Egli è quello che piange e ride senza perché, di
cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che
nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci
fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia
pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende
tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amare e di dolce, e
facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l'amore,
perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra
un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna.
Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare,
ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico,fa
echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio
dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha
ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi
andiamo per i fatti nostri, ché ora vuoi vedere la cinciallegra che canta,
ora vuoi cogliere il fiore che odora, ora vuoi toccare la selce che riduce.
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo
tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e
ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e
sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e
relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più
piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che
ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere,
ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di
chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due
pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà
un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una
volta....
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Nello scritto teorico intitolato Il fanciullino,
pubblicato nel 1897 e nella sua redazione definitiva nel 1902, Pascoli espresse meglio che altrove i canoni della sua poetica.
Pascoli qui si inquadra in tutta una corrente di fine Ottocento
(particolarmente operante in Francia) che mira a
superare i confini logico-razionali entro i quali prima sembrava dovesse
limitarsi la poesia; ma egli, anziché imboccare, in questo
superamento, la dimensione visionaria o teorizzare l'impegno di dar voce
all'inesprimibile ( Rimbaud ), fa regredire
l'attività poetica a stupori infantili, a capacità
prelogica, a tinnulo squillo di campanello
che ancor può echeggiare nell'incallito animo dell'uomo adulto (ed è qui
l'origine di tanti suoi atteggiamenti pargoleggianti, di quei toni
lamentosi che di frequente si incontrano nella sua produzione). Visione,
questa, che da un lato non può portare alle sperimentazioni espressive
consentite ad altre poetiche anch'esse irrazionalistiche, dall'altro va
collegata a quella scoperta dell'infanzia
(o
regressione nell'infanzia) come fuga dalla storia che è tanta parte
dell'ideologia pascoliana.
Sul «fanciullino» ha scritto Giorgio Bàrberi Squarotti:
L'interpretazione del discorso sul «fanciullino» è sempre stata (dal Croce
al Binni fino al Salinari) poco comprensiva per le ragioni del Pascoli:
il linguaggio volutamente dispersivo, non
raziocinante, ma procedente per intuizioni, spunti, illuminazioni
improvvise, ha portato gli interpreti a restare sul piano della lettera (cioé
all'immagine del «fanciullino», usata allora per definire la poetica e la
poesia del Pascoli come una sorta di bamboleggiamento, ovvero come
l'esplicazione di un'attenzione per le piccole cose, immediataménte colte
con vergine sguardo), senza scendere nel reale significato del simbolo.
In realtà, il Pascoli, mentre respinge l'idea di una poesia «applicata»
(cioè civile, morale, politica, ecc.), e dichiara che la grande poesia è
rara e di breve durata, in consonanza con la linea ottocentesca e
novecentesca della «poesia pura» (come ha molto
felicemente indicato l'Anceschi), si serve dell'immagine del «fanciullino»-sia
per segnalare il modo assolutamente nuovo della sua
ottica poetica, che è rovesciata rispetto a quella consueta, normale,
obiettiva (cioé «adulta», nel senso della conoscenza razionale e
scientifica), e privilegia l'apparire sull'essere, onde
può
capovolgere i rapporti fra le dimensioni, i luoghi, gli oggetti. In più, il
«fanciullino» significa il privilegio accordato a ciò che è pre-razionale di
fronte alla scienza e alla ragione: l'invenzione rispetto alla
riproduzione realista, iI sogno rispetto al «vero», la «distrazione»
rispetto alla logica, l'arbitrarietà del segno e della parola contro la
normalità comunicativa.
In questa prospettiva, la stessa «poetabilità»
degli oggetti è sottoposta a scelta: che è, appunto, quella arbitraria di
uno sguardo che si è liberato ormai completamente dalle buone regole di
decoro di «classe», a cui la tradizione italiana aveva sottoposto il
«poetabile». E' un'idea anti-realistica della poesia
e delle sue funzioni: ma è anche uno dei punti più avanzati (alla
fine dell'Ottocento) della meditazione di poetica in Italia, in consonanza
con la poesia moderna in Europa.
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I
due fanciulli
Era il tramonto: ai garruli
trastulli
erano intenti, nella pace d'oro
ombroso viale, i due fanciulli.
Nel gioco, serio al pari d'un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de' tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
A sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l'uno e l'altro, esangue,
ne' tenui diti si trovò gli artigli,
e in cuore un'acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l'uno dell'altro per il volto, il sangue!
Ma tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,
ed «A letto» intimasti «ora, cattivi!»
A letto, il buio li fasciò, gremito
d'ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d'ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L'uno si volse, e l'altro ancor, leggero:
nel buio udì l'un cuore, non lontano
il calpestìo dell'altro passeggero.
Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l'uno all'altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
e rincalzò, con un sorriso, il letto.
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all'ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a' silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d'un'ape dentro il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d'aver fratelli in suo timor, non erra.
Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch'ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini
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Nella composizione I due fanciulli troviamo richiamate - a
livello simbolico - alcune tesi della prosa. I fratelli ( due fanciullini
) di giorno si azzuffano, si accapigliano irrazionalmente e la madre è
costretta a dividerli. A letto, mentre le ombre della sera e della notte
emergono, altrettanto istintivamente si riavvicinano e si abbracciano nel
sonno, a sancire una serenità magicamente ricostruita. I due fratelli sono
simbolo dell'umanità, invitata dal poeta ad ascoltare la bontà
istintiva della natura ed incline alla pace, qualora faccia emergere i
migliori istinti legati all'infanzia. La pace tra gli uomini e l'emergere
della loro umanità è naturalmente anche una finalità del poeta
fanciullino.
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La mia
sera Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E`, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don... Don... E mi
dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.
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In questa poesia - forse meglio che in altre - è rintracciabile l'eco di un
vivo intenerimento e di un languido ripiegamento
sull'infanzia, momento di pace ed
aproblematica serenità.
La poesia di Pascoli si regge molto spesso su queste forme di regressione, che
accostano emotivamente il presente alle memorie della sua prima età ed a
quelle della madre buona e confortevole. La figura materna,
precocemente mancata, ha causato il trauma insanabile
nella psicologia di Pascoli, che alimenta poeticamente le sue allucinate
visioni di una natura animata da ancestrali e misteriose presenze.
Il momento della sera,
diviene ancor più emblematico, poiché affianca la simbologia della quiete a quella della
morte. Accanto alla memoria della madre che sembra far positivamente
regredire il poeta ad una quieta memoria infantile, si insinua
pericolosamente dunque l'eco angoscioso della morte,
che come pace perpetua, diventa l'unico momento capace di
ricongiungere davvero alle persone care.
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