L. Pirandello - L'identità del soggetto finisce per annullarsi nel proliferare di mille vane forme - Uno, nessuno, centomila


F. Depero - I selvaggi rossi


Carrà, Ovale delle apparizioni


Uno, nessuno, centomila - 1926

Il titolo del romanzo pirandelliano è un’ efficacissima chiave di lettura della tematica dell'identità e può guidare nell’ interpretazione di un lavoro letterario così ricco di sottili passaggi logici. In apertura il protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre di non essere per gli altri quell’ UNO che crede di essere per sé. La moglie Dida, svelandogli che il suo naso pende verso destra, ha squarciato tutte le sue certezze, avviando una riflessione sull’ intera esistenza. Nell’ autoanalisi emerge la diversità psicologica dagli altri, una sorta di malattia della volontà che rende il protagonista  immerso nella propria dimensione personale fatta di continua introspezione. Egli vive: "con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini": ecco visualizzata la frantumazione del reale che conduce dall'univoca identità (l'UNO ) alla poliedrica pluralità di forme (CENTOMILA) e sfocerà infine nel nulla (NESSUNO).

Vitangelo allo specchio, simbolo dell’io davanti a se stesso, scopre di vivere senza "vedersi vivere". Si getta all’inseguimento dell’ estraneo inscindibile da sé, che l’alterità conosce in centomila identità differenti. Il protagonista si stacca dal proprio "fantoccio vivente", per se stesso è ormai nessuno: la distruzione dell’ io è consumata. Se ognuno di noi è "Uno, nessuno e centomila" anche la realtà perde la serena e fittizia oggettività e si scompone all’ infinito nel vortice del relativismo. L’uomo è un’ artificiale costruzione ligia alle convenzioni sociali e contrapposta alla natura, priva di componenti artificiali.
Maschera creata dagli altri, fantoccio della moglie, è il "caro Gengè", amato teneramente da Dida fino a trasformare Vitangelo in un’ ombra vana.
L’io del protagonista, inesorabilmente frantumato, non può identificarsi nella persona (in senso etimologico di "maschera" sociale) del Signor Moscarda con quel cognome "brutto fino alla crudeltà" che ricorda un "fastidio ronzante" e lo lega al padre. Sì ,il padre "banchiere–usuraio" che lo ha ingabbiato nel ruolo di "buon figliuolo feroce": ecco un’altra marionetta nel "gioco della parti" della vita.

L’aspirazione di Vitangelo è rimanere al di là dello specchio, essere un "uomo nella vita, Un uomo così e basta". E’ possibile? Il lettore, affascinato, si interroga sul modo di sottrarsi al divenire umano, alle opinioni dell’ alterità; in astratto, tuttavia, "non si è" , la vita si snoda nel tempo e nello spazio. Vitangelo, alla ricerca di una via di fuga dai centomila estranei a sé che vivono negli altri, decide di uccidere le sue "marionette" ma, per aver voluto dimostrare di non essere ciò che si credeva, è ritenuto pazzo: la gente non vuole accettare che il mondo sia diverso da come lo immagina.
Non c’è via di fuga: Vitangelo assapora il piacere di "alienarsi" da sé ma scopre poi, suprema disillusione, che le marionette possono impazzire ma non si possono distruggere. Il protagonista sopraffatto dagli altri, non riesce a sostenere nemmeno lo sguardo della cagnetta, maltratterà anche la moglie; estrema ribellione di chi sente gli altri dentro di sé e manca a se stesso.

La decisione di vendere la banca del padre per uccidere l’usuraio Moscarda,che si nasconde in lui fa sorgere un "punto vivo", una volontà che lo fa essere Uno. Questo atto, per tutti assurdo crea attorno a lui un vuoto in cui si inserisce Anna Rosa, donna dalla psiche molto simile alla sua: Frantuma la propria identità atteggiandosi davanti allo specchio, vorrebbe fermare la vita per conoscersi. Vitangelo invece va verso l’annientamento perché "nulla vale essere per sé qualcosa". La vicinanza simpatetica tra le due psicologie conduce al delirio del ferimento di Anna Rosa. Ci si avvia verso l’oblio totale del mondo, delle maschere, dei doveri della vita associata, incarnati dal giudice. Vitangelo, avvolto nella coperta verde di convalescente, "naufraga dolcemente" nella serenità della natura, senza passato né futuro.
Estraniarsi da sé e sentirsi "parte anonima della vita biologica" è l’unica via per fuggire alle centomila costruzioni che falsificano la realtà e la imprigionano in un nome, immutabile come un’ epigrafe funeraria.
La vita "non conclude" ed è un divenire palpitante: Meglio, dunque ,essere nessuno poiché l’essere uno si è rivelato un’ illusione di fronte allo svelarsi delle centomila maschere.

La frantumazione dell’ io appare completa : il protagonista si dissolve nella natura, nel ciclo di continua disgregazione e rigenerazione delle cose: ordine e progresso sono, per l’autore, soltanto presunzioni umane. Specchio della dissoluzione dell’ io è lo scompaginamento dell’ ordine narrativo controllato dall'alto, la logica tradizionale del romanzo è provocatoriamente violata: Le riflessioni del protagonista offuscano la trama, rallentano il ritmo narrativo. Non i fatti ma la vita interiore del "Fu Vitangelo Moscarda" sono messi in rilievo.

liberamente trarto da http://users.libero.it/leuzzi/pirandello.html

 

Grafo strutturale dell'opera



IV. Non conclude

         Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all'ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell'ospizio.
         Non mi sono piú guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per ll capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato cosí diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d'obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse.
         Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d'oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest'albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
         L'ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all'alba, perché ora voglio serbare lo spirito cosí, fresco d'alba, con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d'acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d'ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d'erba, teneri d'acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell'asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraie qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l'aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com'è, che savviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero sí metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
         La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, a pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l'ho piú questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori. 
 

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