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 Carlo Verzone e la nuova sede dell'Istituto


Il Preside Carlo Verzone
 

Verzone è rigoroso e decisionista in tutto: dalla Relazione sull'andamento dell'anno 1910-1911, scritta di  suo pugno, veniamo a conoscenza del numero degli alunni iscritti: sono 163,  15 di più dell'anno precedente  così ripartiti: 51 nella prima classe comune; 42 nella sezione di Agrimensura;  69 in quella di Ragioneria e 6 nella sezione Fisico-matematica.  Alla fine dell'anno la percentuale dei promossi e licenziati è del 48%. Dettaglia le esercitazioni e i programmi delle discipline tecniche; scegliamo alcune notizie: veniamo a sapere che il Disegno ornamentale si svolge con "applicazioni di architettura" e che si eseguono copie in gesso, disegni acquerellati, a colori, e la tecnica del chiaro scuro. Per Computisteria  e Ragioneria l'insegnamento teorico è integrato con le esercitazioni pratiche di banco modello inoltre gli allievi vengono accompagnati in visita ad istituti di credito e aziende industriali cittadine. Nel quarto corso di Topografia si dà ampio sviluppo alla celerimensura, eseguendo il progetto completo di una strada in collina; e lo studio di un canale. Calcoli e disegni relativi sono compilati nelle ore di disegno topografico. La relazione si conclude con alcune considerazioni sul Casamento, ovvero sull'edificio: è descritta la sua ubicazione, ancora in via Carducci, e i locali  comprendono oltre alle aule, l'alloggio del bidello, la sala d'aspetto delle signorine, la presidenza, l'archivio, la sala dei professori.  Quanto al Materiale Verzone conclude sconsolatamente di avere speso più di 3000 £ avendo dovuto "rafforzare tutte le aule" speciali per "l'insegnamento dimostrativo": oltre ai soliti laboratori di Chimica e di Fisica nomina le Aule di  Agraria, di Costruzioni e di Topografia.   
 


Il quadro dei licenziandi di Agrimensura del 1919-20 -
Disegno di Vertice. Foto gentilmente concessa da Mario Guilla
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Studentesse: in primo piano al centro Vittorina Opezzo, diplomata ragioniera al Cavour nell'a.s. 1923-24 - Foto gentilmente concessa da Giovanni Bruni. L' immagine è ingrandibile digitando sull'icona.

Verzone dedica al «Cavour» quarantonove anni della sua vita perché prima della presidenza vi insegna fin dal 1885; quindi conosce l'istituto come pochi altri, e non è improprio dire che lo senta come qualche cosa di più del semplice luogo di lavoro: ama l'Istituto, lo vuole grande, bello, prestigioso. Per questo sopporta le critiche per l'erigenda nuova sede.

Eugenio Treves - nel suo ricordo affettuoso nelle pagine del Volume sul Centenario -  ce lo descrive mentre segue personalmente i lavori della nuova sede, tra ponteggi e travi, in mezzo al caos del cantiere:
«[…]Non mi ci raccapezzavo. Ci si trovava perfettamente, invece, il mio preside, che mi guidava […] Anche il nuovo Istituto nel suo amore, una creatura sua: egli lo aveva vagheggiato, egli lo aveva voluto e strappato alla generosità - quella volta un po' scettica e restìa - del Comune di Vercelli. Avventurato su un asse in pendio, sgambando tra calcina e mattoni, il buon preside si spassionava. -Dicono che sono un megalomane… che faccio sperperare i quattrini dei contribuenti… questa è un'università, non un istituto tecnico…che sarà sempre un palazzone mezzo vuoto… diranno!»

Alla sua morte, nel 1934, dopo quarantanove anni dedicati all’Istituto, Faccio scrive immediatamente l’epigrafe da apporre sotto il busto in bronzo che realizzerà lo scultore Guglielmo Tricerri.

Tuttora nume tutelare per eccellenza del Cavour, continua a starsene qui tra noi, osservandoci costantemente dall’alto, e ci accoglie, al nostro ingresso a scuola, insieme al Cesati, il cui busto marmoreo è collocato simmetricamente nell’atrio dell’Istituto. Indimenticabili familiari presenze
 

Galleria di immagini dell'Istituto nei primi del Novecento
 

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Nel segno dello stile liberty
di Maria Grazia Imarisio e Diego Surace
 

L’attività edilizia a Vercelli era sottoposta dal 1833 alla supervisione della Commissione di Pubblico Ornato, disciplinata da un apposito Regolamento inteso a tutelarne il decoro, mentre volume del costruito e organizzazione dell’impianto urbano erano normati da Piani Regolatori per l’abbellimento e l’ingrandimento della città (1860) e Piani di Ampliamento (1879 e 1905). Risale al 1905 anche l’emanazione di un più severo Regolamento edilizio, reso indispensabile dall’incremento delle edificazioni iniziato negli anni Novanta dell’800, che raggiungeva l’apice intorno al 1910. Tra dibattito e polemica, tra diffusione del modello haussmaniano e applicazione delle teorie di Sitte e Baumeister, la città si andava così conformando secondo tracciati viari organizzati in reticoli regolari, con lotti in prevalenza di una certa ampiezza consoni a magniloquenti edificazioni di gusto eclettico-storicista, verso cui propendeva la Commissione d’Ornato e sulle quali la città ottocentesca si stava informando. Ascendenze del magistero boitiano si integravano col gusto Art and Crafts vivificato dal passaggio di John Ruskin, affascinato dalle permanenze medievali vercellesi, e su tutto si levava il magistero del conte architetto Edoardo Arborio Mella (Vercelli 1808-Torino 1884), educato presso il Collegio dei Nobili di Torino, viaggiatore dall’Italia all’Oriente e trattatista tra i più seguiti. Nel suo Gli elementi di architettura gotica il Medioevo rivive come componente culturale e in funzione conservativa contribuendo al revival del neogotico, o più in generale degli stili lontani nel tempo e nello spazio, e allo studio e restauro delle permanenze antiche, preludio dell’opera di D’Andrade. Inoltre, la cultura orientalista del Mella costituiva una guida fondamentale e un basilare corollario formativo nel panorama dell’arte vercellese, specie nei confronti del più giovane Giuseppe Locarni (Prarolo, 1826-Vercelli 1902), che curando l’erezione della Sinagoga (1874-78) adottava schemi medio orientali del XIV sec. Emblematicamente e come riflesso del dualismo che caratterizzava allora la cultura architettonica italiana, il Locarni ergeva però in questo grandioso tempio moderne colonne in ghisa, segno della fiducia nella ricerca di avanzate tecnologie edilizie, legata allo sfruttamento di talune leghe e del ferro, altrove da lui abbinato al vetro per creare tettoie e marquise.

 
Se pure predominante lungo tutto l’800, l’indirizzo dell’architettura connesso ai revivalismi e alla cultura del restauro si misurava quindi con l’innovativo filone della cultura di tipo ingegneristico, favorita anche da alcuni corsi dell’Istituto di Belle Arti, antitetici a quelli più propriamente artistici di scultura, ornato e figura. Esemplari di tale indirizzo restano la realizzazione della rete e della stazione ferroviaria, opera di maestranze inglesi su progetto dell’ing. Woodhouse, e la cupola della Parrocchiale di Gattinara, quasi “concrezione a membrana”, ideata dal Locarni. Mentre la precoce adozione di strutture portanti in conglomerato cementizio armato «Sistema Hennebique» per i solai della Cassa di Risparmio (1896, ing. Vincenzo Canetti) si sarebbe estesa su ampia scala nell’edificazione del Calzaturificio della Società Italica Pellami (1907, ingegneri Gardella e Martius).

In questo clima e quale esito di un’evoluzione dell’istruzione tecnica, che altri hanno trattato in questo volume, veniva istituita nel 1854 la Scuola Speciale diventata poi Istituto «Camillo Cavour», allogata dapprima in locali provvisionali, come di norma in quegli anni. Direttore delle Scuole Speciali era il Barone Vincenzo Cesati da Vigadore, primo Preside dell’Istituto, il cui genero era l’archeologo architetto Federico Arborio Mella, figlio del già citato Edoardo; circostanza che pare preludere alla particolare e aggiornata tipizzazione stilistica assunta dal fabbricato in seguito appositamente eretto per la scuola che, pur ampliato e rimodernato, resta oggi uno degli esempi più coerenti del Liberty piemontese. 

L’esigenza di un edificio idoneo ad ospitare l’incrementato Istituto Tecnico era emersa più impellente all’avvio del nuovo secolo e per accoglierlo era stato individuato un vasto lotto ritagliato dai nuovi piani d’ampliamento ai margini della città storica, di cui la nuova edificazione accompagnava l’espansione localizzandosi come intervento integrale a scala d’isolato. Come altre scuole erette ante prima guerra mondiale, in un’epoca di notevole fervore nell’edilizia scolastica primaria e secondaria tecnica, il «Cavour» adottava una tipologia schematicamente predeterminata secondo una conformazione bi-piano a corpi risvoltanti su strada, aperti verso una corte interna. Uno schema burocratico-pedagogico che aderiva alle idee di promozione sociale che costituivano una delle radici del Movimento Moderno, allineandosi contestualmente con le più aggiornate disposizioni in tema di edifici scolastici, emanate nel nostro paese specie per l’influsso delle normative tedesche e belghe. Mentre la coerente applicazione dell’ideologia igienista, allora in voga, si accompagnava a una notevole dotazione funzionale, suffragata dalla razionale organizzazione degli interni, gravitanti sul perno distributivo e simbolicamente catalizzatore del grande scalone, dove il nuovo stile dialoga con la monumentalità del passato. All’esterno, la ripetitiva scansione del modulo aula, ritmato da lesene ed esattamente identificabile nella sua conformazione dimensionale, segna una cesura nel corpo per presidenza e uffici, coronato alla sommità, dove la decorazione si fa più ricca, il tono più aulico e le finestrature evocano ascendenze tra l’esotico e lo storicistico. Un’ulteriore cesura scandisce il corpo angolare su via Lagrange che diviene occasione per una particolare connotazione scenografica nella formula arrotondata, cara al gusto Liberty e memoria dei risanamenti ottocenteschi. Istanze del passato dialogano così in sintonia col tentativo riuscito di privilegiare nell’intero apparato ornamentale un lessico aggiornato di matrice internazionale, destinato a conferire nuova dignità all’edificio “moderno”, ergendosi al contempo a pubblicità implicita, rappresentativa del qualificato insegnamento impartito.
 


La porta d'ingresso dell'Aula Magna
( foto di Maria Grazia Imarisio e Diego Surace )

Particolare dell’Aula magna
(foto di Maria Grazia Imarisio e Diego Surace).



Particolare dei manufatti in litocemento dello scalone (foto di Maria Grazia Imarisio e Diego Surace).
 


Particolare del coronamento
( foto di Maria Grazia Imarisio e Diego Surace )

 

Particolare delle decorazioni di facciata
( foto di Maria Grazia Imarisio e Diego Surace ).

 

La facciata dell’Istituto su Viale Italia
( foto di Maria Grazia Imarisio e Diego Surace ).

 


Il raffinato gioco della memoria, peraltro mai disgiunto dall’attenzione per le esigenze di una società ormai borghese e industriale, è esito di una radicata tradizione di restauro filologico avvezza all’impiego di tecniche artigianali e costruttive medievali, determinanti per la formazione delle maestranze artefici dei pregevoli manufatti in legno, ferro lavorato, litocemento (finta pietra) e a graffito, dove talora il conveniente impiego di procedure moderne additava la via per una proficua conciliazione tra arte, tecnica e industria. Prassi e scelta stilistica in cui si riflettono la vitalità creativa delle coeve realizzazioni del Leblis e del Canetti, l’operare in città e nei dintorni del milanese Donghi e del subalpino Momo e i successi professionali dei progettisti educati presso lo stesso «Cavour». Ma che rispecchia inoltre l’aggiornamento attraverso le riviste d’architettura e la coerente ricerca sulle possibilità espressive e d’interazione, anche stilistica, della nuova tecnologia del calcestruzzo armato, condotta dal servizio tecnico dei Lavori Pubblici del Comune, artefice del progetto dell’edificio, ultimato nel 1914.

Costruito, decorazioni e arredi in stile sono pertanto da interpretare come coagulo di un’unica espressione funzionale e simbolica, tappa saliente dell’arte vercellese e parte integrante della storia dell’istituzione culturale ed educativa con la quale interagiscono da quasi un secolo e di cui con la propria caratterizzazione estetica sono tuttora emblema  significativo ai fini della qualificazione ambientale conferita allo spazio collettivo.

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