D'Annunzio - Il notturno
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Da "Notturno"
o "Commentario delle tenebre" Usciamo. Mastichiamo la nebbia. La città è piena di fantasmi. Gli uomini camminano senza rumore, fasciati di caligene. I canali fumigano. De i ponti non si vede se non l'orlo di pietra bianca per ciascun gradino. Qualche canto d'ubriaco, qualche vocio, qualche schiamazzo. I fanali azzurri nella fumea. Il grido delle vedette aeree arrochhito dalla nebbia. Una città di sogno, una città d'oltre mondo, una città bagnata dal Lete o dall'Averno. I fantasmi passano, sfiorano, si dileguano. Non so se io abbia più sete d'acqua o più sete di musica o più sete di libertà. Sento il sole dietro le imposte. Sento che c'è un'afa di marzo chiara e languida sul canale. Sento che è bassa marea. La primavera entra in me come un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, in una sonnnolenza rotta di sussulti e di tremori. Ascolto. Lo sciacquio alla riva del battello che passa. I colpi sordi dell'onda contro pietre grommose. Le grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le loro risa stridenti, le loro pause galleggianti. Il battito di un motore marino. Il chiocciolìo sciocco del merlo. Il ronzio lugubre d'una mosca che si leva e si posa. Il ticchettio del pendolo che lega tutti gli intervalli. La gocciola che cade nella vasca da bagno. Il gemito del remo nello scalmo. Le voci umane nel traghetto. Il rastrello su la ghiaia del giardino. Il pianto d'un bimbo non racconsolato. La voce di donna che parla e non s'intende. Un'altra voce che dice: "A che ora? a che ora?"
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