Introduzione
La
blanda provocazione contenuta nel titolo un po' ermetico di questo libro,
vuole orientare il lettore verso una duplice riflessione sui concetti di
educazione e di socialità.
In primo luogo è utile pensare all'etimologia della parola, generata dal
latino e-ducere, e ricordare che educare significa,
innanzitutto, condurre un individuo da una situazione di incapacità al
possesso di nuove abilità attraverso un percorso organizzato di
apprendimento.
In secondo luogo è bene sapere che il comportamento sociale
dell'essere umano è in gran parte appreso. Ciò
significa che, al di là delle componenti genetiche che regolano le nostre
azioni, ogni tentativo di comunicare in modo complesso ed articolato
parte da uno stato iniziale di incapacità. Se superiamo una visione
ingenua e spontaneistica dei processi di socializzazione emerge con
chiarezza la necessità di portar fuori l'individuo dalle sue
disabilità sociali iniziali attraverso un progetto
educativo.
L'educazione alla socialità è dunque oggetto di insegnamento e trova
nella scuola uno dei settino elettivi.
Avrei potuto affermare che l''educazione sociale è una materia di
insegnamento come lo sono l'educazione civica, fisica, artistica, ma
preferisco pensare a questo processo, fondamentale in un percorso
educativo, come ad un progetto libero dalle pastoie della burocrazia e dalla
gabbia dorata del pubblico riconoscimento. Ritengo invece che
l'educazione alla socialità debba divenire una parte integrante di ogni
processo di insegnamento ed essere dunque materia di ogni materia. Come
cercherò di dimostrare nel corso di questo lavoro, ogni tentativo di
insegnamento è necessariamente mediato da un processo di
comunicazione che trova la sua espressione in qualche
forma di comportamento sociale. Essere educati ed educare alla
socialità sono dunque anche strumenti per insegnare ogni
materia.
L'idea di
scrivere questo libro è nata riflettendo sull'esperienza raccolta
durante numerosi corsi di aggiornamento che ho condotto con dei gruppi
di insegnanti sul tema della competenza sociale. Sono emerse
alcune considerazioni di base che mi hanno spinto a raccogliere in modo
organizzato ed in forma scritta ciò che, in un clima costruttivo ed
emozionalmente carico di coinvolgimento, si è sempre meglio delineato
attraverso il lavoro trasversale con i diversi gruppi.
Tali
considerazioni di base possono essere così descritte:
a) numerosi insegnanti possiedono
una formazione organizzata rispetto ai contenuti dell'insegnamento ma si
sono costruiti in modo assolutamente empirico le competenze per trasmettere
tali contenuti;
b) b)
tutti gli insegnanti si confrontano quotidianamente con problemi di
comportamento sociale degli studenti ma il loro curriculum formativo non
prevede l'apprendimento di alcuna strategia di gestione §delle dinamiche
relazionali;
c) c) lo
psicologo scolastico non deve fornire diagnosi "tautologiche";
d) d) lo
psicologo scolastico deve fornire consulenza per la conduzione di una
analisi operazionale dei problemi, traducibile in strategie di intervento;
e) e) le
singole consulenze e i corsi di formazione o aggiornamento non devono
fornire "ricette" per la soluzione dei "casi" ma, piuttosto, trasferire agli
insegnanti degli strumenti di pensiero che consentano loro di analizzare ed
elaborare in modo autonomo programmi differenziati per realtà complesse.
In questo
libro affronto
l'argomento dei comportamenti sociali sotto il profilo psicologico e
pedagogico. Evidentemente tali discipline non possono esaurire la
trattazione di tale materia. Sovente, quindi, faccio riferimento ad altre
scienze "umane" e "fisiche" segnalandone le aree di interfaccia con
l'analisi psicologica senza però spingermi in altri terreni di indagine. E’
questa una scelta in favore della chiarezza metodologica e della definizione
delle mie competenze. Una scelta quindi con limiti precisi, fatta da chi
preferisce rinunciare a spiegare tutto a qualunque costo per poter
percorrere invece, con passione ed umiltà, il cammino della conoscenza.
E’ frequente il riferimento, comunque sempre implicito, all'etica e
all'estetica. Richiamo in molti casi la necessità di porre le nostre
scelte pedagogiche al vaglio dei criteri di bene e di bello, cui
facciamo riferimento ma non entro volutamente nel merito di tali
valutazioni. Posseggo fortunatamente anch'io un’etica e un senso
estetico della vita, che forse un lettore smaliziato potrà riconoscere
tra le righe. Preferisco però fermare il mio discorso su un terreno più
comune ai fenomeni "osservabili" pur se di ordine cognitivo. Quando ciò non
è possibile dichiaro apertamente che ciò che affermo deriva dal mio
personale sistema di valori. Non credo, per esempio, ad una
scienza libera da un sistema etico di riferimento e, se si tratta di una
scienza che studia il comportamento umano, non la ritengo nemmeno possibile.
Credo invece ad una scienza "onesta con se stessa" e sarei lieto se
ciò che scrivo venisse letto in accordo con queste premesse. Ho assistito,
nel corso della mia esperienza professionale, ad innumerevoli, piccoli,
involontari ed anche gentili imbrogli operati da noi psicologi spacciando
per scienza le nostre private convinzioni sul significato dell'esistenza.
Per questo, ogni volta che mi accingo a trasmettere le mie conoscenze in
forma pubblica, preferisco infastidire chi mi dedica la sua attenzione con
queste necessarie premesse.
Per operare
all'interno delle discipline psico-pedagogiche è però necessario fare
ancora qualche scelta. E’ noto, infatti, che l'approccio allo studio
della mente può partire da presupposti epistemiologici
estremamente variati. Nella storia della psicologia, questo fatto ha
generato il costituirsi di diverse "scuole" che sovente si sono poste
in netto contrasto tra loro anche su questioni fondamentali. E’ probabile
che questa apparente confusione delle lingue derivi dalla eccezionale
complessità della materia affrontata e dai dati di conoscenza di cui
disponiamo che sono ancora estremamente ridotti e parziali. E’ necessario
allora individuare, attraverso una scelta "personale", un
approccio teorico ed una metodologia di riferimento. La soluzione dell'ecclettismo
è purtroppo quasi sempre destinata ad abortire e penalizza comunque in
modo considerevole la verificabilità delle scelte operative.
E'
però possibile utilizzare un atteggiamento aperto che, all'interno di una
metodologia ben definita, rimanga disponibile alla graduale costruzione di
modelli più complessi. Ho trovato, dopo un percorso partito da lontano, una
risposta per me soddisfacente negli orientamenti psicologici che fanno
riferimento alle teorie dell'apprendimento.
La conoscenza dei processi dell'apprendimento non consente, a mio parere
di spiegare totalmente la natura umana, ma presenta il notevole vantaggio di
aprire una via d'accesso alla possibilità di
generare dei cambiamenti in tale
natura. Se poi questa strada viene seguita con coerenza, ci si
rende presto conto che le nostre conoscenze ci orientano essenzialmente
sul 'come generare un cambiamento' piuttosto che sul 'significato
dell'esistenza'. Se ad alcun-i questa considerazione può apparire come
un grave limite del nostro orientamento, io ritengo invece che sia una
garanzia e fornisca all'utente del servizio psicologico una maggiore
possibilità di controllo sul lavoro svolto
Lo studio dei
processi di apprendimento è il campo di indagine in cui sono cresciute due
importanti scuole psicologiche: il comportamentismo ed il cognitivismo.
Ognuno di noi si
costruisce un'idea del mondo esterno e degli altri partendo da una serie di
osservazioni sulla realtà e sul comportamento dei suoi simili. In seguito poi, è portato ad elaborare in modo più personale, secondo i ,propri schemi di
pensiero, le informazioni raccolte, iniziando così ad organizzare le
sue strutture cognitive.
Entrambi i processi
possono verificarsi senza che noi ne siamo consapevoli, grazie ai preziosi
automatismi di cui è corredato il cervello. Ma che cosa determinerà le
nostre azioni successive?
Alcuni
studiosi (
comportamentisti ) tendono
ad attribuire più importanza ai segnali in
arrivo ( stimoli) e
preferiscono utilizzare una sperimentazione più rigorosa dal punto di
vista della verificabilità, ponendo come unico oggetto di studio
proprio i comportamenti o i fenomeni osservabili.
Altri
invece considerano più importanti, agli effetti delle nostre reazioni
al mondo esterno, le modalità attraverso le quali analizziamo ed
elaboriamo (schemi cognitivi) i dati in arrivo ed accettano con
notevole rigore, qualche compromesso rispetto alla necessitai di lavorare su fenomeni osservabili.
E’ però necessario, a questo
punto, distinguere tra esigenze della ricerca scientifica e applicazione
delle conoscenze nella pratica clinica. Se alcune antinomie
epistemologiche tra le due scuole sembrano per il momento irriducibili, è
anche vero che chi opera sul campo della modificazione di situazioni
problematiche trova estremamente limitante il dover rinunciare ad
intervenire o sul comportamento o sugli schemi di pensiero.
Attualmente molti psicologi
tendono ad accettare il limite di una relativa perdita di 'scientificità'
per favorire il difficile matrimonio tra due scuole per molti versi
affini, con
l'obiettivo di amplificare la portata dell'intervento operando con un
modello teorico di riferimento più vicino alla complessità della natura
umana.
Queste considerazioni hanno gradualmente portato al delinearsi dell’approccio
cognitivo-comportamentale. E’un matrimonio contrastato che
ancora non ha il consenso definitivo dei 'padri' della scienza, ma è
un'unione molto appassionante che si è già rivelata feconda. Ed è questo
l'orientamento che seguo nella mia vita professionale e che ho utilizzato
scrivendo questo libro.
La scelta che ho compiuto mi fa sentire molto vicino agli insegnanti.
Nella nostra comune professione, infatti, cerchiamo, pur se con competenze
diverse, di insegnare qualcosa a qualcuno, organizzando il nostro
comportamento in modo che per lui sia più facile e più probabile imparare.
Possiamo decidere di insegnare agli altri cose molto diverse come per
esempio la matematica o un buon modo di interagire con il prossimo, degli
ideali o un metodo per gestire meglio lo stress, il buon uso del linguaggio
scritto e parlato o il modo più efficace per superare un handicap. In
ogni caso però dobbiamo essere dei buoni conoscitori dei processi di
apprendimento.
Quando, in qualsiasi campo applicativo, opero in qualità di psicologo
secondo l’orientamento cognitivo-comportamentale, io non curo
malattie perché questo lo fa il medico, cerco di non limitarmi a consolare
perché dovrebbero farlo gli amici, non giudico perché già in troppi se ne
preoccupano. Insegno soltanto, con la maggior semplicità possibile, ciò che
conosco. Proprio come voi lettori. Alcuni poi diranno che li ho guariti
altri che ho risolto loro dei problemi. Credo quindi che la conoscenza,
accompagnata da un po’ di
esercizio, sia una preziosa medicina. Ma
chi fa l'insegnante, in questo ha sempre creduto.
La prima parte di questo lavoro, raccoglie le principali riflessioni
emerse dal confronto tra le mie conoscenze e la realtà scolastica e
propone alcuni presupposti teorici utili per organizzare l'intervento
di educare alla socialità in modo personalizzato e situazionale.
La seconda parte, invece, fornisce alcuni spunti iniziali sui contenuti
ai quali si potrebbe articolare l'insegnamento della competenza sociale.
I capitoli della seconda parte sono dunque introduttivi al metodo e
orientativi rispetto ai campi di intervento. E’ mio desiderio sviluppare, in
un lavoro successivo, la trattazione delle indicazioni metodologiche.
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