Dal
Cavaliere inesistente
Agilulfo
- E voi? - Il re era giunto di fronte a un cavaliere
dall'armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai
bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita
in ogni giunto, sormontata sull'elmo da un pennacchio di chissà che razza
orientale di gallo, cangiante d'ogni colore dell'iride. Sullo scudo c'era
disegnato uno stemma tra due lembi d'un ampio manto drappeggiato, e dentro
lo stemma s'aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma più
piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato più piccolo ancora. Con
disegno sempre più sottile era raffigurato un seguito di manti che si
schiudevano uno dentro l'altro, e in mezzo ci doveva essere chissà che cosa,
ma non si riusciva a scorgere, tanto il disegno diventava minuto. - E voi
lì, messo su così in pulito... - disse Carlomagno che, più la guerra durava,
meno rispetto della pulizia nei paladini gli capitava di vedere.
- Io sono, - la voce giungeva metallica da dentro l'elmo chiuso, come
fosse non una gola ma la stessa lamiera dell'armatura a vibrare, e con un
lieve rimbombo d'eco, - Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli
Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez!
- Aaah... - fece Carlomagno e dal labbro di sotto, sporto avanti, gli uscì
anche un piccolo strombettio, come a dire: «Dovessi ricordarmi il nome di
tutti, starei fresco! » Ma subito aggrottò le ciglia. - E perché non alzate
la celata e non mostrate il vostro viso?
Il cavaliere non fece nessun gesto; la sua destra inguantata d'una ferrea e
ben connessa manopola si serrò più forte all'arcione, mentre l'altro
braccio, che reggeva lo scudo, parve scosso come da un brivido.
- Dico a voi, ehi, paladino! - insisté Carlomagno. - Com'è che non
mostrate la faccia al vostro re? La voce uscì netta dal barbazzale. - Perché
io non esisto, sire
- O questa poi! - esclamò l'imperatore. - Adesso ci abbiamo in forza anche
un cavaliere che non esiste! Fate un po' vedere.
Agilulfo parve ancora esitare un momento, poi con mano ferma ma lenta
sollevò la celata. L'elmo era vuoto. Nell'armatura bianca dall'iridescente
cimiero non c'era dentro nessuno.
- Mah, mah! Quante se ne vedono! - fece Carlomagno. - E com'è che fate a
prestar servizio, se non ci siete?
- Con la forza di volontà, - disse Agilulfo, - e la fede nella nostra santa
causa!
- E già, e già, ben detto, è così che si fa il proprio dovere. Be', per
essere uno che non esiste, siete in gamba!
Agilulfo era il serrafila. L'imperatore ormai aveva passato la rivista a
tutti; voltò il cavallo e s'allontanò verso le tende reali. Era vecchio, e
tendeva ad allontanare dalla mente le questioni complicate.
La tromba suonò il segnale del « rompete le righe ». Ci fu il solito
sbandarsi di cavalli, e il gran bosco delle lance si piegò, si mosse a onde
come un campo di grano quando passa il vento. I cavalieri scendevano di
sella, muovevano le gambe per sgranchirsi, gli scudieri portavano via i
cavalli per la briglia. Poi, dall'accozzaglia e il polverone si staccarono
i paladini, aggruppati in capannelli svettanti di cimieri colorati, a dar
sfogo alla forzata immobilità di quelle ore in scherzi ed in bravate, in
pettegolezzi di donne e onori.
Agilulfo fece qualche passo per mischiarsi a uno di
questi capannelli, poi senz'alcun motivo passò a un altro, ma non si fece
largo e nessuno badò a lui. Restò un po' indeciso dietro le spalle di
questo o di quello, senza partecipare ai loro dialoghi, poi si mise in
disparte. Era l'imbrunire; sul cimiero le piume iridate ora parevano
tutte d'un unico indistinto colore; ma l'armatura bianca spiccava isolata lì
sul prato. Agilulfo, come se tutt'a un tratto si sentisse nudo, ebbe il
gesto d'incrociare le braccia e stringersi le spalle.
Poi si riscosse e, di gran passo, si diresse verso gli
stallaggi. Giunto là, trovò che il governo dei cavalli non veniva
compiuto secondo le regole, sgridò gli staffieri, inflisse punizioni ai
mozzi, ispezionò tutti i turni di corvé, ridistribuì le mansioni spiegando
minuziosamente a ciascuno come andavano eseguite e facendosi ripetere quel
che aveva detto per vedere se avevano capito bene. E siccome ogni
momento venivano a galla le negligenze nel servizio dei colleghi ufficiali
paladini, li chiamava a uno a uno, sottraendoli alle dolci conversazioni
oziose della sera, e contestava con discrezione ma con ferma esattezza le
loro mancanze, e li obbligava uno ad andare di picchetto, uno di scolta,
l'altro giù di pattuglia, e così via. Aveva sempre ragione, e i
paladini non potevano sottrarsi, ma non nascondevano il loro malcontento.
Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e
Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez era certo un modello di soldato;
ma a tutti loro era antipatico.
Gurdulù
Carlomagno cavalcava alla testa dell'esercito dei
Franchi. Erano in marcia d'avvicinamento; non c'era fretta; non s'andava
tanto svelti. Attorno all'imperatore facevano gruppo i paladini, frenando
per il morso gli impetuosi cavalli; e in quel caracollare e dar di gomito i
loro argentei scudi s'alzavano e s'abbassavano come branchie d'un pesce. A
un lungo pesce tutto scaglie somigliava l'esercito: a un'anguilla.
Contadini, pastori, borghigiani accorrevano ai bordi della strada. - Quello
è il re, quello è Carlo! - e s'inchinavano giù a terra, ravvisandolo, più
che dalla poco familiare corona, dalla barba. Poi subito si tiravano su per
riconoscere i guerrieri: - Quello è Orlando! Ma no, quello è Ulivieri! -
Non ne imbroccavano uno ma tanto era lo esso, perché questo o quell'altro
lì c'erano tutti e potevano sempre giurare d'aver visto chi volevano.
Agilulfo, cavalcando nel gruppo, ogni tanto spiccava
una piccola corsa avanti, poi i fermava ad aspettare gli altri, si girava
indietro a controllare che la truppa seguisse compatta, o si voltava verso
il sole come calcolando dall'altezza sull'orizzonte l'ora. Era impaziente.
Lui solo, lì in mezzo, aveva in mente l'ordine di
marcia, le tappe, il luogo al quale dovevano arrivare avanti notte. Quegli
altri paladini, ma sì, marcia d'avvicinamento, dar forte o andar piano è
sempre avvicinarsi, e con la scusa che l'imperatore è vecchio e stanco a
ogni taverna erano pronti a fermarsi per bere. Altro per via non vedevano
che insegne di taverne e deretani di serve, tanto per dire quattro
impertinenze; per resto, viaggiavano come chiusi in un baule.
Carlomagno era ancora quello che provava più curiosità
per tutte le specie di cose che si vedevano in giro. - Uh, le anatre, le
anatre! - esclamava. Ne andava, per i prati ungo la strada, un branco.
In mezzo a quelle anatre, era un uomo, ma non si capiva osa diavolo facesse:
camminava accoccolato, le mani dietro la schiena, alzando i piedi i piatto
come un palmipede, col collo teso, e dicendo: - Quà... quà... quà... -
Le anatre non gli badavano nemmeno, come se lo riconoscessero per uno di
loro. E a dire vero, tra l'uomo e le anatre lo sguardo non faceva gran
distacco, perché la roba che aveva indosso l'uomo, d'un colore bruno
terroso (pareva messa insieme, in gran parte, ori pezzi di sacco),
presentava larghe zone d'un grigio verdastro preciso alle loro pene, e in
più c'erano toppe e brandelli e macchie dei più vari colori, come le
striature ridate di quei volatili.
- Ehi, tu, ti par questa la maniera d'inchinarti all'imperatore? - gli
gridarono i paladini, sempre pronti a grattar rogne.
L'uomo non si voltò, ma le anatre, spaventate da quelle voci, frullarono su
a volo tutte insieme. L'uomo tardò un momento a guardarle levarsi, naso
all'aria, poi aperse le braccia, spiccò un salto, e così spiccando salti e
starnazzando con le braccia spalancate da cui pendevano frange di
sbrindellature, dando in risate e in «Quàaa! Quàaa! » pieni di gioia,
cercava di seguire il branco.
C'era uno stagno. Le anatre volando andarono a
posarsi lì a fior d'acqua e, leggere, ad ali chiuse, filarono via nuotando.
L'uomo, allo stagno, si buttò sull'acqua giù di pancia, sollevò enormi
spruzzi, s'agitò con gesti incomposti, provò ancora un «Quà! Quà! » che fini
in un gorgoglio perché stava andando a fondo, riemerse, provò a nuotare,
riaffondò.
- Ma è il guardiano delle anatre, quello? - chiesero i guerrieri a una
contadinotta che se ne veniva con una canna in mano.
- No, le anatre le guardo io, son mie, lui non c'ent ra, è Gurdulù... -
disse la contadinotta.
- E che faceva con le tue anatre?
- Oh niente, ogni tanto gli piglia così, le vede, si sbaglia, crede
d'esser lui...
- Crede d'essere anatra anche lui?
- Crede d'essere lui le anatre... Sapete com'è fatto Gurdulù: non sta
attento...
- Ma dov'è andato, adesso?
I paladini s'avvicinarono allo stagno. Gurdulù non si vedeva. Le anatre,
traversato lo specchio d’ acqua avevano ripreso il cammino tra l'erba con i
loro passi palmati. Attorno allo stagno, dalle felci, si levava un coro di
rane. L'uomo tirò fuori la testa dall'acqua tutt'a un tratto, come
ricordandosi in quel momento che doveva respirare. Si guardò smarrito, come
non comprendendo cosa fosse quel bordo di felci che si specchiavano
nell'acqua a un palmo dal suo naso. Su ogni foglia di felce era seduta una
piccola bestia verde, liscia liscia, che lo guardava e faceva con tutta la
sua forza: Gra! Gra! Gra!
- Gra! Gral Gral - rispose Gurdulù, contento, e alla sua voce da tutte le
felci era un saltar giù di rane in acqua e dall'acqua un saltar di rane a
riva, e Gurdulù gridando:
- Gra! - spiccò un salto anche lui, fu a riva, fradicio e fangoso
dalla testa ai piedi, s'accoccolò come una rana, e gridò un - Grai - così
forte che in uno schianto di canne ed erbe ricadde nello stagno.
- Ma non ci annega! - chiesero i paladini a un pescatore.
- Eh, alle volte Omobòl si dimentica, si
perde... Annegare no... Il guaio è quando finisce nella rete con i pesci...
Un giorno gli è successo mentre s'era messo lui a pescare... Butta in acqua
la rete, vede un pesce che è lì lì per entrarci, e s'immedesima
tanto di quel pesce che si tuffa in acqua ed entra nella rete lui... Sapete
com'è, Omobò...
- Omobò? Ma non si chiama Gurdulù?
- Omobò, lo chiamiamo noi.
- Ma quella ragazza...
- Ah, quella non è del mio paese, può darsi che al suo lo chiamino così.
- E lui di che paese è?
- Be', gira...
La cavalcata fiancheggiava un frutteto di peri. 1 frutti erano maturi. Con
le lance i guerrieri infilzavano pere, le facevano sparire nel becco degli
elmi, poi sputavano i torsoli. In fila in mezzo ai peri, chi vedono?
Gurdulù-Omobò. Stava con le braccia alzate tutte contorte, come rami, e
nelle mani e in bocca e sulla testa e negli strappi del vestito aveva pere.
- Guardalo che fa il pero' - diceva Carlomagno, ilare.
- Ora lo scuoto! - disse Orlando, e gli menò una botta.
Gurdulù lasciò cadere le pere tutte insieme, che rotolarono per il prato in
declivio, e vedendole rotolare non seppe trattenersi dal rotolare anche lui
come una pera per i prati e sparì così alla loro vista.
Vostra maestà lo perdoni! - disse un vecchio ortolano. -
Martinzùl non capisce alle volte che il suo posto non è tra le
piante o tra i frutti inanimati, ma tra i devoti sudditi di vostra maestà!
- Ma cos'è che gli gira, a questo matto che voi chiamate Martinzùl? -
chiese, bonario, il nostro imperatore. - Mi pare che non sa manco cosa gli
passa nella crapa!
- Che possiamo capirne noi, maestà? - Il vecchio ortolano parlava con la
modesaggezza di chi ne ha viste tante.
Matto forse non lo si può dire: è soltanto uno che c'è ma non sa
d'esserci.
- O bella! Questo suddito qui che c'è ma non sa d'esserci e quel mio
paladino là sa d'esserci e invece non c'è. Fanno un bel paio, ve lo dico
io!
Di stare in sella, Carlomagno era ormai stanco. Appoggiandosi ai suoi
staffieri, andò nella barba, bofonchiando: - Povera Francia! - smontò. Come
a un segnale, appena l'imperatore ebbe messo piede a terra, tutto
l'esercito si fermò e allestì un bivacco. Misero su le marmitte per il
rancio.
- Portatemi qui quel Gurgur... Come si chiama? - fece il re.
- A seconda dei paesi che attraversa, - disse il saggio ortolano, - e degli
eserciti criiani o infedeli cui s'accoda, lo chiamano Gurdurù o Gudi-Ussuf o
Ben-Va-Ussuf o en-Stanbùl o Pestanzùl o Bertinzùl o Martinbon o Omobon o
Omobestia oppure anche il Brutto del Vallone o Gian Paciasso o Pier
Paciugo. Può capitare che in una cascina sperduta gli diano un nome del
tutto diverso dagli altri; ho poi notato che dappertutto i suoi nomi
cambiano da una stagione all'altra. Si direbbe che i nomi gli
scorrano addosso senza mai riuscire ad appiccicarglisi. Per lui, tanto,
comunque lo si chiami è stesso. Chiamate lui e lui crede che chiamiate una
capra; dite «formaggio» o « torte » e lui risponde: « Sono qui ».
Due paladini - Sansonetto e Dudone - venivano avanti trascinando di peso
Gurdulù come fosse un sacco. Lo misero in piedi a spintoni davanti a
Carlomagno. - Scopriti il capo, bestia! Non vedi che sei davanti al re!
La faccia di Gurdulù s'illuminò; era una larga faccia accaldata in cui si
mischiavano caratteri franchi e moreschi: una picchiettatura di efelidi
rosse su una pelle olivastra; occhi celesti liquidi venati di sangue sopra
un naso camuso e una boccaccia dalle labbra umide; pelo biondiccio ma crespo
e una barba ispida a chiazze. E in mezzo a questo pelo, impigliati, ricci
di castagna e spighe d'avena.
Cominciò a prosternarsi in riverenze e a parlare fitto fitto. Quei nobili
signori, che finora l'avevano sentito emettere solo versi d'animali, si
stupirono. Parlava molto in fretta, mangiandosi le parole e
ingarbugliandosi; alle volte sembrava passare senz'interruzione da un
dialetto all'altro e pure da una lingua all'altra, sia cristiana che mora.
Tra parole che non si capivano e spropositi, il suo discorso era pressapoco
questo:
Tocco il naso con la terra, casco in piedi ai vostri ginocchi, mi dichiaro
augusto servitore della vostra umilissima maestà, comandatevi e mi obbedirò!
- Brandì un cucchiaio che portava legato alla cintura. - ... E quando la
maestà vostra dice: «Ordino comano e voglio », e fa così con lo scettro,
così con lo scettro come faccio io, vedete?, e grida sì come grido io: «
Ordinooo comandooo e vogliooo! » voialtri tutti sudditi cani dovete
obbedirmi se no vi faccio impalare e tu per primo lì con quella barba e
quella faccia da vecchio rimbambito!
- Debbo tagliargli la testa di netto, sire? - chiese Orlando, e già snudava.
- Impetro grazia per lui, maestà, - disse l'ortolano. – E’ stata una
delle sue sviste solite: parlando al re s'è confuso e non s'è più ricordato
se il re era lui o quello a cui parlava.
Dalle marmitte fumanti veniva odor di rancio.
- Dategli una gavettata di zuppa! - disse, clemente, Carlomagno.
Con smorfie, inchini e incomprensibili discorsi, Gurdulù si ritirò sotto un
albero a mangiare.
- Ma che fa, adesso?
Stava cacciando il capo dentro alla gavetta posata in terra, con il capo
dentro la gavetta posata in terra come volesse entrarci dentro.
Il buon ortolano andò a scuoterlo per una spalla. - Quando la vuoi capire,
Martinzùl, che sei tu che devi mangiare la zuppa e non la zuppa che deve
mangiare te!
Non ti ricordi? Devi portartela alla bocca col cucchiaio...
Gurdulù cominciò a cacciarsi in bocca cucchiaiate, avido. Avventava il
cucchiaio con tanta foga che alle volte sbagliava mira. Nell'albero al cui
piede era seduto s'apriva una cavità, proprio all'altezza della sua testa.
Gurdulù prese a buttare cucchiaiate di zuppa nel cavo del tronco.
- Non è la tua bocca, quella! E’ dell'albero!
Agilulfo aveva seguito fin da principio con un'attenzione mista a turbamento
le mosse di questo corpaccione carnoso, che pareva rotolarsi in mezzo alle
cose esistenti soddisfatto come un puledro che vuol grattarsi la schiena; e
ne provava una specie di vertigine. - Cavalier Agilulfo! - fece Carlomagno.
- Sapete cosa vi dico? Vi assegno quell'uomo lì come scudiero! Eh? Neh
che è una bella idea?
I paladini, ironici, ghignavano. Agilulfo che invece prendeva sul serio
tutto (e tanto più un espresso ordine imperiale!), si rivolse al nuovo
scudiero per impartirgli i primi comandi, ma Gurdulù, trangugiata la zuppa,
era caduto addormentato all'ombra di quell'albero. Steso nell'erba,
russava a bocca aperta, e petto stomaco e ventre s'alzavano e abbassavano
come il mantice d'un fabbro. La gavetta unta era rotolata vicino a uno dei
suoi grossi piedi scalzi. Di tra l'erba, un porcospino, forse attratto
dall'odore, s'avvicinò alla gavetta e si mise a leccare le ultime gocce di
zuppa. Così facendo spingeva gli aculei contro la nuda pianta del piede di
Gurdulù e più andava avanti risalendo l'esiguo rigagnolo di zuppa più
premeva le sue spine nel piede nudo. Finché il vagabondo non aperse gli
occhi: girò lo sguardo intorno, senza capire da dove veniva quella
sensazione di dolore che l'aveva svegliato. Vide il piede nudo, dritto in
mezzo all'erba come una pala di fico d'India e, contro il piede, il riccio.
- O piede, - prese a dire Gurdulù, - piede, ehi, dico
a te! Cosa fai piantato lì come uno scemo? Non lo vedi che quella bestia
ti spuncica? O piedeee! O stupido! Perché non ti tiri in qua? Non senti
che ti fa male? Scemo d'un piede! Basta tanto poco, basta che ti sposti di
tanto così! Ma come si fa a essere così stupidi! Piedeee! E stammi a
sentire! Ma guarda un po' come si lascia massacrare E tirati in qua,
idiota! Come te l'ho da dire? Sta attento: guarda come faccio io, ora ti
mostro cosa devi fare... - E così dicendo piegò la gamba, tirando il piede a
sé e allontanandolo dal porcospino. Ecco: era tanto facile, appena t'ho
mostrato come si fa ce l'hai fatta anche tu. Stupido piede, perché sei
rimasto tanto a farti pungere?
Si strofinò la pianta indolenzita, saltò su, si mise a
fischiettare, spiccò una corsa, si gettò attraverso i cespugli, mollò un
peto, poi un altro, poi sparì.
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