La grangia cistercense  ed i suoi sviluppi
Tratto da: http://www.matematicamente.it/informatica/ipertesti/Monachesimo/economia/lavoroagricolo.htm
 

I monaci Cistercensi nel corso del medioevo si dedicarono al dissodamento  delle terre incolte, al lavoro nei campi, ma soprattutto alla bonifica delle zone paludose. La terra appena bonificata assicurava una buona produttività, grazie ad esempio alla rotazione triennale. I Cistercensi favorirono  la nascita di aziende agrarie dipendenti dal monastero, chiamate grange (dal francese antico granche= granaio). Il patrimonio agrario dell'ordine monastico era dunque gestito modernamente per quei tempi grazie soprattutto agli interventi di dissodamento.

Il termine grangia è riferibile alla struttura edilizia e organizzativa, che ha il compito di far produrre reddito alle terre dell’abbazia, presiedendo alla conduzione dei conversi. Grangia è il termine latino che si usa per indicare il luogo dove si conserva il grano, ma indica anche il complesso degli edifici costituenti la struttura agricola e l’insieme della proprietà agraria.

Le grange cioè i fabbricati sorgevano ordinariamente al centro dell'unità agricola e formavano un grande cortile quadrato intorno al quale si allineavano le abitazioni, le stalle, i magazzini, le officine. Non mancava una piccola chiesa, ove riunirsi per la preghiera. Le grange  non potevano distare più di un giorno di cammino dall'Abbazia ove i conversi dovevano recarsi nei giorni festivi per assistere alle funzioni religiose e ascoltare il sermone dell'Abate.
Le proprietà che l'abbazia possedeva in luoghi più lontani erano date in affitto ( enfiteusi  )


Grazie alle "grange",  fu superato il problema della polverizzazione della proprietà, una situazione tipica dell'agricoltura medievale e fu possibile meglio amministrare il patrimonio delle donazioni.

L'abbazia di Lucedio

La campagna fra Trino e Vercelli era intorno al XII secolo in gran parte incolta a causa della persistenza di ampie zone paludose e di foreste: fu dunque necessario bonificare i terreni e metterli a coltura affinché potessero fornire una rendita. All'epoca esistevano ordini religiosi che non limitavano la loro azione alla cura spirituale dell'anima: uno di questi ordini era quello dei monaci Cistercensi, a cui fu donato il territorio a nord di Trino dal marchese Rainero dei Monferrato.
Qui venne fondata nel 1123 l'abbazia di Lucedio che, da quel momento, divenne uno dei luoghi più importanti dell'intero Vercellese, culla di una civiltà agricola che diede origine alla risicoltura e alla diffusione dell'attuale sistema agricolo.



Il complesso di Lucedio con l'antico campanile ottagonale
Immagine tratta dalla visita virtuale al sito web: http://www.principatodilucedio.it/


Con l'acquisizione della grangia di Gaiano, alla quale si aggiungevano le grange di Leri, Montarucco, Ramezzana,  Darola, Castelmerlino, si ebbe la massima espansione delle terre.  Tale struttura poteva nascere sulla base di complessi agricoli già esistenti, oppure essere costruita ex-novo. Essa godeva di notevole autonomia rispetto alla sede abbaziale che l'aveva costituita. I monaci di Lucedio seppero sfruttare al meglio il territorio, ricco di fontanili (falde acquifere sotterranee affioranti), coltivando il riso. Inizialmente veniva coltivato come spezia e poi sostituì il grano, molto più caro e raro, soprattutto in quel periodo. Nel Medioevo la pianura vercellese era infatti una vasta pianura malsana, separata dall'abitato da fitti boschi. I lavori effettuati dai monaci furono quelli di incanalare i vicini corsi d'acqua e di dissodare la brughiera. Non essendo ancora una pianta selezionata, il riso, poteva crescere anche su terreni acidi.
 


La zona delle grange a nord di Trino
 


L'ingresso nel complesso dell'ex abbazia di Lucedio


Il cortile interno dell'azienda


Una volta consolidata la proprietà fondiaria, si pensò anche di ricavare da essa una rendita: comparvero allora, anche se ancora sporadicamente, casi di affitto delle terre dell'abbazia (siamo verso il XIV e il XV secolo). A partire dal 1552, le grange vennero affittate dietro pagamento di un canone in denaro.
Nel 1792 Lucedio possedeva e coltivava ben 13.197 giornate, 78 tavole e 11 piedi di terreni, dotate delle  attrezzature necessarie, utilizzando tutte le forme di conduzione (diretta, mezzadria e affitto). In questo periodo l'economia agraria del Vercellese appariva ormai consolidata dal punto di vista delle conoscenze e delle pratiche agronomiche.

La seconda metà del Settecento vide lo sviluppo delle risaie e il consolidarsi di grandi aziende agrarie di proprietà ecclesiastica, di enti ospedalieri e della nobiltà. Al loro interno si svilupparono organizzazioni complesse, che, oltre allo sfruttamento delle terre, dovevano garantire anche gli sbocchi sui mercati delle loro grandi produzioni.

Si può recuperare un quadro generale dell'agricoltura del territorio utilizzando documenti di origine varia, raccogliendo notizie sull'amministrazione delle aziende, sui patti agrari, sui contratti di compravendita, sui rilevamenti a scopi fiscali. Raramente si sono conservati i documenti amministrativi delle aziende, in gran parte ancora orientate alla produzione di autoconsumo. Testimonianze precise si ritrovano in grandi aziende condotte ad economia, cioè in gestione diretta dalla proprietà. con l'intervento di dipendenti stipendiati. Uno di questi esempi è costituito dalle terre della grande abbazia di Santa Maria di Lucedio.
 

L'azienda di Lucedio e la sua organizzazione interna alla fine del XVIII secolo

Nel 1784 l'abbazia fu secolarizzata da Papa  Pio VI e ceduta a Vittorio Emanuele Duca D'Aosta. Passata a Napoleone in seguito all'occupazione  francese del Piemonte, fu da lui concessa, con  decreto del 1807, al cognato Principe Camillo Borghese, allora Governatore Generale del Piemonte.
 



Vue de la Grange de Montarucco - acquarello predisposto per il Principe Camillo Borghese
al momento della sua acquisizione delle terre dell'Abazzia di Santa Maria di Lucedio ( 1807 )


Successivamente, nel 1822, Lucedio passò sotto il controllo del Marchese Giovanni Gozani di San Giorgio, antenato dell'attuale proprietaria, che a sua volta, nel 1861, cedette la tenuta al Marchese Raffaele de Ferrari, Duca di Galliera, cui fu concesso il titolo di Principe di Lucedio.
Infine, nel 1937, l'intero complesso fu acquistato dal Conte Paolo Cavalli d'Olivola, padre  dell'attuale proprietaria e manager la Contessa Rosetta Clara Cavalli d'Olivola Salvadori di Wiesenhoff.

( Notizie tratte da:
http://www.principatodilucedio.it/italiano/storia.html  )

Dalla contabilità di Lucedio tenuta dagli agenti delle diverse grange emerge con ricchezza di particolari la struttura organizzativa di ogni unità produttiva Le tre parrocchie che esistevano nelle grange tenevano poi i registri di battesimi, matrimoni e sepolture offrendo notizie importanti sulle vicende demografiche della zona.
L'organizzazione dell'azienda di Lucedio alla fine del Settecento dipendeva dal più vasto Ordine Mauriziano
( proprietario di altre grandi proprietà in Piemonte ) che a sua volta doveva fare riferimento alla sede torinese, dove risiedeva il capace magazzino che raccoglieva i prodotti destinati al mercato.
 


Piano generale del Comune di Lucedio dedicato al Principe Camillo Borghese ( 1807 )
( Immagine tratta da L'Agro vercellese nei secoli XVII-XIX - Archivio di Stato di Vercelli )
 

Le unità produttive nelle quali era suddivisa la grande azienda di Lucedio hanno caratteristiche simili a quelle di altre unità produttive del Vercellese. Ai fini della conduzione dei terreni agricoli  era necessaria la suddivisione dei campi in gruppi omogenei, affidabili al lavoro di una singola famiglia supervisionata da un massaro.

Erano esclusi dall'affitto i boschi perché il legname, bene prezioso per l'energia calorica e per la costruzione degli strumenti di lavoro, era riservato alla Commenda. Solo le foglie dei gelsi, destinate all'allevamento dei bachi da seta, ed una piccola quota di legname erano riservate agli affittuari. Questi ultimi non potevano variare la destinazione colturale dei fondi e persino la rotazione delle colture, specialmente per le risaie.. Nel Vercellese il bestiame era un elemento importante vista la vasta utilizzazione di bovini sia per il lavoro dei campi che per la produzione di carne, latticini, formaggio e burro.

I grandi settori di attività determinavano le varie figure professionali:

 - alla semina ( sin dal momento della preparazione dei campi ) era legata la schiavenza, da cui il salariato fisso o schiavandaro, con le varianti di bovari, bergamini e manzolari.

   -  la cura, l'allevamento e la guida dei bovini era fondamentale per i lavori. Ogni bovaro aveva la cura di una o raramente due coppie di buoi che guidava nell'aratura dei campi, nella concimazione, nell'attacco ai carri e nel trasporto delle granaglie e di tutto quanto doveva essere spostato. Il bergamino aveva la cura della stalla, dedicandosi alla mungitura e ai vitelli lattanti. Il manzolaro custodiva i manzi d'allievo ed erbaioli.

  - l'aratura e la concimazione trovavano tutti i buoi sui campi, come il raccolto, quando si dovevano trasportare covoni sulle aie delle cascine per procedere alla battitura o trebbiatura del risone. Covoni e covini erano disposti in circolo per essere calpestati dagli animali sino ad ottenere chicchi che dovevano poi essere liberati dalla terra e dalle impurità attraverso un lungo lavoro di crivellatura.

- il personale era inserito in una struttura gerarchica con bovari e sottocapi bovari.

- dopo la semina la cura dei campi era affidata ai prataroli, a cui competeva la regolazione dell'acqua per l'irrigazione, particolarmente importante nel caso del riso, e la decisione del momento del raccolto, in funzione della maturazione dei frutti. I prataroli intervenivano anche nelle operazioni di battitura dei cereali.

- la lavorazione del risone nelle apposite piste da riso era compito dei pistaroli, che procedevano all'imbianchimento ed alla crivellatura. In alcune aziende esisteva una struttura specifica per la produzione di burro e formaggio, il casone dove operava un casaro, con i dovuti aiutanti.

    Intorno ai lavoranti fissi ruotavano i cosiddetti manovali, che operavano con contratti di durata annuale in contrapposizione agli avventizi, assunti per i momenti di particolare intensità dei lavori agricoli o per prestazioni limitate nel tempo. Gli avventizi, reclutati da appositi capi squadra ed impresari risiedevano all'esterno delle aziende.
Ai manovali fissi ed avventizi era affidata la cura delle acque, che dai canali principali si diramavano in rogge e roggette. Ogni anno dovevano essere pulite per garantire il regolare flusso nei campi per l'irrigazione, così come la portata sufficiente per muovere le ruote dei mulini, soprattutto per le piste da riso. Era anche indispensabile la cura degli argini e delle chiuse.
Taglio del fieno, semina, taglio e battitura dei cereali, taglio delle stoppie, trasporti dei raccolti, lavorazione del riso sono alcuni degli impegni a cui sono chiamati i manovali fissi ed avventizi.

Le donne svolgevano per lo più lavori a giornata: confezionavano, riparavano e lavavano i sacchi, mondavano il grano dalla veccia, rastrellavano i prati per il fieno e la paglia, soprattutto del riso, raccoglievano le pietre nei prati, stagionavano i fieni, mietevano e battevano il ravizzone, mondavano il riso.
Una particolare fase di attività era quella del taglio dei fieni, della monda del riso e della raccolta del prodotto con le punte eccezionali di lavoratori che necessariamente dovevano essere trovati all'esterno delle aziende. Capi squadra e impresari assicuravano il reclutamento della manodopera necessaria. I punti di riferimento di questo particolare mercato del lavoro erano alcuni comuni della pianura vercellese e della collina a sud del Po. Le aziende agrarie del Vercellese avevano determinato un'organizzazione del lavoro che coinvolgeva un vasto territorio in una sorta di complementarietà che è difficile trovare in altre zone del Piemonte.
Oltre alla caratteristica figura delle mondine c'erano gli airatori o aratori che intervenivano per la raccolta e la battitura dei cereali.
La loro provenienza era da Gabbiano, Odalengo, Cantavenna, Stroppiana, Varengo, Casale, Cerrina. L'indicazione nei documenti fa riferimento sia a comuni che a borgate.
 


Il cortile centrale dell'azienda di Lucedio -Immagine tratta dalla visita virtuale al sito web: http://www.principatodilucedio.it/
 

Il compenso dei lavoratori era funzionale alle mansioni e si divideva in due parti:

- in denaro: era stabilita ad anno per i salariati fissi, mentre per i manovali fissi poteva essere stabilita a giornata o a cottimo, così come per gli avventizi. Il cottimo poteva essere calcolato su un intero lavoro o fare riferimento alle unità di misura ( per giornata di semina del riso, di taglio o raccolta di fieno, per lunghezza di trabucchi per la manutenzione dei fossi, per prosie per il taglio delle stoppie, ).
 

- in natura: alla fine del '700 e all'inizio dell'800 i salariati fissi avevano a disposizione l'abitazione con l'orto, un pollaio ed un piccolo porcile normalmente con un animale. I gallinacei erano mantenuti con prodotti derivati dall'azienda ed il numero era proporzionale al ruolo ricoperto. Gli approvigionamenti annuali prevedevano per i salariati legati a schiavenza ( e per ogni schiavenza )12 emine di segala, 36 emine di meliga, 2 emine di riso bianco, 1 emina di fagioli e 300 fascine di legna.

Gli alimenti potevano essere acquistati all'interno dell'azienda a prezzi all'ingrosso.
 I beni in natura per gli avventizi prevedevano 1/12 del risone di prima battitura, 1/4 del risone ottenuto dalle tresche e 2/5 del risone ricavato dalle paglie di seconda battitura. Ove esistevano le piste da riso i pistaroli percepivano compensi basati sulle quantità delle singole operazioni: soprattutto imbianchimento, crivellatura,e innescamento.
 
Notizie tratte da:
Giuseppe Bracco, Uomini, campi e risaie nell'agricoltura del Vercellese fra età moderna e contemporanea, Unione agricoltori di  Vercelli e di Biella, 2002
 

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