La coscienza di Zeno (
1925 )
Il più noto tra i libri di
Italo Svevo e considerato il
primo romanzo psicologico del Novecento,
già
dal suo inizio sconvolge le regole narrative tradizionali: esso si presenta,
infatti, come l’attuazione di un consiglio dato dal
suo medico psicoanalista al protagonista Zeno Cosini: quello di scrivere la propria
autobiografia come di preparazione per una più profonda terapia
analitica.
Introdotto da una nota polemica dello stesso dottore, si apre al lettore
il diario del passato di Zeno..
Già dalle prime
pagine si capisce, però, che non si tratta di un’autobiografia
cronologicamente ordinata quanto di un “monologo
interiore” in cui il protagonista accenna alla
tappe significative della sua esistenza. Alla sua infanzia,;
alla dolorosa morte del padre che, proprio in punto di
morte, riconferma ulteriormente il rapporto conflittuale e problematico con
il figlio, al suo matrimonio con una delle due sorelle Malfenti (quella che
amava meno), alla sua relazione con una povera ragazza, all’amicizia con
Guido Spaier (che si suiciderà per debiti) e al suo ruolo nella società commerciale
dell’amico. Ne appare un insieme fatto di mediocrità,
occasioni mancate, propositi mai attuati che fungono da alibi
dell’incapacità di tener loro fede (esempio
tipico di tali ondeggiamenti della coscienza il proponimento
mai attuato di smettere di fumare). Il tutto situato
in un tempo indefinito:: questo infatti, nella
memoria di Zeno, si dilata e si restringe a seconda delle sue esigenze
interiori (il protagonista, che termina le sue memorie nel 1916,
racconta eventi accaduti tra il 1890 e il 1895, ma non dà notizia del resto
degli anni trascorsi) e la sua voce in prima persona
non garantisce l’attendibilità delle cose narrate.
E non perché Zeno
menta, ma perché il suo io “malato” non è più il
possessore della verità e la coscienza manipola i contenuti che le arrivano
dall’inconscio, come insegna Freud,
ed anche il filosofo Bergson,
scopritore del tempo psicologico, soggettivo, oltre a quello logico e oggettivo.
Nelle pagine finali, intitolate proprio Psicoanalisi, Zeno dichiara
di voler abbandonare la terapia psicanalitica,
frutto di ulteriore tormento e abulia per l’animo, che
rimane come imprigionato nell’eccessiva presa di coscienza e non riesce a
reagire. Nella finzione del romanzo è lo psicanalista a
pubblicare il diario di Zeno, per vendicarsi dell’ abbandono del paziente. E
allora nel finale il romanzo prende un tono apocalittico: vi si immagina
l’uomo che, in possesso di un “esplosivo incomparabile”, dopo averlo
collocato al centro della terra, assisterà a una violenta esplosione in cui
essa, “ritornata alla forma di nebulosa, errerà nei cieli priva di
parassiti e malattie”.
tratto da
http://www.sapere.it/tca/minisite/scuola/Grandi_Classici/html/id8013.html
|
Preambolo
Vedere
la mia infanzia? Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti
forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse
tagliata da ostacoli d'ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e
qualche mia ora.
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano.
Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni
e i sogni della notte prima. Ma un po' d'ordine pur dovrebb'esserci e per
poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi
giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito,
comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d'intenderlo,
ma molto noioso.
Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la
matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla
mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io
lo vedo. S'alza, s'abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli
ch'esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la
matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di
tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.
Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L'esperimento finì nel
sonno piú profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la
curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa
d'importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.
Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo
delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio
passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle
innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora
capitata qui!
Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo
sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce.
Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi
somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a
mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani
tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare
la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la
tua, dell'importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e
della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi
mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti
ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo
alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore
e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come
fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno - fantolino! - si va
facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un
reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i
tuoi minuti possono essere puri. Eppoi - fantolino! - sei consanguineo di
persone ch'io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri,
ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.
Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò
domani.
|
Si tratta di un autoironico tentativo di riappropriarsi del proprio passato.
C'è la consapevolezza che la psicanalisi, come forma di cura delle
nevrosi, non può essere utile all'uomo, ormai coinvolto dalle mille
contraddizioni del vivere all'inteno di in una società complessa e caotica.
L'unica salvezza, per ridare unità alla propria coscienza è
riapproprirasi in modo intelligente ed indulgente del
proprio passato attraverso la scrittura, che
consente di dare veste artistica alla banalità ed alla casualità delle
varie esistenze.
|