Una vita è il romanzo d’esordio di
Ettore Schmidt, in arte Italo Svevo, uno dei più grandi scrittori italiani del
primo Novecento. L'opera fu iniziata nel 1887, ma pubblicata a spese
dell'autore solo nel 1982.
Ne è protagonista
Alfonso Nitti, un giovane
colto, ma economicamente disagiato, che dall’amato paese natale si
trasferisce in città per lavorare presso la banca Maller. Qui la nostalgia
della campagna lo assale, mentre il lavoro in banca si fa sempre più duro,
carico di responsabilità ed avaro di soddisfazioni. Saranno solo i primi
incontri in casa Maller, dove Alfonso si reca timoroso, a rendergli la vita
meno triste. Lo farà soprattutto l’amicizia ambigua ed altalenante che
nascerà con la figlia del principale,
Annetta, la quale proporrà ad
Alfonso la stesura di un romanzo a
quattro mani. Gli incontri con la giovane diverranno molto frequenti,
mentre l’amore del protagonista nei
confronti di Annetta crescerà, rendendo il loro rapporto più stretto
nonostante l’apparente freddezza della ragazza.
Tuttavia, la lunga malattia e la successiva
morte della madre di Alfonso
divideranno i due per un lungo periodo, al termine del quale il
protagonista farà ritorno in città scoprendo una situazione fatale per il
suo fragile equilibrio: Annetta,
infatti, si è fidanzata con il cinico cugino
Macario. Nonostante i propositi di
rinuncia, il protagonista tenta di instaurare un legame con la ragazza
chiedendole un ultimo appuntamento. Al posto della giovane, però,
si presenta il
fratello
di Annetta, Federico Maller, il quale da sempre si era dimostrato
ostile nei confronti del protagonista e della sua relazione con la sorella.
Maller provoca Alfonso fino a risolversi di sfidarlo a duello, scontro al
quale Nitti
si sottrae, nauseato, scegliendo come estrema soluzione il suicidio.
La vera innovazione risiede nella tematica
presentata dall'opera. Una vita, infatti, viene considerato un
romanzo novecentesco, assai all'avanguardia rispetto ai canoni seguiti negli
anni in cui vede la luce.
Alfonso
Nitti
è un uomo solo, scisso dalla società in cui vive ed in particolare dal mondo
cittadino che lo accoglie con tutta la sua freddezza ed al quale il giovane
oppone, come già sottolineato, una progressiva introversione.
Un
inetto
era il primo titolo cui aveva pensato l’autore per questo scritto e non può
sfuggire l’assonanza di questo aggettivo con il cognome Nitti del
protagonista. Nel romanzo di Svevo, oltre all’aspetto psicologico, è
presente un’attenta analisi sociale.
L’autore, la cui esperienza di impiegato di banca possiamo sovrapporre a
quella di Alfonso Nitti, parla di
due mondi divisi da un confine invalicabile. Alfonso tenta l’impresa, quella
di farsi spazio in un universo che gli è estraneo. Cerca di costruire
un rapporto con la giovane Annetta, figlia di un banchiere, figura legata
all’alta borghesia capitalista. Ne esce però
sconfitto, abbandonato di
fronte alla solitudine, al disprezzo e alla morte.
Al di là dell'argomento sociale, è tuttavia
quello dell’inettitudine il
fulcro del romanzo. Svevo infatti -e lo farà anche nei successivi romanzi-
costruisce un antieroe che
vive continuamente in bilico tra la voglia di affermazione, la
consapevolezza della propria superiorità nei confronti del volgare mondo
esterno e la propria innata
incapacità di azione, lo
scoramento che essa comporta. Alfonso farà continui progetti di
rinascita buttandosi sulla composizione di opere filosofiche e letterarie,
su uno studio assiduo in grado di distrarlo. Purtroppo, però,
egli resterà sempre uguale a se
stesso e la vita non lo porterà a nessuna maturazione. Anche il gesto finale
di ribellione, il suicidio, l'unico momento nel quale Alfonso sembra
assumere le sembianze dell’eroe, si trasforma in un dovere eseguito
stancamente. La scelta suprema si riduce così ad un compito svolto
meccanicamente, come quelli che ogni giorno il protagonista esegue nella
banca Maller. Nemmeno il gesto estremo riuscirà a mutare questa prospettiva
di vita.
Negli anni in cui nella letteratura si muovono
altri eroi come quelli incarnati dal superuomo di D'Annunzio, l’autore
triestino crea un personaggio la cui
inettitudine non ha nulla di nobile, essendo la causa stessa della sua
marginalità. La stessa Trieste, città che in quegli anni viveva una
dinamica fioritura culturale grazie anche alla propria funzione di ponte tra
mondo latino e Mitteleuropa, si riduce ad una città squallida e grigia che
evidenzia la debolezza del protagonista. Svevo crea quindi un antieroe che,
portando avanti le proprie difficoltà in un ambiente del tutto ostile,
giunge al compimento di un gesto tragico.
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Le ali del gabbiano
La sua compagnia doveva piacere a Macario. La cercava di spesso; qualche
sera gli usò anche la gentilezza di andarlo a prendere all'ufficio.
Ad Alfonso non sfuggì la causa di quest'affetto improvviso. Lo doveva
alla sua docilità e, pensò, anche alla sua piccolezza. Era tanto piccolo
e insignificante, che accanto a lui Macario si trovava bene. Non si
compiacque meno di tale amicizia. Le cortesie, anche se comperate a caro
prezzo, piacciono. Non disistimava Macario. Per certe qualità ammirava
quel giovine tanto elegante, artista inconscio, intelligente anche
quando parlava di cose che non sapeva.
Macario possedeva un piccolo cutter e frequentemente invitò Alfonso a
gite mattutine nel golfo. Nella sua vita triste, quelle gite furono per
Alfonso vere feste. In barca gli era anche più facile di dare il suo
assenso alle asserzioni di Macario e in gran parte non le udiva. Si
trovava ancora sempre alla conquista della solida salute che gli
occorreva, riteneva, per sopportare la dura vita di lavoro a cui faceva
proponimento di sottoporsi, e gli effluvi marini dovevano aiutarlo a
trovarla.
Una mattina soffiava un vento impetuoso e alla punta del molo, ove si
trovavano per attendere la barca che doveva venirli a prendere, Alfonso
propose a Macario di tralasciare per quella mattina la gita che gli
sembrava pericolosa. Macario si mise a deriderlo e non ne volle sapere.
Il cutter si avvicinava. Piegato dalle vele bianche gonfiate dal vento,
sembrava ad ogni istante di dover capovolgersi e di raddrizzarsi
all'ultimo estremo sfuggendo al pericolo imminente. Alfonso da terra era
colto da quei tremiti nervosi che si hanno al vedere delle persone in
pericolo di cadere e fu solo per la paura delle ironie di Macario che
non seppe lasciarlo partir solo.
Ferdinando, un facchino ch'era stato marinaio, dirigeva la barca. Lasciò
il posto al timone a Macario il quale sedette dopo toltasi la giubba
quasi per prepararsi a grandi fatiche:
- Ora fuoco alla macchina, - gridò a Ferdinando.
Ferdinando scese a terra e trascinò il cutter per l'albero di prora da
un angolo del molo all'altro; poi, un piede puntellato a terra, l'altro
sul cutter, lo spinse al largo.
Alfonso lo guardò tremando; temeva di vederlo piombare in acqua e, per
quanto piccolo, l'imminenza di un pericolo lo faceva sussultare.
- Che agile! - disse a Ferdinando.
Gli pareva d'essere in mano sua e aveva il desiderio quasi inconscio
d'amicarselo. Ferdinando alzò il capo, giovanile ad onta del grigio
nella barba e della calvizie abbastanza inoltrata, e ringraziò. Non
essendo suo il mestiere, ci teneva molto ad apparire abile. Comprese
però male lo scopo della raccomandazione. Trasse con forza a sé la vela
e la fissò, aiutando poscia a tenderla con tutto il peso del suo corpo.
Immediatamente il vento che pareva sorgesse allora la gonfiò e la barca
si piegò con veemenza proprio dalla parte ove sedeva Alfonso.
S'era proposto di far mostra di grande sangue freddo, ma i propositi non
bastarono all'improvviso spavento. Poté trattenersi dal gridare ma balzò
in piedi e si gettò dall'altra parte sperando di raddrizzare la barca
con il suo peso. Si tranquillò alquanto sentendosi più lontano
dall'acqua e sedette afferrandosi con le mani alla banchina.
Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua
calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il
cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle
prendere l'aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all'orizzonte
delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi.
Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale
tagliavano l'acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a
sfracellarsi sui sassi che la contornavano.
- Sa nuotare? - gli chiese Macario con tranquillità. - Alla peggio
ritorneremo a casa a nuoto. Ma - e finse grande preoccupazione - anche
se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo
perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?
Ridendo sgangheratamente, costui lo promise.
Coi suoi modi da pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli
effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica,
l'arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto
della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire
lui e la sua paura.
- Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per
esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno
l'abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, - e fece una
strizzatina d'occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano
nervosamente sulla banchina.
E passarono accanto al verde Sant'Andrea senza che Alfonso potesse
padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.
La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un
grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto
tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva
essere mal di mare e provocò l'ilarità di Macario dicendoglielo.
- Con questo mare!
Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano
larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente
perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie.
Nella diga c'era un romoreggiare allegro come quello prodotto da
innumerevoli lavandaie che avessero mosso i loro panni in acqua
corrente.
Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a
Ferdinando di accorciare le vele.
Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette
passarci dinanzi due volte.
Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che
Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come
la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti
di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le
grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionatamente piccolo
coperto da piume leggiere.
- Fatti proprio per pescare e per mangiare, - filosofeggiò Macario. -
Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che
cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da
negligersi! Quello ch'è la sventura del pesce che finisce in bocca del
gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l'appetito
formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così
dall'alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col
pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a
nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non
gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito
sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come
fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato
in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.
Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero
nell'agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.
- Ed io ho le ali? - chiese abbozzando un sorriso.
- Per fare dei voli poetici sì! - rispose Macario, e arrotondò la mano
quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che
abbisognasse di quel cenno per venir compreso.
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