Occorrenze della parola libertà nelle Satire di Ludovico Ariosto


Dosso Dossi, Circe (o Melissa), 1515-1516

Ariosto, Satira I, vv. 115-120

 Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta
con la lira in un cesso, e una arte impara,
se beneficii vuoi, che sia più accetta.

Ma tosto che n'hai, pensa che la cara
tua libertà non meno abbi perduta
che se giocata te l'avessi a zara;

 
Nella Satira I Ariosto si rivolge al cardinale Ippolito d’Este e spiega i motivi per cui si è rifiutato di seguirlo in Ungheria nel 1517; Ariosto infatti parla inizialmente della rigidezza dei climi di quei luoghi, ma poi giunge subito al problema che intende toccare e per il quale l’affermazione precedente gli ha fornito solamente lo spunto, ovvero la sua condizione di povertà dovuta al disprezzo con cui il cardinale guarda le sue opere. Ariosto prosegue poi dicendo che Ippolito d’Este lo ricompensa esclusivamente per i servizi di carattere pratico che gli richiede, e che talvolta –Ariosto sottolinea- hanno messo addirittura in pericolo la sua stessa incolumità (“con la morte scherzo”, v. 114). Giungiamo così al verso 115; in esso Ariosto si rivolge a un altro artista della corte di Ferrara, Andrea Marone, poeta bresciano, e lo esorta ironicamente a gettare le sue opere in un “cesso” (v. 116), e a dedicarsi a un’altra arte se vuole sopravvivere e ottenere onori; il poeta però subito dopo obietta che per chi si sottomette al signore la libertà viene meno irrimediabilmente, come se la si avesse giocata “a zara”, cioè a dadi.

In questi versi Ariosto tratta un tema centrale nelle satire e in tutta la sua produzione letteraria, ovvero la rivendicazione della libertà dell’intellettuale, che non dovrebbe essere sottoposto alla volontà di un signore, al punto da dover temere, come Ariosto qui racconta, per il proprio benessere e per la propria sopravvivenza. Traspare da questi versi la condizione in cui, non solo Ariosto, ma tutti gli intellettuali dell’epoca rinascimentale vivono: la subordinazione al potere signorile, al quale eppure essi devono sottostare per poter vivere grazie appunto ai benefici loro concessi. La situazione personale di Ariosto è perciò sintomatica di un processo in realtà iniziato già a partire dal tardo Trecento e che è visibile già con Petrarca, che consiste nella lenta emarginazione degli uomini di cultura e in modo particolare dei letterati, i quali non avendo più una missione civile e politica da svolgere per mezzo delle loro opere, a differenza di quanto era avvenuto per esempio per Dante in piena età comunale, vengono progressivamente messi da parte, soprattutto all’interno di governi di tipo signorile, utilizzati dai duchi per svolgere attività di tipo diplomatico, e incaricati da essi di comporre opere di carattere encomiastico.
Nei versi esaminati Ariosto lamenta proprio questa condizione subalterna in cui si trova, ridotto a compiere mansioni pratiche e quasi servili, e soprattutto disprezzato per ciò che egli invece ritiene più importante, cioè l’attività letteraria.

 Ariosto, Satira I, vv. 160-168

 più tosto che arricchir, voglio quïete:
più tosto che occuparmi in altra cura,
sì che inondar lasci il mio studio a Lete.

Il qual, se al corpo non può dar pastura,
lo dà alla mente con sì nobil ésca,
che merta di non star senza cultura.

Fa che la povertà meno m’incresca,
e fa che la ricchezza sì non ami
che di mia libertà per suo amor esca;

In questi versi della satira I Ariosto, dopo aver detto di non essere in grado di svolgere nessuna delle attività tanto apprezzate a corte (“io non vaglio/ smembrar su la forcina in aria starne,/ né so a sparvier , né a can metter guinzaglio/”, vv. 142-144), ironizzando anche sui frivoli passatempi della vita mondana dei signori, espone chiaramente la sua ideologia, e afferma di preferire una vita anche povera, purché però tranquilla e dedita all’otium letterario (v. 162 e vv. 166-168). Molto evidente in questi versi è il modello costituito dalle Satire e dagli Epodi del poeta latino Orazio, al quale Ariosto guarda oltre che per il tono e la struttura della satira, anche per gli ideali stessi presenti nei componimenti satirici oraziani, come appunto l’aspirazione a un’esistenza modesta ma quieta, e indipendente da ogni servitù; entrambi gli autori inoltre sono accomunati dallo stesso sguardo ironico con cui osservano la vita degli uomini (in questo caso le futili attività di corte che Ariosto descrive.)

 Nei versi 163-165 però il poeta introduce un altro tema assolutamente centrale nell’ideologia ariostesca: la concezione altissima che egli ha della letteratura e della cultura in generale, che è il vero cibo (“pastura”, v. 164) di cui l’uomo deve nutrirsi. Ariosto proprio per questo rivendica per sé con forza autonomia dal poter politico, poiché desidera avere piena libertà per dedicarsi alla cultura. Questa concezione elevatissima dell’arte è un tipico tratto dell’età umanistico-rinascimentale, e corre parallela al processo di declassamento dell’intellettuale che caratterizza quest’epoca di mecenatismo solo apparente; la voce di Ariosto però spicca nel panorama degli autori a lui contemporanei perché la sua richiesta di libertà appare sentita e veritiera, e dietro essa si legge la sofferenza per la situazione precaria  e avvilente in cui suo malgrado si trovava a vivere.

 Ariosto, Satira I, vv. 262-265  

Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo et acro

renderli, e tòr la libertà mia prima.

Siamo nel finale della Satira I; la parola libertà, presente significativamente nell’ultimo verso del componimento, ne suggella la conclusione, e chiarisce al lettore il desiderio in Ariosto insopprimibile di indipendenza in quanto poeta e in quanto individuo, in obbedienza alla fiducia umanistico - rinascimentale nella possibilità e capacità propria dell’uomo di autodeterminarsi e di autorealizzarsi come meglio crede.

 Ariosto, Satira II, vv. 148-159

Ma chi fu mai sì saggio o mai sì santo
che di esser senza macchia di pazzia,
o poca o molta, dar si possa vanto?

Ogniun tenga la sua, questa è la mia:
se a perder s’ha la libertà, non stimo
il più ricco capel che in Roma sia.

Che giova a me seder a mensa il primo,
se per questo più sazio non mi levo
di quel ch’è stato assiso a mezzo o ad imo?

Come né cibo, così non ricevo
più quïete, più pace o più contento,
se ben de cinque mitre il capo aggrevo

 

Questi versi, tratti dalla satira II di Ariosto, ritornano sul tema della libertà sul quale è incentrata la satira I. Nella satira II il poeta, rivolgendosi al fratello Galasso, offre una descrizione critica e polemica della corte papale, caratterizzata dal lusso e dalla vacuità, e dalle invidie e dagli intrighi tipici dell’intera realtà cortigiana; all’interno di questo contesto (v. 148), l’autore dapprima ironizza sulle follie umane (tema questo molto caro al poeta, di origine oraziana), sorridendo con il distacco che caratterizza sempre l’io satirico ariostesco della vanità degli oggetti e delle ambizioni che preoccupano gli uomini –tratto che caratterizzerà anche l’Orlando furioso, che è per eccellenza il poema dell’ “incompiutezza umana” e delle inchieste fallimentari dei suoi personaggi-, poi il poeta torna nuovamente a rivendicare per sé una vita libera, e per questo lontana dalle corti (vv. 151-153). Ariosto, come ai versi 166-168 della satira I, dichiara qui di nuovo di preferire alla ricchezza la libertà di vita (vv. 153-155), e di prediligere un’esistenza più povera e modesta, ma tranquilla (vv. 157-159).

A partire da questi versi, dunque, risulta chiaro anche come le satire siano una chiave per comprendere il Furioso, e per comprendere come l’arte di Ariosto, per quanto talvolta fantasiosa, si sostanzi sempre di realtà, di uno sfondo amaro, sul quale egli intendeva riflettere e far riflettere.

 Ariosto, Satira VI, vv. 154-165

Ahi lasso! quando ebbi al pegàseo melo
l'età disposta, che le fresche guancie
non si vedeano ancor fiorir d'un pelo,

mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
non che con sproni, a volger testi e chiose,
e me occupò cinque anni in quelle ciancie.

Ma poi che vide poco fruttüose
l'opere, e il tempo invan gittarsi, dopo
molto contrasto in libertà mi pose.

Passar venti anni io mi truovavo, et uopo
aver di pedagogo: che a fatica
inteso avrei quel che tradusse Esopo.

In questi versi della satira VI compare nuovamente la parola libertà, e, come nella satira I, essa è di nuovo collegata alla letteratura; alla luce dell’esame delle concordanze di questo termine all’interno delle satire quindi si può affermare che Ariosto identifica la libertà nell’attività letteraria: è questa l’accezione che il termine libertà assume nelle satire, perché infatti secondo Ariosto è nella scrittura e nella cultura che la libertà dell’uomo si realizza nel modo più pieno e più profondo. Nel contesto della sesta satira in cui ricorre il termine esaminato Ariosto infatti, parlando della sua giovinezza, racconta che il padre inizialmente lo costrinse a dedicarsi agli studi giuridici, ma che poi, dopo aver constatato l’insuccesso del figlio in quell’ambito, lo “pose in libertà”, la libertà cioè –spiega il poeta- di dedicarsi agli studi letterari, come viene specificato nei versi successivi (cfr. vv. 163-165). Questa satira è anche interessante perché in essa Ariosto chiede consigli a Pietro Bembo, al quale è appunto indirizzato il componimento, su come educare il figlio Virgilio, e contemporaneamente ci parla anche della sua formazione, esprimendo rammarico per non aver potuto approfondire la conoscenza del greco (vv. 164-165), ed esaltando, in sintonia con la tradizione umanistica, la funzione incivilitrice della poesia.

 Ariosto, Orlando furioso, canto I, ottava 3

Piacciavi, generosa Erculea prole,

ornamento e splendor del secol nostro,

Ippolito, aggradir questo che vuole

E darvi sol può l’umil servo vostro.

Quel ch’io vi debbo posso di parole

Pagare in parte e d’opera d’inchiostro;

né che poco io vi dia da imputar sono,

che quanto io posso dar, tutto vi dono.    
 

 L’esame delle occorrenze della parola libertà nelle satire e la conseguente messa in evidenza del valore della letteratura come strumento principale che secondo l’ottica ariostesca e in generale umanistica l’uomo ha per realizzare la propria libertà servono allora a comprendere meglio la dedica al cardinale Ippolito d’Este dell’Orlando furioso, contenuta nelle ottave 3 e 4 del canto I del poema. In modo particolare nell’ottava terza Ariosto dichiara, analogamente a quanto già affermava nella satira I, di voler ricompensare il suo signore per i benefici ricevuti esclusivamente per mezzo dei suoi versi (cfr. v. 19-20, …“questo che vuole/ e darvi sol può l’umil servo vostro”); perciò persino in occasione di un momento tipicamente encomiastico, quale appunto la dedica del poema, Ariosto in realtà intende rivendicare con piena consapevolezza l’autonomia dell’intellettuale dalla corte e insieme la suprema dignità dell’uomo di lettere e della letteratura stessa.   

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