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O
speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so.
Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vóti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo.
Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m’avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l’avvenir; di voi
per certo
Risovverrammi; e quell’imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L’esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d’affanno.
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E' appunto il
persistere di una sensazione antica,
irrazionalmente viva nel presente doloroso -
quella dell'ingenua speranza
giovanile - il tema
centrale della strofa che segue. Ogni volta che Leopardi ritorna con il
pensiero e con la parola alla sua giovinezza, si staglia centrale la viva
persistenza delle
giovanili speranze,
degli ameni inganni. E' impossibile censurare questi ricordi: emerge cioè la tenace persistenza
profonda, inconscia del ricordo in quanto esso si lega a bisogni altrettanto
profondi dell'animo umano.
Riguardando il suo vivere presente doloroso, ove tutto quello che gli
rimane è forse solo l'immagine della morte
- ... E sebben vóti / son gli anni miei,
/ sebben deserto, oscuro /
Il mio stato mortal - il poeta afferma che
non sa evitare di rivivere quell'incanto giovanile, pur nella sensazione tanto dolorosa della sua
irrevocabilità.
Certamente il ricordo delle speranze giovanili si ripresenterà anche alle
soglie della morte e renderà ancor più amara la sensazione di essere vissuto inutilmente.
E tale sensazione si mescolerà dolorosamente con la dolcezza della
morte.
Poeticamente nella strofa si risolve una forte
contraddizione esistenziale:
quella tra il nulla che attende e la volontà di recupero della sua
esperienza di uomo dotato di sensibilità. |
E già nel primo giovanil
tumulto
Di contenti, d’angosce e di desio,
Morte chiamai più volte,
e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell’acque
La speme e il dolor mio.
Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi
la bella giovanezza, e il fiore
De’ miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai
co’ silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai
funereo canto.
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La strofa è dedicata all'idea
della morte che già
caratterizza i pensieri giovanili. Una morte invocata, cercata,
prospettata, un'idea che si fa strada - ...
nel primo giovanil
tumulto/ di contenti, d’angosce e di desio,.. cioè come
risultato delle amare
contraddizioni irrisolte,
delle continue oscillazioni tra speranze e dolore. E poi la malattia,
la morte temuta,
rischio reale nell'eterna
dialettica che porta l'uomo ad oscillare tra il coraggio ingenuamente
ostentato del suicidio e il rinascere del senso della vita, che
riconduce alla sua sostanziale ed intensa imminenza. Un ipotetico
canto di morte
rivolto a se stesso, spesso
sanziona nell'esperienza poetica leopardiana tali dolorose riflessioni. |
Chi rimembrar vi può senza
sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a
gara intorno
Ogni cosa sorride;
invidia
tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a
somigliar d’un lampo
Son dileguati. E qual
mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
|
Siamo al centro di una
nuova contraddizione.
Come può la mente adulta
ripensare al passato
senza coinvolgere intensamente tutta la sua sensibilità in modo intatto,
inesausto, senza
cioè
esporsi al dolore del ricordo rivissuto?
I giorni della giovinezza sono inenarrabili cioè irriducibili alla
parola, alla rievocazione.
Possono solo essere ri-sentiti,
recuperati interiormente.
I sorrisi delle giovani coetanee, la condivisione della realtà naturale,
l'assenza di invidie, il sostegno, l'aiuto, la festa della vita che sembra
coinvolgere direttamente.
Il tempo ha però mancato le
promesse ed ha consumato
in fretta la miracolosa armonia tra vita sognata e vita vissuta, proiettando
sempre più l'uomo verso la razionale consapevolezza dell'infelicità.
Chi può sottrarsi oggi
alla certezza del dolore se ha subito la sottrazione delle speranze
giovanili?
Ancora una volta la materia autobiografica si trasforma in
discorso paradigmatico sul
valore dell'esistenza umana.
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O Nerina! e di te forse non odo
Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più
non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond’eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor.
Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e
come un sogno
Fu la tua vita. Ivi
danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L’antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a
radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te
non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L’aria non mira. Ahi tu
passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D’ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
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Il componimento termina con una
problematica ancor più complessa legata alla dinamica del ricordo. C'è lo
stupore di non ritrovare tra i
luoghi cari la figura concreta e pulsante di vita di Nerina,
coetanea del giovane Leopardi, un'altra delle figure femminili emblematiche
- nella poesia leopardiana - della splendente e pura speranza
giovanile, dell'ingenua gioia del vivere che si spegne troppo
prematuramente.
Non a caso l'idillio si chiude con tale riferimento concreto: è come se ora
Leopardi volesse
verificare la portata del
suo ragionare per ricordi
e sui ricordi, chiamando
in causa un riferimento ancor più pulsante di vita, ancor più incisivo a
livello emozionale.
.....caduta forse / dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,/
Che qui sola di te la ricordanza
/
Trovo, dolcezza mia?...
La ricordanza, la sola
ricordanza, per Nerina, non appare sufficiente ad animare la sensibilità
poetica: diventa scacco
vitale, troppo ingiusto scacco del tempo. Sembra di trovare il Montale
delle Occasioni che dice nella Casa dei doganieri
....la bussola va impazzita
all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana....
che cioè fa del recupero impossibile del passato una traumatica occasione mancata e non inquadrabile nella normale dialettica tra passato e
presente. Anche se poi l'esperienza di Nerina, precocemente scomparsa, viene
ricondotta al duro alternarsi di vite e morti in una quasi materialistica
alternanza Passasti. Ad altri /
Il passar per la terra oggi è sortito,/
E l’abitar questi odorati colli.
Gli ultimi accenti sono
nuovamente nostalgici,
colti nell'amara nostalgia del ricordo rivissuto come
emblema di dolore universale.
Il rapido trascorrere della vita di Nerina, viene rievocato nei gesti
puri e schietti dell'intimità giovanile, nella gioia dei rapporti con i
coetanei e ridesta
intatte sensazioni
nell'animo del poeta. La sua esperienza
diventa di nuovo emblematica
e si riconnette al legame
istintivo con la vita della natura,
che continua a ricreare profondi parallelismi con la vita dell'uomo.
La primavera sembra privata per sempre della presenza di Nerina, che non
rivivrà più l'incanto di giorni sereni e di colli fioriti.
La sua immagine richiamata dalla
ricordanza ( ricordo rivissuto interiormente ) è il solo retaggio di quel
tempo, il suo vero
sintetico emblema, che meglio di ogni altra immagine richiama la triste
consapevolezza del tempo che trascorre inesorabile.
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