Le compagnie commerciali inglesi e le loro aree di azione


Fonte: E. Finzi, Storia, Zanichelli, Vol.1

Sui mari aperti, negli spazi oceanici come nelle terre appena scoperte,  le varie potenze europee si scontrano in modo tanto più aspro quanto più è chiaro che il predominio economico è la condizione per l'egemonia politica: solo la ricchezza assicura la potenza dello Stato; altrimenti non è possibile avere eserciti e armi adeguate, costruire flotte sufficienti, rafforzare la pubblica amministrazione. Alla costruzione e al rafforzamento dello Stato moderno sono interessati, in vario modo, i ceti economicamente più dinamici: è solo dall'emergere di una nuova struttura politica che i nuovi protagonisti della vita economica possono essere garantiti. Senza uno Stato moderno forte, è impossibile quella rottura dell'antico ordine che è essenziale ai nuovi ceti. Solo all'interno di questa realtà possono essere compresi la politica economica dell'epoca e i suoi strumenti.

Il protezionismo mercantilista si esprime attraverso la concessione di  monopoli commerciali. Dall'Atto di navigazione emerge uno dei tratti fondamentali della politica economica inglese: la difesa delle attività commerciali nazionali rispetto a quelle estere. Le merci inglesi possono essere trasportate solo su navi inglesi e ad essere penalizzata è la sorgente potenza mercantile dell'Olanda. Assieme alla guerra di corsa, che è anch'essa una sorta di strumento di politica economica, si sviluppa in modo massiccio il contrabbando, definito a metà degli anni '60 del secolo XVIII da Cesare Beccarla : «importante problema per la bilancia [commerciale] di uno Stato». In assenza di apparati di controllo adeguati il potere politico tenta di garantirsi da queste imponenti infrazioni attraverso la concessione del monopolio nel commercio con intere aree continentali a compagnie mercantili nelle quali confluiscono capitali privati, a volte pubblici, spesso del sovrano in quanto persona.

Le compagnie che godevano del privilegio del monopolio commerciale con certe aree furono qualcosa a metà tra le  corporazioni medievali e le società anonime e per azioni. Il  privilegio di una posizione «speciale» rispetto alla totalità dei sudditi, concesso dal sovrano a un determinato gruppo   — è un meccanismo in contrasto con una società che tende a spezzare i vincoli corporativi e a valorizzare la sola ricchezza acquisita con le proprie attività. La politica economica mercantilista si basò infatti su idee che risentivano di prospettive medievali. L'idea di monopolio è insita nel processo stesso di conquista di altri mondi attraverso la giustificazione religiosa: è il papa, rappresentante di Dio in terra, a concedere a Portogallo e Spagna le nuove terre.

La difesa delle attività commerciali nazionali rispetto a quelle straniere, una politica cioè protezionista, aveva lo scopo di raggiungere una bilancia commerciale attiva. Era necessario  «vendere agli stranieri annualmente più di ciò che consumiamo delle loro merci». Così nel paese sarebbe affluita una quantità d'oro e di argento maggiore di quanta non ne fosse uscita. Dazi all'entrata, tasse sulle importazioni, premi alle esportazioni erano l'armamentario classico di questa politica.

Dietro quest'ansia di attirare metalli preziosi, e cioè moneta, stanno fatti concreti: una realtà per cui a lungo c'è deflusso d'oro dall'Occidente al Levante; le necessità monetarie crescenti delle «macchine statali»; la sempre presente minaccia di carestia che la moneta può lenire con massicci acquisti esteri di derrate alimentari. La paura della carestia è molto importante. Ha un riflesso pratico nella proibizione del libero commercio dei grani che si tendono a far affluire forzosamente alle città e specie alle capitali creando un settore protetto, svincolato dalle regole del mercato, aperto alla speculazione non appena si profila in un luogo un'annata agraria negativa. Non di rado in tal modo gli effetti della carestia sono moltiplicati e resi più drammatici dall'accaparramento del grano da parte di grandi operatori che lo tengono nascosto in attesa che la scarsità ne faccia salire il prezzo.

La continua minaccia della mancanza del pane contribuisce poi ad acuire una diffusa percezione: la ricchezza globale del mondo è vista e sentita come un grande fondo immutabile da cui attingere. Ed è ovvio che, se il fondo ha una grandezza costante l'arricchimento di una nazione non può avvenire che a spese di un'altra. Quest'idea può essere spiegata con la prevalenza dell'attività commerciale che non crea nuova ricchezza ma distribuisce quella esistente.

Essa affonda le radici in una realtà economica in cui la produzione, nonostante le molte innovazioni tecniche, è ancora prevalentemente fondata sulla forza dell'uomo e nella natura trova il suo limite. Solo l'aumento del numero degli uomini può accrescere ricchezza e potenza di uno Stato, perché solo in tal modo si può accrescere la produzione di quei beni che, esportati, possono rendere attiva la bilancia dei pagamenti.

Questa proposizione implica però un'idea in parte contraddittoria rispetto al principio generale della ricchezza come fondo: in realtà, lo Stato può e deve far aumentare la ricchezza nazionale. I teorici del mercantilismo, spesso funzionari o mercanti essi stessi, e le politiche economiche mercantilistiche attuate dagli Stati finirono per coniugare «all'interno del paese ... obiettivi dinamici» con «una teoria statica in ordine alle risorse globali del mondo». Per questo i grandi politici mercantilisti, di cui è in certo senso simbolo il ministro di Luigi XIV, Jean Baptiste Colbert, promossero la costituzione di manifatture ( specie di lusso ), di prodotti per l'esportazione.

 

MODULI DI STORIA CLASSE 4^, DOCUMENTI