G. Flaubert: la  contraddittoria personalità di Madame Bovary


Nel personaggio di Emma Bovary, protagonista del romanzo omonimo di G. Flaubert si incarna forse per la prima volta - nell'ambito della letteratura che si apre ai problemi della moderna società industriale - la dinamica contraddittoria di una personalità femminile chiusa nel ristretto ambito della vita matrimoniale e familiare, senza alcuna compensazione esistenziale e culturale a livello di ambiente esterno. L'identità femminile costituisce una problematica certo specifica e complessa a livello storico, ma il romanzo ha il pregio di isolare alcune delle condizioni che rendono riconoscibile ed emblematica la nuova posizione della donna.

 Oggettivamente l'alienazione di Emma ( nutrita di letture romantiche e naturale sognatrice di avventure ) si produce nello scontro con l'ambiente gretto e ristretto della provincia, che fa sentire tutta la pochezza delle quotidiane esperienze di vita della moglie-madre sola e inevitabilmente trascurata.  Tuttavia la liberazione da questa condizione  non è così facile e naturale, come il sogno che si nutre attraverso le letture dei romanzi. Anzi proprio quelle letture distanziano pericolosamente dalla realtà e la fuga ricercata prima nelle avventure extraconiugali e poi nell'inutile sfarzo dell'eleganza, pagata a costo di debiti e menzogne, riduce la nostra eroina della libertà a vittima sacrificale della violazione dell'ordine morale di quella società. Emma pagherà con il suicidio la colpa di essersi abbandonata superficialmente al vagheggiamento di un'altra vita, socialmente e storicamente impossibile da vivere.

Quindi una nuova identità femminile, più matura e consapevole, in Emma Bovary stenta a crescere, in quanto nella sua personalità coesistono purtroppo  tutte le contraddizioni di una cultura romantica in declino, ma pure pronta ancora a suggestionare menti e coscienze con i suoi falsi idoli ( l'amore avventuroso e fatale, il fascino del bel mondo, la miracolosa bellezza della capitale ).
 

Madame Bovary ( 1850 )

Scritto in cinque lunghi anni, questo romanzo apparve per la prima volta a puntate sul Revue de Paris, tra il 1 ottobre ed il 15 dicembre del 1850: era stato scritto da Gustave Flaubert. E’ oggi considerato il più famoso fra i romanzi francesi, nonostante abbia tratto origine da un fatto realmente accaduto ed opportunamente rielaborato dall’autore. Madame Bovary segna una data storica per la letteratura francese, avendo portato a compimento il percorso realistico iniziato da Henry Murger e Chamfleury: ogni personaggio viene studiato fino nei minimi particolari, ed Emma, pur nella sua concretezza e reale esistenza, spicca fra tutti i personaggi della provincia diventando un simbolo, un prototipo universale. E’ colei, o colui, che pur non avendone i mezzi fisici e psicologici, ritiene di meritare di più di quanto la vita, ed il suo stesso comportamento, gli abbiano fatto ottenere fino a quel momento: è il feroce desiderio degli spiriti insoddisfatti, con ambizioni ed aspirazioni lontane dalla realtà delle cose e delle persone. Rappresenta "il fastidio del quotidiano e la nostalgia dell’impossibile".


Charles Bovary , officer de santé, sposa una vecchia e ricca vedova dal carattere impossibile, e con lei si trasferisce in un piccolo villaggio della Normandia, Tostes. Qui impiega il suo tempo visitando gli ammalati ed alcuni vicini, fra di essi specialmente il coltivatore Rouault, invaghendosi nel frattempo della figlia di quest’ultimo, Emma.

Alla morte dell’anziana moglie, Charles ottiene la mano della bella Emma: si tratta di una ragazza raffinata, elegante e romantica, che presto si stufa della vita insulta condotta dal marito. Per cercare di sottrarre la moglie alla noia che sembra pervaderla, Charles si trasferisce in un altro paese, Jonville-l’Abbaye, ma sembra tutto inutile: la nascita della prima figlia Berta e il flirt con uno scrittore notarile, tale Leon Dupuis, attenuano appena la sua noia di vivere.
Ma il vero problema nasce allorché Leon parte per Parigi, lasciando Emma sola: a questo punto ha gioco facile un seduttore locale, il proprietario terriero Rodolphe Boulanger. La relazione ha però un triste epilogo: Emma è possessiva e romantica, gelosa e sensibile, mentre Rodolphe ama la sua libertà. L’amante quindi si rifugia a Parigi, lasciando Emma in preda ad una febbre cerebrale, per non dire isterica.

Ogni distrazione pare essere inutile fino a quando all’Opera di Rouen Emma incontra nuovamente il bel Leon: il loro amore, la loro passione, rinasce più forte di prima. Ma Emma è sempre più possessiva ed alla fine anche Leon la abbandona lasciandola nella più profonda disperazione.

Comincia a contrarre una serie di debiti piuttosto ingenti con alcuni usurai, questi cominciano a minacciarla, è disgustata dagli uomini: alla fine Emma si avvelena con dell’arsenico sottratto ad un farmacista. La sua vita ha fine così come, finalmente, le sue sofferenze d’amore. L’unico uomo che mantiene intatto il suo amore per Emma è il marito, nonostante la scoperta del suo tradimento sia con Leon sia con Rodolphe: l’unica colpevole è la fatalità. Charles vive il resto dei suoi giorni in una sorta di segregazione dal mondo, i compagnia della figlia, nel perdono più completo verso l’infelice moglie morta.



E. Vullard, Vita coniugale, 1900
 

Cap. IX - I sogni di Emma
 

Ma com'era questa famosa Parigi? Che nome immenso! Lei se lo ripeteva piano piano, le faceva piacere sentirlo, lo sentiva suonare ai suoi orecchi come la campana d'una cattedrale, e accecava i suoi occhi persino dalle etichette dei suoi barattoli di crema.

    La notte, quando i pescivendoli passavano sulle loro carrette sotto le sue finestre, cantando la Marjolaine, lei si svegliava; stava ad ascoltare il rotolio delle ruote cerchiate di ferro che andava smorzandosi all'uscita dal paese, e si diceva:

   «Ci saranno domani!»

Li seguiva con l'immaginazione, salivano, scendevano alture, pendii, attraversavano villaggi, correvano sulla strada maestra alla luce delle stelle. E in fondo a un'indeterminata distanza, c'era sempre una zona confusa in cui svaniva il suo sogno.
 

   Acquistò una pianta di Parigi, e, con la punta di un dito, compiva sulla carta le sue escursioni nella capitale. Risaliva i boulevard, fermandosi a ogni angolo, tra le linee delle vie, o davanti ai quadratini bianchi rappresentanti le case. Alla fine aveva gli occhi stanchi, serrava le palpebre e nel buio vedeva le fiammelle dei fanali a gas oscillare al vento e le file delle fragorose carrozze allinearsi davanti ai peristili dei teatri.

   Si abbonò al Cestello, periodico femminile, e al Silfo dei salotti. Divorava, senza tralasciar nulla, tutti i resoconti delle prime, delle corse, dei ricevimenti, s'interessava al debutto d'una cantante, all'apertura d'un negozio. Era al corrente di ogni moda nuova, dell'indirizzo dei migliori sarti, dei giorni di ritrovo al Bois o all'Opéra. Studiò, nei romanzi di Eugène Suë, le descrizioni degli arredamenti, lesse Balzac e George Sand, cercando di appagare i propri appetiti con quelle offe immaginarie. Si portava addirittura i libri a tavola e ne sfogliava le pagine, mentre Charles mangiava e le rivolgeva la parola. E in ogni sua lettura, quotidianamente, le ritornava il ricordo del visconte. Non faceva altro che stabilire accostamenti tra lui e i personaggi dei romanzi. Ma il cerchio di cui quello era al centro s'allargava a poco a poco, e quella particolare aureola, staccandosi da quel particolare capo, si spingeva lontano, per illuminare altri sogni.
 

   Più vasta dell'oceano, Parigi risplendeva dunque agli occhi di Emma in un'atmosfera vermiglia. La molteplice vita che si agitava in quel tumulto era tuttavia divisa in varie parti, classificata in scene distinte. Emma ne arrivava a percepire due o tre, che le nascondevano ogni altra e rappresentavano da sole l'intera umanità. Il mondo degli ambasciatori incedeva su lucidi pavimenti, in saloni rivestiti di specchi, intorno a tavoli ovali ricoperti da tappeti di velluto a frange d'oro. C'era uno scialo d'abiti a strascico, grandi misteri, angosce dissimulate sotto i sorrisi. E poi veniva il mondo delle duchesse: eran tutte talmente pallide, figurarsi, si alzavano alle quattro del pomeriggio, poveri angeli dalle gonne orlate di merletti a punto inglese! E i loro uomini, valori misconosciuti dietro le futili apparenze, si facevan morire sotto i cavalli in gran galoppate oziose, consumavan le estati a Baden e, verso la quarantina, convolavano a nozze con le migliori ereditiere. Nei salottini privati dei ristoranti in cui si comincia a mangiare dopo la mezzanotte, rideva alla luce delle candele il variopinto mondo dei letterati e delle attrici. Tutta gente, quella, prodiga come re, traboccante di ambiziosi ideali e di deliranti fantasie. Un'esistenza veramente al di sopra di tutte le altre, tra terra e cielo, nel vortice delle tempeste, qualcosa di sublime. Quanto al resto dell'umanità, era come perduto, senza un luogo preciso, in pratica quasi non esisteva. D'altronde, più le cose le erano vicine, più lei ne distoglieva il pensiero. Quanto la circondava immediatamente, la campagna noiosa, i piccoli borghesi imbecilli, la mediocrità della vita quotidiana, tutto le appariva come un'eccezione nell'universo, un malaugurato caso particolare in cui lei si trovava intrappolata, mentre, fuori di là, si estendeva a perdita d'occhio l'immensità delle gioie e delle passioni. Nel suo struggente desiderio confondeva le sensualità del lusso con gli slanci del cuore, le abitudini eleganti con le delicatezze del sentimento. Non occorrevan forse all'amore, come alle piante indiane, terreni appositamente preparati, una temperatura particolarmente graduata? I sospiri al chiar di luna, i lunghi abbracci, le lacrime fiottanti sulle mani abbandonate, tutte le febbri della carne, tutti i languori dell'affetto non potevano certo andar separati dai balconi dei grandi castelli ove è sempre festa, da qualche salottino con tende di seta e soffici tappeti, giardiniere trionfanti di fiori, letti troneggianti su piedistalli, nè dallo scintillio delle pietre preziose e dei galloni dorati delle livree.

        Il mozzo di stalla che, ogni mattina, veniva dalla posta a governar la cavalla, attraversava il corridoio con i suoi grossi zoccoli; il suo camiciotto era tutto un buco, i suoi piedi erano nudi e sporchi. Ecco il groom in calzoni corti di cui bisognava accontentarsi! E, quando aveva finito, se ne andava e non si faceva più vedere per tutta la giornata; ci pensava Charles stesso, al ritorno, a portare la sua bestia nella stalla, a toglierle la sella, a metterle la cavezza, mentre la serva portava una bracciata di paglia e l'aggiustava alla bell'e meglio nella mangiatoia.

        In sostituzione di Nastasie (che alla fine se n'era partita da Tostes tra torrenti di lacrime), Emma aveva preso al proprio servizio una ragazzina di quattordici anni, orfanella, con un faccino dolce. Le proibì le cuffie di cotone, le insegnò i discorsi in terza persona con i padroni, l'interdipendenza tra piattini e bicchieri d'acqua, la necessità di bussare prima di entrare in una stanza, l'importanza di stirare e inamidare, il diritto e il dovere di aiutare lei a vestirsi; insomma, ne volle fare la propria cameriera personale. La nuova venuta ubbidiva senza fiatare per la paura di venir licenziata; e, dato che la signora aveva l'abitudine di lasciar la chiave nella credenza, Félicité prelevava ogni sera una piccola provvista di zucchero che si mangiava tutta sola, in letto, dopo aver regolarmente recitato le preghiere.

        Il pomeriggio, a volte, la serva scappava a chiacchierare con i postiglioni, nella casa di faccia. La signora restava su, nella sua camera.

        La signora portava una vestaglia tutta aperta che lasciava intravedere, tra i risvolti a scialle del corpetto, una camicetta pieghettata, con tre bottoni dorati. Aveva come cintura un cordone a nappine, e sulle pantofoline color granata un ciuffo di larghi nastri copriva il collo del piede.

 

S'era comprata una quantità di carta assorbente, carta da lettere, buste e penne, per quanto non avesse da scrivere assolutamente a nessuno; spolverava e rispolverava l'étagère, si contemplava allo specchio, prendeva un libro, poi, sognando tra le righe, se lo lasciava cadere sui ginocchi. Aveva una gran voglia di far dei viaggi, oppure di tornare a vivere nel suo convento. Desiderava di morire e insieme di abitare a Parigi.
 

        Ci fosse la neve o la pioggia, Charles se n'andava a cavallo per strade fuori mano. Mangiava una frittata sulle tavole delle cascine, infilava un braccio in letti umidi, riceveva in piena faccia il tiepido spruzzo dei salassi, ascoltava rantoli, esaminava feci, frugava tra la biancheria sudicia; ma tutte le sere, rincasando, trovava un bel fuoco fiammeggiante, una cena bene imbandita mobili confortevoli e una moglie elegante, affascinante, con un profumo così suggestivo che non si capiva da dove venisse, forse era la sua stessa pelle a intriderne dolcemente la camicia?

        Lei lo incantava con un'infinità di delicatezze; ora una maniera totalmente nuova di foggiare piattini di carta per i doppieri, ora un volante cambiato alla sua veste, ora il nome straordinario di un piatto semplicissimo che la serva aveva miseramente fallito, ma che Charles trangugiava di gusto sino all'ultimo boccone. Lei vide a Rouen certe signore con un mazzetto di ciondoli all'orologio, e immediatamente acquistò un sacco di ciondoli. Lei volle sul suo camino due grandi vasi di vetro turchino, e, poco dopo un astuccio da lavoro in avorio, con un ditale dorato. Meno Charles le capiva, queste eleganze, più gli facevan soggezione: aggiungevano qualcosa al piacere dei sensi, alla dolcezza del focolare. Come una polvere d'oro che ricoprisse per tutta la lunghezza l'angusto sentiero della sua vita di uomo fortunato.

        Stava bene lui, aveva un ottimo aspetto; e la sua reputazione era ormai più che salda. I contadini gli si affezionavano perchè non si dava arie. Lui carezzava i bambini, non metteva mai piede in un'osteria, ispirava fiducia per la sua assoluta moralità. Eccelleva soprattutto nei catarri e nelle malattie di petto. Siccome aveva una gran paura di ammazzare i suoi clienti, Charles si limitava, in realta, a ordinare esclusivamente pozioni calmanti, qualche emetico, un pediluvio, al massimo un'applicazione di sanguisughe. Comunque, era in grado di cavarsela anche come chirurgo: ti poteva salassare come se fossi un cavallo e nell'estrazione dei denti rivelava un polso di ferro.

        Per tenersi al corrente, come diceva, si abbonò all'Alveare medico, una nuova pubblicazione di cui gli avevano inviato i prospetti. Provava a leggerne un poco dopo i pasti, ma il calore della stanza s'univa al torpore della digestione, in capo a cinque minuti s'addormentava; e restava là così, il mento tra le mani, i capelli pendenti come una criniera sino alla base della lampada. Emma allora lo guardava e si stringeva nelle spalle. Le fosse almeno toccato come marito uno di quegli uomini dagli ardori silenziosi che trascorrono le notti sui libri e verso i sessant'anni, l'età dei reumatismi, sono in grado d'ostentare sulle marsine nere mal tagliate le fatidiche crocette delle decorazioni! Avrebbe talmente voluto, lei, che quel nome di Bovary, ormai suo, diventasse illustre, avrebbe talmente voluto vederlo in mostra nelle librerie, ripetuto nei giornali, conosciuto dalla Francia intera. Ma Charles non aveva ambizioni! Un medico d'Yvetot, con il quale recentemente aveva avuto un consulto, si era permesso di umiliarlo un poco, al capezzale stesso del malato, davanti ai parenti riuniti: quando la sera Charles raccontò l'episodio, Emma insorse contro quel collega. Charles si commosse a una simile reazione. Con le lacrime agli occhi, baciò la moglie sulla fronte. Ma lei era esasperata per la vergogna; avrebbe voluto battere il marito; per calmarsi andò ad aprire la finestra nel corridoio, aspirava l'aria fredda.

        «Che ometto! che ometto!» si diceva piano, e si mordeva le labbra.

        La sua irritazione contro di lui si acuiva sempre più. Con l'età, lui prendeva abitudini grossolane; dopo mangiato tagliuzzava i tappi delle bottiglie vuote; si passava e ripassava la lingua sui denti; nel sorbire la minestra, gorgogliava a ogni cucchiaiata; e, poichè cominciava a ingrassare, i suoi occhi che già non eran mai stati grandi parevano respinti in su, verso le tempie, dal dilatarsi della faccia.

        A volte Emma gli rinfilava nel panciotto l'orlo rosso della maglia, gli aggiustava la cravatta, gli buttava via i guanti stinti che lui stava per infilarsi; non lo faceva per lui, come lui era disposto a credere; lo faceva per se stessa: per sfogo d'egoismo, per protesta nervosa. Altre volte, gli parlava di quel che aveva letto, un brano di romanzo, una scena di commedia o un aneddoto del bel mondo raccontato dal giornale; dopotutto, Charles era pur sempre qualcuno, un orecchio pronto ad ascoltarla, una approvazione che non mancava mai di venire. Ne faceva di confidenze, lei, alla sua cagnetta! Ne avrebbe fatte persino ai ciocchi del camino, al bilanciere della pendola.
 

        In fondo al suo cuore, tuttavia, era una grande attesa, l'attesa di un vero avvenimento. Come i marinai che si sentono perduti, continuava a girare sulla solitudine della sua esistenza sguardi disperati, cercando d'intravedere lontano, tra le brume dell'orizzonte, il biancore di una vela. Non sapeva immaginare quale avvenimento le avrebbe elargito il caso, qual vento l'avrebbe portato sino a lei, nè verso quale riva lei ne sarebbe stata sospinta, e se sarebbe stata appena una scialuppa o un vascello a tre ponti, carico d'angoscia o ribollente di felicità, oltre le murate. Ma ogni mattina, al suo risveglio, sperava che accadesse subito, quel giorno stesso, e stava ad ascoltare ansiosa tutti i rumori, si alzava di soprassalto, meravigliandosi che ancora non fosse accaduto; al tramonto, sempre più triste, desiderava di essere già alla mattina dopo.
 

        Ritornò la primavera. Lei si sentì soffocare, quando i peri cominciarono a fiorire, ai primi tepori.

        All'inizio di luglio prese a contare sulle dita quante settimane mancassero per arrivare a ottobre, pensando che il marchese d'Andervilliers avrebbe forse dato un altro ballo. Ma l'intero settembre trascorse senza lettere nè visite. Dopo la ferita di questa delusione, il suo cuore restò di nuovo vuoto, ricominciò la serie delle giornate una uguale all'altra. E ora si sarebbero succedute così, immutabili, innumerevoli, senza portare mai nulla d'imprevisto! Le esistenze degli altri, per piatte che potessero essere, dovevano almeno avere la speranza di un fatto nuovo. A volte un'avventura si trascinava dietro infinite peripezie, anche la scena era costretta a mutare. Ma per lei, nulla: era questa la volontà di Dio! Il futuro era un corridoio tutto nero. In fondo, c'era una porta chiusa, ben chiusa.

 

        Lasciò perdere la musica. Perché suonare? Per chi? Non le sarebbe mai stato concesso di dare un concerto, vestita di velluto, con le maniche corte, non le sarebbe mai stato concesso di sfiorare lievemente i tasti d'avorio di un piano, non le sarebbe mai stato concesso di sentirsi alitare intorno, come una brezza, un brusio d'estasi; allora tanto valeva non annoiarsi a studiare. Dimenticò nell'armadio la carta da disegno e i ricami. A quale scopo? A quale scopo? Anche cucire le dava fastidio.

        «Ho letto tutto, ormai,» si diceva.

        E se ne restava lì, davanti al fuoco, ad arroventare le molle, oppure, davanti alla finestra, a guardar cadere la pioggia. E che tristezza la prendeva la domenica, quando suonavano i vespri! Lei ascoltava, inebetita, eppure attenta, rintoccare uno a uno i colpi sordi della campana. Camminando cautamente sui tetti, qualche gatto inarcava la schiena agli smorti raggi solari. Il vento trascinava nugoli di polvere sulla strada maestra. A volte un cane abbaiava lontano; e quella campana continuava, continuava a rintoccare, il suo monotono rombo si sperdeva nella campagna.

        Poi c'era l'uscita dalla chiesa. Le donne avevano gli zoccoli ben lucidati, gli uomini ostentavano i camiciotti nuovi, e i ragazzi saltellavano davanti a capo scoperto, tutti scomparivano nelle case. Solo cinque o sei, sempre gli stessi, indugiavano sino a notte a giocare a sugheri fuori del portone dell'albergo.

        L'inverno fu freddo. Ogni mattina i vetri delle finestre eran coperti dai ghiaccioli, la luce filtrava biancastra, come se fossero smerigliati, spesso non variava per l'intera giornata. Alle quattro del pomeriggio bisognava già accendere il lume.

        Quando faceva bel tempo, lei scendeva in giardino. La brina aveva lasciato sui cavoli trine d'argento, lunghi fili chiari si tendevano da un cespo all'altro. Non si sentiva un uccello, tutto pareva dormire, la spalliera delle albicocche e la vigna come un gran serpente malato, sotto la sporgenza del muro, su cui avvicinandosi, si potevan vedere i millepiedi trascinarsi sulle loro infinite zampette. Tra le abetine, nei pressi della siepe, il curato in tricorno sempre immerso nella lettura del suo breviario aveva perduto il piede destro, il gesso, scrostato dal gelo, maculava la sua faccia d'una rogna bianca.

        Poi lei risaliva, chiudeva la porta, rimestava i carboni accesi, e, sentendosi quasi mancare al calore del focolare, avvertiva più forte il peso della noia. Sarebbe anche andata a chiacchierare con la serva, se non l'avesse trattenuta una specie di pudore.

        Tutti i giorni, alla stessa ora, il maestro di scuola, con in testa il suo berretto di seta nera, spalancava le imposte della sua casa, e la guardia campestre passava, con la sciabola sul camiciotto. Mattina e sera, i cavalli della posta, a tre a tre, attraversavano la strada per andare ad abbeverarsi allo stagno. Ogni tanto la porta di qualche osteria faceva tintinnare il suo campanello; e, quando tirava vento, si sentivano stridere sui loro ferri di sostegno le catinelle d'ottone che servivano d'insegna alla bottega del parrucchiere, ornata di una vecchia stampa di mode incollata a un vetro e di un busto femminile di cera giallocrinito. Anche lui, il parrucchiere, si lamentava della propria vocazione frustrata, del proprio futuro compromesso, e, sognando una bottega in una grande città, a esempio Rouen, dalle parti del porto o del teatro, continuava ad andare in su e giù l'intera giornata, tra il municipio e la chiesa, sempre più cupo nella vana attesa della clientela. Tutte le volte che la signora Bovary alzava gli occhi alla finestra, immancabilmente lo vedeva là, come una sentinella, con il suo berretto greco sull'orecchio e la sua giacchetta di lasting.

        Il pomeriggio, qualche volta, una faccia maschile appariva dietro i vetri della sala, una faccia abbronzata e sorridente, un lento, largo sorriso mite, risplendente di bianchi denti. Allora si levavan le note di un valzer, e, sopra l'organetto, su una minuscola piattaforma, ballerini alti un dito, donnine in turbante rosa, tirolesucci in giubbino, scimmiette in marsina, signoretti in calzoncini corti, giravano, giravano tra poltrone, divani, scaffali, moltiplicandosi nei frammenti di specchio che una striscia di carta colorata teneva uniti agli angoli. L'uomo faceva andare la sua manovella, guardando a destra, a sinistra, verso le finestre.

        Ogni tanto, dopo aver lanciato un lungo sputo nerastro contro il paracarro, tirava su con il ginocchio il suo strumento che gli massacrava le spalle con la cinghia troppo dura; e, ora dolente e trascicata, ora allegra e rapida, la musica sfuggiva dalla scatola, ronzando attraverso una cortina di taffetà rosa, sotto i ghirigori di un fregio ramato. Arie che altrove venivano eseguite nei teatri cantate nei salotti, danzate la sera alla luce di lampadari scintillanti, giungevano a Emma come echi del mondo: allora nella sua testa s'agitavano sarabande senza fine, come una baiadera sui fiori d'un tappeto il suo pensiero balzava sulle note, oscillava da un sogno all'altro, da una malinconia all'altra. Quando l'uomo aveva ricevuto l'obolo nel berretto, calava una vecchia coperta di lana turchina sul suo strumento, se lo buttava sulle spalle e si allontanava a passi pesanti. Lei lo guardava sinchè non scompariva.

        Ma era soprattutto all'ora dei pasti che a lei pareva di non farcela più, in quella stanzuccia al pianterreno, con la stufa fumosa, la porta cigolante, i muri trasudanti, le mattonelle umide; era come se tutta l'amarezza dell'esistenza le venisse scodellata nel piatto; con il vapore del lesso salivano dal fondo del suo animo zaffate di disgusto. Charles era così lento a mangiare; lei sgranocchiava qualche nocciola, oppure, appoggiata al gomito, si perdeva a tracciare righe sulla tela cerata con la punta del coltello.

 

        Non si curava minimamente più della casa, e la vecchia Bovary, quando venne a trascorrere una parte della quaresima a Tostes, non sapeva capacitarsi di un simile cambiamento. Effettivamente, Emma, una volta così attenta a tutto, sempre così in vena di raffinatezze, adesso era capace di restare giornate intere senza abbigliarsi decentemente, portava certe calze di cotone grigie e, invece della lampada, accendeva la candela. Ripeteva che dovevan fare economie, non erano mica ricchi, loro, e aggiungeva che era contenta, molto contenta, felice, e Tostes le piaceva, ma come le piaceva, e un sacco d'altri discorsi inattesi che chiudevano la bocca alla suocera. Del resto, Emma non pareva più disposta a seguire i consigli della vecchia; una volta che s'era creduta in diritto di sostenere che i padroni dovrebbero vigilare sulla religione dei loro domestici, la madre di Charles s'era trovata contro la nuora con uno sguardo così iroso e un sorriso così gelido, che non si provò più a discutere.

        Emma diventava difficile, capricciosa. Ordinava piatti speciali, e poi non li toccava neppure, un giorno beveva soltanto latte puro, e, il giorno dopo, dozzine di tazze di tè. Spesso si ostinava a non uscire di casa, e poi si sentiva soffocare, apriva tutte le finestre, si vestiva troppo leggera. Sgridava aspramente la serva, e poi la colmava di regali, la lasciava libera di andare a spettegolare con il vicinato, d'improvviso gettava ai poveri tutti gli spiccioli d'argento del suo borsellino, eppure non era affatto tenera, non era affatto incline a farsi impressionare dalle disavventure altrui, come, del resto, la maggior parte di quelli che son nati da gente di campagna e conservano per sempre nell'animo un poco della callosità delle mani paterne.

        Verso la fine di febbraio, per commemorare la famosa guarigione, papà Rouault venne a portare al genero una superba tacchina e restò tre giorni a Tostes. Charles era sempre in giro, dai suoi malati, a Emma toccò tener compagnia al padre che continuò a fumare in camera, a sputare sugli alari, a parlar di campi, vitelli, vacche, pollame e consiglieri municipali con una tale intensità che, quando si decise ad andarsene, lei gli chiuse la porta alle spalle con un gran senso di liberazione da cui fu la prima a esserne sorpresa. D'altra parte, lei ormai non nascondeva più il suo disprezzo per tutto e tutti; a volte prendeva a esprimere opinioni piuttosto azzardate, biasimando quanto gli altri approvavano o approvando cose perverse e immorali: gli occhi del marito si spalancavano ottusi.

        Sarebbe proprio durata in eterno quella miseria? Non ne sarebbe mai uscita, lei? Eppure le valeva bene, tutte quelle fortunate che vivevano nella felicità! Aveva visto duchesse a Vaubyessard con fianchi più grossi e modi di fare più grossolani dei suoi, c'era veramente di che esecrare l'ingiustizia di Dio; lei appoggiava la testa alla parete, e piangeva; come invidiava le esistenze tumultuose, le mascherate notturne, i piaceri sfrenati, tutti gli stordimenti che le erano ignoti ma che ne dovevano pur derivare!

        Impallidiva sempre più, soffriva di palpitazioni di cuore. Charles le somministrava della valeriana, le prescriveva bagni canforati. E tutto quello che tentava pareva inasprirla maggiormente.

        Certi giorni le capitava di mettersi a parlare con una loquacità febbrile, a queste esaltazioni succedevano di colpo specie di catalessi che la riducevano immobile, muta. Per rianimarsi doveva vuotarsi sulle braccia tutto un flacone di colonia.

        Dato che lei si lamentava in continuazione di Tostes, Charles cominciò a supporre che la causa di quei malesseri andasse cercata in qualche malvagio influsso del luogo, e si fissò talmente su questa idea che pensò a trasferirsi davvero altrove.

        Fu allora che lei bevve aceto per dimagrire, contrasse una tossetta secca, perse completamente l'appetito. Non che Charles lasciasse volentieri Tostes, dopo un soggiorno di quattro anni, e proprio quando cominciava a imporsi. Ma dal momento che era necessario! La portò a Rouen, dal suo vecchio maestro. Il responso fu che si trattava di una malattia nervosa: bisognava proprio cambiare aria.

        Dopo aver cercato un poco dappertutto, Charles venne a sapere che nel circondario di Neufchâtel, c'era una borgata chiamata Yonville-l'Abbaye, da cui aveva sloggiato una settimana prima il medico, un rifugiato polacco. Allora scrisse al farmacista del luogo per sapere quale fosse il numero degli abitanti, a che distanza si trovasse il collega più vicino, quanto avesse guadagnato all'anno il predecessore, eccetera; le risposte furono soddisfacenti, e Charles decise che a primavera, se la salute della moglie non fosse migliorata, avrebbero cambiato sede.

        Un giorno, mettendo in ordine un cassetto in vista della prossima partenza, lei si punse le dita con qualcosa. Era un fil di ferro del suo bouquet da sposa. I boccioli di fior d'arancio eran gialli di polvere, e i nastri di raso argentato tutti sfrangiati. Lei lo buttò nel fuoco. S'infiammò meglio della paglia secca. Presto ne restò solo come un cespuglio rosso sulla cenere, a rodersi a poco a poco. Lei lo guardava consumarsi. Le piccole bacche di cartone scoppiavano, i legacci d'ottone si torcevano, i galloni d'argento si fondevano; indurite, le corolle di carta danzavano lungo la placca del camino come nere farfalle, e alla fine volarono via, su per la cappa.  Quando partirono da Tostes era marzo e la signora Bovary era incinta.

 

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