Una
rivolta violenta e fine a se stessa. La libertà come disperata vendetta e
riappropriazione delle terre
G. Verga -
da
Novelle rusticane -
Libertà
Pellizza da
Volpedo - Il quarto stato
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Ma il
peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici
anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si
era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio,
gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la
bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anche esso
su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli
aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l'aveva sfracellata; nonostante
il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come
aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna,
dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse
dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia. -
Un altro gridò: - Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l'ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te'! Te'! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d'oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La
baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti
piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la
pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da
rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva
la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata,
scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - I
campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di
pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al
seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per
quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio
maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anche esso, puntellava
l'uscio colle sue mani tremanti, gridando: L'altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte. Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano si era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! - Il casino dei 'galantuomini' era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l'ombra si impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! - Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei 'cappelli'! - Se non c'era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei 'galantuomini'! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure. Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito
ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i
primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare
addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che
gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie
lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del
paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i
mortaletti della festa. Le loro
donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai
solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade
color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la
strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla
città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto
bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i
loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il
cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell'ombra
perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni,
rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne
ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano
col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né
come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane
bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si
accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le
arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un
bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla.
Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I
'galantuomini' non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la
povera gente non poteva vivere senza i 'galantuomini'. Fecero la pace.
L'orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella
cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che
aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la
faccia, all'uscire dal carcere, egli ripeteva: Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che si era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici 'galantuomini', stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come
rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era
quasi pallido al pari degli accusati, e disse: Il
carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: |
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