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Tentativi innovativi in campo agricolo.

Contro l'azienda agricola autosufficiente

Cavour si impegnò a lungo nel definire quali fossero le scelte agronomiche  più adatte alla zona padana e talvolta  incappò in qualche contraddizione. Ad esempio l'associazione di coltura cerealicola e prati stabili, che egli aveva esaltato, metteva in evidenza che né il granturco né i prati stabili erano sufficienti a fornire foraggi nella misura necessaria al mantenimento di un quantitativo di bestiame atto ad assicurare una concimazione adeguata alle coltivazioni cerealicole, alle quali mancava per di più l'apporto di prati avvicendati per la ricostruzione della fertilità del suolo. Davanti a rese così basse il vanto di un elevato prodotto totale di cereali era in realtà insostenibile, quando un raddoppiamento delle rese del prodotto di grano a parità di superficie coltivata era perfettamente raggiungibile con migliori tecniche di coltivazione, lasciando ben altre possibilità allo sviluppo dei prodotti dell'allevamento, della cui importanza, come vedremo, Cavour era peraltro pienamente consapevole. 
Pure, a questi principi egli resterà a lungo fedele, e anche in seguito li riaffermerà, vietandosi in tal modo ogni tentativo di rinnovare radicalmente l'agricoltura delle zone asciutte nella direzione che era stata aperta dalla  prima rivoluzione agricola: la quale aveva cercato di realizzare l'azienda agricola come unità produttiva autosufficiente, indirizzata sì alla vendita sul mercato, ma in cui i foraggi consumati sul posto consentivano, col mantenimento del bestiame, una sempre più ricca concimazione dei terreni, e assicuravano la forza di lavoro necessaria a una crescente produzione cerealicola.
 


Tenuta di Leri - Tipo eseguito nell'anno 1913 per ordine della Direzione del Regio Ospizio di Carità di Torino.
I terreni sono ordinati secondo i piani escogitati dal Conte di Cavour.

 
La stagione del Cavour grande innovatone agricolo si aprirà invece verso il 1845, quando egli sarà tra i primi a impiegare su larga scala il guano e a sperimentare i concimi chimici, conquistando in tal modo un posto di rilievo tra i promotori della seconda rivoluzione agricola, tesa all'incremento della capacità produttiva del suolo attraverso un massiccio impiego di fertilizzanti acquistati all'esterno dell'azienda, con risultati così vasti da indurre da ultimo il conte a considerare la possibilità di mutare le rotazioni tradizionali persino in quel settore della grande azienda irrigua in cui egli aveva raccolto i maggiori successi.  Non va dimenticato poi che proprio nel quadro delle strutture tradizionali si realizzeranno, nel corso del secolo XIX, i graduali progressi dell'agricoltura padana delle zone asciutte, attraverso la diffusione delle piante legnose, dal gelso alla vite, con conseguenze di grande rilievo per il generale processo di sviluppo economico del paese; e che, d'altra parte, nelle zone irrigue le strutture agricole avevano raggiunto, in effetti, forme assai avanzate, realizzando per via autonoma quell'integrazione dell'agricoltura e dell'allevamento su cui si imperniava anche la classica rivoluzione agricola dell'Europa occidentale.  Il Vercellese si era posto, come s'è visto, piuttosto tardi su questa via: ma l'assorbimento dei metodi e delle tecniche già realizzate altrove, e specialmente in Lomellina, consentirà progressi assai rilevanti durante questi decenni.
 


Il Seminatore di Giambattista ed Alfonso Ratti - visione anteriore parzialmente sezionata
< Illustrazione tratta da P.L.Ghisleni - La coltivazione e la tecnioca agricola in Piemonte dal 1831 al 1861 >
 

Appunto nel territorio vercellese, a partire dal 1835, Cavour si trovò alla testa di una azienda agraria che, dopo l'acquisto del Torrone, aggiuntosi con le sue 779 giornate (ha 296) di superficie alle 1261 (ha 480) di Leri e alle 1235.(ha 471) di Montarucco, raggiungeva l'estensione  complessiva di 3275 giornate, pari a ha 1247  con un centinaio di salariati e manovali fissi. 
 


Vue de la Grange de Montarucco - acquarello predisposto per il Principe Camillo Borghese
al momento della sua acquisizione delle terre dell'Abbazia di Santa Maria di Lucedio ( 1807 )


Difficoltà nell'introdurre innovazioni colturali

Negli ultimi anni le condizioni del grande possesso erano ben lungi dall'essere sostanzialmente migliorate.  I documenti pervenutici non consentono di scorgere in quale misura i progetti di rinnovamento delineati dal marchese Michele nel Mémoire sur la terre de Lery si fossero tradotti in concreti tentativi di attuazione: ma quel che sappiamo delle condizioni dell'azienda negli anni successivi ci induce ad escludere che si fosse riusciti a realizzare il drastico mutamento auspicato  dal marchese nella distribuzione delle superfici tra le varie colture, nelle rotazioni, nella disponibilità di bestiame.  Al di là di ogni altra considerazione, un ostacolo insuperabile dovevano avere rappresentato le persistenti difficoltà nella gestione, tradottesi in una serie di risultati economici non certo tali da incoraggiare nuovi sacrifici e grossi investimenti nella terra.  L'andamento dei prezzi dei principali prodotti non aveva rivelato sostanziali miglioramenti rispetto al difficile periodo precedente: nel 1830-34 il grano era rimasto praticamente fermo a una media di lire 18,04 l'ettolitro rispetto alle 17,99 del quinquennio precedente; e gli altri prodotti più importanti avevano realizzato incrementi quasi irrilevanti, passando il riso nostrano da una media di lire 23,98 l'ettolitro a lire 24,55, il granturco da lire 11,84 a 12,01, la segale da lire 11,38 a 12,21, l'avena da lire 6,85 a 7,27..  E ciò in un periodo in cui, se si sperimentavano buoni raccolti per il grano e il granturco, il brusone continuava invece a infliggere severe falcidie alla produzione principalissima del riso, e  si cominciavano appena a sperimentare quelle varietà più resistenti, come il bertone e l'ostiglia, che avrebbero consentito a poco a poco di fronteggiare e quasi eliminare la malattia.  Ne erano derivati, nel triennio 1832-34, per Leri, risultati economici che Cavour considerava tali da « spaventare » i proprietari; nel solo 1833 la perdita aveva superato, come s'è visto, le 36 000 lire,  cioè una cifra pari a quella che il marchese Michele calcolava come reddito netto annuo dell'azienda' prima del 1830 Assai buono dovette essere anche a Leri il raccolto del 1835, che fu in tutto il Piemonte un'annata di eccezionale abbondanza; ma in compenso si ebbe in quell'anno un tracollo dei prezzi, che portò il grano a lire 13,84 l'ettolitro, il livello più basso dal 1771. Non era certo in un periodo come quello che si poteva pensare alle grandi trasformazioni agrarie.

Cavour si rendeva ben conto dei vantaggi della rotazione usuale nel Vercellese, che si fondava, come sappiamo, su una netta prevalenza della risicoltura.
« De toutes les céréales - scriveva - le riz est celle qui épuise le moins le terrain, qui exige le moins de frais de culture, et qui s'adapte le mieux aux terres incultes qu'on veut mettre en culture.  Les terraíns fertiles produisent plus que les terrains pauvres: mais la différence de produit est moindre qu'elle ne serait pour le blé, le mais, et en général toutes les autres denrées agricoles »

Contro questa realtà avevano fatto naufragio i programmi di rinnovamento del marchese, imperniati, come sappiamo, sulla riduzione della coltura del riso a vantaggio dei prati; e Cavour, da parte sua, non fece alcun tentativo di riprenderli.  Nel 1842, a sette anni dall'inizio della sua gestione, i terreni a riso occupavano nella tenuta 1449 giornate, di cui 360 al Torrone, 584 a Leri e 505 a Montarucco: unite assieme, le risaie delle due ultime tenute giungevano a 1089 giornate.

Le rotazioni

La rotazione era quella comune nel Vercellese e segnava, con la scomparsa dell'annata di riposo, già consueta nelle risaie, un netto progresso in confronto ai primi del secoloAdesso si iniziava nel primo anno col granturco in terreno fortemente lavorato e concimato, si proseguiva nel secondo col grano, e nei tre successivi col riso, senza che si procedesse a nessuna ulteriore concimazione.
« Ainsi - osservava Cavour - l'on a cinq récoltes de céréales avec une seule fumure, sans qu'on s'aperçoive d'aucune diminution dans le pouvoir productif du sol ».  Se, come è ovvio, queste osservazioni del conte si fondavano soprattutto sull'esperienza fatta a Leri, va rilevata la scomparsa delle lagnanze per la insuffìciente letamazione dei terreni e per la conseguente regressione nel prodotto manifestate a suo tempo dal marchese, scomparsa da mettere anche in relazione alla generale adozione di una rotazione che non prevedeva più di tre annate consecutive di risaia, in contrasto con quanto generalmente praticato in passato.  Non già che adesso non si praticassero cicli di coltivazione a riso più lunghi:   « lorsqu'un terrain très fertile - osservava Cavour un pré, par exemple, est converti en rizière pour la première fois, il peut donner de suite díx à douze récoltes de riz abondantes ».  Tuttavia, egli era del parere che « un bon agriculteur fera bien de ne jamais faire produire à la méme terre, quelque soit sa fécondité, au delà de six récoltes successivés de riz »; e trovava criticabili le risaie stabili in uso nel Novarese, che giustificava solo nel caso di terreni con una porzione irrigua troppo ristretta e dunque da utilizzare interamente per il riso.  D'altra parte, se l'azienda impiegava adesso più forti quantità di letame - e possiamo soltanto supporlo, in mancanza di più precisi documenti - ciò era reso possibile, a quanto sembra, da migliori tecniche di coltivazione dei prati, dall'incremento degli acquisti di foraggio e di letame dall'esterno, dall'invio di una parte di bestiame ai pascoli alpini durante l'estate, piuttosto che dall'aumento della superficie a prato
 


Manodopera rurale femminile in una campagna vercellese nella slottatura del terreno.
 

Il tentativo di introdurre la coltivazione della barbabietola da zucchero

In realtà, una innovazione di ampia portata era stata sperimentata a Leri da Cavour proprio all'inizio della sua gestione, col tentativo di introdurre la coltivazione della barbabietola da zucchero alla quale sperava di associare uno stabilimento per la lavorazione del prodotto.  Appunto nel 1836-37 si moltiplicavano infatti, specie in Germania e in Francia (e non mancò qualche tentativo nell'Italia meridionale), gli sforzi per riportare in vita la produzione dello zucchero da barbabietola, dopo il crollo subito con la fine del blocco continentale, col quale si erano chiusi gli splendori che questa attività aveva conosciuto nell'età napoleonica.  Cavour aveva avuto notizia delle iniziative in corso, grazie specialmente all'amico ginevrino jean-Edouard Naville, e aveva richiamato su di esse anche l'attenzione del padre. Altrove, e soprattutto in Francia, la produzione cercava di affermarsi sotto l'egida di una vigorosa protezione doganale; ma il conte non dimenticava neanche adesso il suo intransigente liberismo:
« si vraiment le sucre de betterave ne peut étre produit que gráce à une espèce de monopole et de privilège nuisible à mon avis aux intéréts généraux, alors il ne nous aurait pas convenu d'en introduire l'industrie chez nous aurait été rendre un mauvais service à notre pays, et nous embarquer dans une entreprise périlleuse qui n'aurait pu réussir qu'autant que le pouvoir aurait été' dans des mains intéressées ou ineptes ».  Il problema da risolvere era dunque di realizzare costi di produzione che consentissero di affrontare in Piemonte la concorrenza degli zuccheri coloniali senza alcuna protezione daziaria.  Nel 1835 Cavour aveva cominciato con lo sperimentare a Grinzane la barbabietola da foraggio e il prodotto di una ventina di are di terreno, che resero 60,7 q di radici ( pari a circa 300 q per ettaro) lo incoraggiò a tentare la coltivazione della barbabietola da zucchero.  Prese dunque contatto col Duport , col quale negli stessi mesi veniva trattando anche l'acquisto del Torrone, e che proprio allora si era ritirato dalla codirezione della Manifattura di Annecy e Pont, massima impresa industriale del regno nella quale aveva acquisito un' esperienza di prim'ordine, e che si mostrò anch'egli assai interessato all'iniziativa.  Nonostante che a Cavour fosse riuscito solo di procurarsi una scarsa quantità di semente della barbabietola da zucchero, egli decise di proseguire l'esperimento tanto a Grinzane che a Leri, dove, nel 1836, fece seminare accanto alla piccola quantità disponibile di essa parecchie giornate di terreno a barbabietola da foraggio.  Se l'esperimento fosse riuscito, egli già pensava alla possibilità di introdurre la barbabietola come pianta miglioratrice nelle rotazioni in risaia; appena comprovata la possibilità di produrla a costi convenienti, si sarebbe passati all'impianto di uno zuccherificio a Leri, nel quale Cavour offriva di associare gli amici Hippolyte e P. Emile de la Rüe, e a cui l'azienda agricola dei Cavour avrebbe fornito la barbabietola a 10 franchi la tonnellata, ricevendone gratuitamente le polpe residuate dalla lavorazione, da destinare a foraggio.  Durante l'inverno e la primavera 1836-37 proseguirono intensamente gli studi e le discussioni tra gli interessati, attenti specialmente all'andamento della produzione e del mercato in Francia. Sulla base delle esperienze francesi Cavour riteneva che si sarebbe dovuta ottenere una produzione di 1163 rubbi di barbabietole a giornata, pari a 282 q per ettaro, che, al prezzo corrente in Francia, avrebbero assicurato il reddito elevato.  Difficile però determinare il rendimento medio in zucchero, che in Francia si era indicato al 4,5%, pure riconoscendo che in realtà doveva essere più elevato. Comparando i costi di produzione prevedibili in Piemonte con quelli francesi, Cavour calcolava « une dépense beaucoup plus forte en combustible »; ma del resto sperava in una « forte économie sur la main d'oeuvre et sur le prix des betteraves »In conclusione, egli credeva di poter dire che « l'agriculteur fabricant piémontais peut produíre du sucre brut à meilleur marché que le fabricant français, et qu'il peut en conséquent, malgré
la différence des prix dans les deux pays, faire d'égaux bénéfices ». Ma, ciò nonostante, la decisione fu negativa. 

Cavour la spiegava con il rischio che, in una industria ancora agli inizi, intervenisse qualche improvvisa innovazione tecnica atta a sconvolgere tutti i calcoli fatti in precedenza: e può essere che a spingerlo su queste posizioni, non certo pionieristiche, contribuisse anche il padre, presto convertitosi a un radicale scetticismo nei confronti di ogni tentativo di produrre in Piemonte zucchero nazionale.  Il conte si proponeva comunque di insistere nella coltivazione della barbabietola, e di darvi anzi « une grande extension dans nos terres », dove essa trovava « déjà un emploi avantageux comme nourriture pour le gros bétail », in maniera che potesse essere « acclimatée parmi nous », e diventare « partie de notre système agricole ». A parte la possibilità che in tal modo Cavour voleva garantirsi di passare « d'un moment à l'autre » alla fabbricazione industriale dello zucchero, quando l'occasione si fosse presentata, l'introduzione su larga scala della barbabietola da zucchero nell'agricoltura piemontese avrebbe potuto essere di per sé sola un fatto rivoluzionario e di vastissime conseguenze, per le modifiche ch'essa avrebbe recato nelle rotazioni, nella posizione relativa del granturco.   Ma anche su questo terreno il tentativo si risolse in un fallimento, a Leri non meno che a Grinzane : e nel 1841 Cavour includeva nel suo studio sulla produzione degli Stati di Terraferma la notizia che « la betterave saccharine n'est presque pas cultivée en Piémont », spiegando il fallimento del tentativo di creare un'industria dello zucchero indigeno con l'elevatezza dei costi di produzione.
« Quelques essais ont été faits à l'époque où l'engouement pour cette culture était porté en France à un excès si déraisonnable.  Le sucre fabriqué en suite de ces essais tentés en Piémont étant revenu beaucoup plus cher que celui que l'on tire des Indes Occidentales, on a aujourd'hui totalement renoncé à cette culture.  Notre gouvernement a eu d'ailleurs la sagesse de ne point encourager cette industrie factice qui cause à la France de si grands embarras »
In Italia si dovrà attendere ancora mezzo secolo perché nasca l'industria dello zucchero nazionale (1887). E' probabile che il fallimento di questo tentativo abbia avuto la sua parte nel persuadere Cavour della difficoltà di modificare le rotazioni tradizionali dell'agricoltura piemontese, e in particolare nel convincerlo che ogni suggerimento inteso a sostituire la barbabietola al granturco fosse senz'altro erroneo.

 


  Fonte bibliografica: Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, Laterza 1969 ( vol.1°) - L'attività agricola e i suoi problemi, pp. 641- 656
 

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