Considerato il maggiore poeta tragico del Settecento
italiano, Vittorio Alfieri ebbe una vita piuttosto avventurosa, diretta
conseguenza del suo carattere tormentato che lo rese, in qualche modo,
precursore delle inquietudini romantiche. Rimasto orfano di padre a meno
di un anno, a nove anni entrò nella Reale Accademia di Torino, ma,
insofferente della rigida disciplina militare, ne uscì nel 1766 (
nell'autobiografia ne parlerà come di anni di "ingabbiamento" e di "ineducazione").
A conclusione degli studi viene nominato alfiere dell'esercito regio ed è
assegnato al reggimento provinciale di Asti. Da quel momento, però,
viaggia a lungo per tutta l'Europa, spesso precipitosamente, per dare
sfogo ad un'inquietudine interiore che difficilmente si placava.
Disadattato e riottoso, era profondamente disgustato dagli ambienti
cortigiani di Parigi, Vienna e Pietroburgo, mentre, viceversa, lo attiravano
le solitudini dei paesaggi scandinavi o di quelli spagnoli.
Nei numerosi viaggi effettuati in quel periodo, sull'onda di quella
sensibilità intensa e onnivora, visitò paesi importanti come la Francia,
l'Inghilterra, la Germania, l'Olanda e il Portogallo.
Pur non avendo ancora focalizzato con precisione il centro dei suoi
interessi, a quel periodo risalgono anche alcune delle sue più intense
letture, che spaziavano in modo disordinato dagli illuministi francesi a
Machiavelli fino a Plutarco. Tornato a Torino nel 1773, seguirono
per lui anni di operoso isolamento e di lucido ripensamento su di
sé e sull'ambiente che lo circondava. Di tale processo di crescita
intellettuale e morale sono documento i "Giornali", scritti
per una prima parte in francese (anni 1774-75) e ripresi qualche tempo dopo
in italiano (1777).
Intanto, in solitudine, dalla sua penna sgorgavano centinaia di pagine di
alta letteratura. Il suo talento drammaturgico andava così finalmente
delineandosi. Nel 1775 riuscì a far rappresentare la sua prima
tragedia, "Cleopatra", che gli procurò un discreto successo e che gli
aprì le porte dei teatri italiani, confermandolo nella sua vocazione. Basti
pensare che negli anni successivi arrivò a scrivere qualcosa come venti
tragedie, fra cui, per citarne alcune, "Filippo", "Polinice",
"Antigone", "Virginia", "Agamennone", "Oreste", "La congiura de' Pazzi",
"Don Garzia", "Maria Stuarda", "Rosmunda", "Alceste seconda", oltre
all'"Abele", da lui stesso definito "tramelogedia", cioè "tragedia mista di
melodia e di mirabile".
Tra il 1775 e il 1790, fuggendo ogni distrazione mondana, si diede a un
lavoro tenacissimo: tradusse numerosi testi latini, lesse accanitamente i
classici italiani da Dante a Tasso, s'impegnò nello studio della grammatica,
mirando a impadronirsi dei modi toscani. Nel 1778, non sopportando di
esser legato a un monarca da vincoli di sudditanza, lasciò alla sorella
tutti i propri beni e, riservata per sé una pensione vitalizia,
abbandonò il Piemonte e andò a vivere in Toscana, a Siena e a Firenze;
fu anche a Roma (1781-83), e successivamente seguì in Alsazia (a Colmar) e a
Parigi Luisa Stolberg contessa d'Albany, da lui conosciuta nel 1777,
la quale, separatasi dal marito Carlo Edoardo Stuart (pretendente al trono
d'Inghilterra), divenne la compagna della sua vita e la dedicataria della
maggior parte delle "Rime".
Nasce un rapporto che Alfieri manterrà sino alla morte e che mette fine
alle sue irrequietezze amorose. L'anno successivo fa dono alla sorella
di tutti i suoi beni, mantenendo per sé solo una rendita annua e dopo vari
soggiorni si trasferisce a Firenze e poi a Siena, per apprendere l'uso del
toscano che, per lui piemontese e perciò familiare all'uso del suo dialetto
e del francese, era stata una lingua morta imparata sui libri.
Egli ripercorse il suo cammino formativo in un'autobiografia
intitolata Vita che cominciò a scrivere intorno al 1790
(l'autobiografia era un genere di moda nel diciassettesimo secolo, valgano
gli esempi delle "Mémoires" di Goldoni o delle "Memorie"
del Casanova), anche se quest'opera non va considerata come una "riscrittura"
a posteriori delle propria esperienza esistenziale, dove quindi la realtà
viene a volte forzata per conformarsi al pensiero dell'Alfieri ormai poeta
maturo.
Tornato a Firenze, dedica gli ultimi anni della sua vita alla composizione
delle "Satire", di sei commedie, della seconda
parte della "Vita" e di traduzioni dal latino e dal greco. Nel 1803, a soli
54 anni, muore a Firenze il giorno 8 ottobre, assistito da Luisa Stolberg.
La salma si trova nella chiesa di Santa Croce a Firenze. |